Editore: Poiesis
Anno di pubblicazione: 2021
Anticipiamo qui l’introduzione di Cristian Muscelli.
Bruce Fink, oltre che per le traduzioni dell’opera di Lacan in inglese, è noto e apprezzato per la chiarezza e l’accessibilità del suo lavoro sulla psicoanalisi lacaniana. I suoi testi coniugano la ricerca della nitidezza espositiva, tipica dello stile anglosassone, con il rigore nella lettura e con l’originalità interpretativa del testo lacaniano. Per molto tempo, negli Stati Uniti, il riferimento a Lacan è stato limitato ad aspetti specifici connessi allo Strutturalismo, soprattutto a questioni culturali o a problemi filosofici sul linguaggio, e sono mancati tentativi di affrontare in termini rigorosi le novità della clinica psicoanalitica lacaniana e le sue basi teoriche. Merito certo di Fink è stato quello di proporre un Lacan psicoanalista, non teorico o critico culturale, e di aver ritenuto che questo fosse l’unico modo per sgombrare il campo dalle moltissime incomprensioni, inesattezze e deformazioni che si erano prodotte – e continuano a prodursi – nel mondo americano intorno a Lacan. L’uso della teoria di Lacan in domini diversi da quello psicoanalitico lascia Fink perplesso, soprattutto perché, soprattutto negli Stati Uniti, Lacan viene spesso criticato prima ancora di essere stato compreso.
Il lavoro di Fink è percorso da un tenace filo rosso che è forse la sua nota di maggior coerenza: l’attenzione alla pratica psicoanalitica. Teoria e prassi non sono mai slegati, e, anzi, il loro legame appare rafforzato proprio dalla capacità di Fink di coordinare e mettere a sistema quei punti del magistero lacaniano che sono spesso e perlopiù percepiti e trattati come separati, divergenti e inconciliabili. L’itinerario della sua riflessione procede dalla concezione del soggetto alla direzione della cura, due aspetti che sono sempre considerati due facce di una stessa medaglia. È convinzione dello psicoanalista americano, infatti, che non esista una Psicoanalisi, ma che “la psicoanalisi sia ciò che è praticato dagli psicoanalisti quotidianamente nei loro studi” [1], e che sia proprio l’impossibilità di riferirsi ad uno standard che obbliga a considerare vera l’ipotesi che la pratica della psicoanalisi agisca retroattivamente sulla teoria. D’altra parte, sappiamo bene come e quanto spesso sia Freud che Lacan abbiano, nella loro pratica, infranto le regole che loro stessi avevano stabilito (consigliare, commentare, etc.). Per la psicoanalisi, e per lo psicoanalista, l’armonia tra teoria e pratica è irrealizzabile perché impossibile è ricondursi a protocolli, impossibile applicare alla lettera i principi teorici come se si trattasse di un regolamento; ma è proprio questa impossibilità, allora, che deve essere posta come punto d’avvio della riflessione. Poiché la psicoanalisi è inseparabile dalla sua pratica, per Fink è di vitale importanza che la tecnica evolva costantemente, e che il suo sviluppo indichi regolarmente il suo riferimento teorico: «È cruciale indicare che tipo di pratica derivi logicamente da una teoria – altrimenti i clinici potrebbero finire per credere di condurre la loro pratica sulla base di una certa teoria quando invece è proprio quella teoria a indicare che ciò che fanno è sbagliato. Dobbiamo perciò essere in grado di produrre una “teoria della pratica” proprio come è necessario riflettere sulla messa in pratica della teoria» [2].
In questa necessità di tenere insieme teoria e prassi va rintracciato un certo “pragmatismo” dell’approccio di Fink, una direzione metodologica e speculativa per la quale è stato spesso criticato, fino al punto di ricevere l’accusa di aver “americanizzato” la psicoanalisi di Lacan, di averla, cioè, semplificata fino all’eccesso e di aver ecceduto nelle raccomandazioni pratiche intorno alla tecnica. Rispetto a tali critiche, Fink ha in più occasioni replicato che gli psicoanalisti francesi raramente forniscono indicazioni sulla tecnica e preferiscono discutere i casi in termini generali e astratti, e che così facendo si è potuta generare una crescente confusione intorno a cosa significhi una pratica lacaniana, fino a consentire che alcuni possano definire la loro psicoanalisi “lacaniana” quando in realtà non lo è affatto [3]. Del resto, se per la psicoanalisi lacaniana continua a essere difficile confrontarsi con altre prospettive rappresentate nell’IPA è, oggi, a causa della tendenza all’astrazione e alla condensazione che rende ai più oscura la lettera di Lacan. La sensazione che si ricava dalla lettura di Fink è, al contrario, che egli non voglia tenere per sé il godimento di una pagina misteriosa né che voglia godere della partecipazione a una pratica esoterica, e che voglia invece trovare il modo di far corrispondere con puntualità la teoria con la tecnica utilizzata nella pratica. Forse gioverebbe ricordare che proprio Lacan ha iniziato la ricerca di un modo di “matematizzare” la psicoanalisi, di sottrarla al capriccio delle interpretazioni pur tenendone ferma la natura di sapere insaturo. Il rigetto di sistematicità nella ricerca psicoanalitica è compiuto in nome della necessità di conservazione nel discorso psicoanalitico della forza del reale e della sua potenza nell’ontogenesi soggettiva, ma l’impossibilità di dire non esclude la possibilità di essere sistematici, e l’approccio di Fink mostra, per dirla con una battuta wittgensteiniana, che si può passare da una confusione non specificata ad una confusione sistematica. Fink, di certo, non risparmia le critiche all’approccio americano, del quale denuncia soprattutto l’insufficiente attenzione ai testi. Il paradosso che si compie è che Fink è sospettato di semplificare eccessivamente Lacan e, allo stesso tempo, che egli stesso denuncia l’eccesso di “semplicità” – e lo scivolamento nell’errore teorico-clinico – della psicoanalisi americana.
Il lettore avrà modo di constatare come Fink sia un attento e raffinato interprete del testo di Lacan. Seppure si concentri su aspetti specifici della teoria intorno al soggetto, il testo è punteggiato di riflessioni a tutto tondo sulla psicoanalisi, note che compendiano la visione di Fink su questioni molto spinose e spesso tralasciate, o che sono affrontate con poca chiarezza e facendo uso di un linguaggio spesso allusivo, aperto e non concluso [4]: la posizione dell’analista (la legittimità del suo operato), il fine analisi (la possibilità di superamento della malattia e della nevrosi in particolare), l’istituzione psicoanalitica (dove la questione del soggetto è ancora più essenziale: chi è il soggetto istituzionale?). Ne Il soggetto lacaniano sono contenute, anche in forma abbreviata, tutte le tesi che Fink continuerà a sviluppare nei suoi lavori successivi. Vorremmo isolare solo due punti per meglio inquadrare il contesto in cui l’elaborazione intorno al soggetto lacaniano assume la sua importanza: il primo è la posizione dell’analista nel processo analitico, il secondo il fine-analisi. Il contesto è, dunque, sempre la pratica analitica: solo il riferimento a quanto accade in seduta può stabilire la correttezza della riflessione teorica.
Fink sottolinea come la psicoanalisi lacaniana sia essenzialmente pragmatica: non è forse orientata al cambiamento? L’analisi lacaniana indica il cambiamento dell’economia libidica del soggetto quale vero risultato da perseguire nello stesso momento in cui propone l’abbandono dell’illusione del significato e denuncia l’inutilità della comprensione. Lo psicoanalista lacaniano sa che non vede la realtà dei fatti in modo più chiaro o in qualche senso migliore dell’analizzante, come pure sa che le sue idee su quanto sta accadendo all’analizzante sono il risultato della sua educazione, formazione, esperienza e fantasie – tutto ciò che si presenta nel setting in forma di linguaggio –, indipendentemente da quanto sia stata lunga e proficua la sua analisi personale: nessuno può smettere di essere un prodotto dell’ordine simbolico e l’accesso all’inconscio è possibile solo attraverso la mediazione del linguaggio [5]. Se non c’è e non può esserci alcuna oggettività che riguardi il significato – semmai, l’unico dato oggettivo è la costitutiva ambiguità del linguaggio – dovremo anche ammettere che nessuna interpretazione può sottrarsi a questo stesso destino.
C’è, inoltre, qualcosa di più rilevante in merito al valore dell’interpretazione in psicoanalisi che Fink sottolinea: l’esaltazione dell’interpretazione orientata alla comprensione è del tutto immotivata quando si pensi che l’obiettivo dell’analisi è il cambiamento. Il cambiamento può realizzarsi senza la comprensione e, anzi, la volontà di comprendere è molto spesso proprio ciò che impedisce il cambiamento – o che segnala la resistenza al cambiamento [6]. Il processo di interpretazione che si pone l’obiettivo di giungere al significato è dimentico di alcuni fatti: che il significato è sempre immaginario; che la produzione di significati è essa stessa un processo senza termine; che le possibilità di individuare significati si danno all’interno di un orizzonte di senso già definito, cioè all’interno di un discorso; che la ricerca di senso è un motivo fondamentale dell’atteggiamento della scienza moderna, una forma del sapere finalizza all’ottenimento del dominio e all’esercizio del controllo sulla natura e, soprattutto, su se stessi, e che, conseguentemente, allontana e disconosce l’inconscio.
Qualunque forma di comprensione è fuorviante e falsa perché non può non essere parziale, incompleta, provvisoria e, soprattutto, immaginaria, vale a dire, in breve, basata sul modo in cui vediamo noi stessi e i nostri interlocutori. La relazione immaginaria con l’analizzante genera un falso senso di padronanza nell’analista: questi assume il posto dell’Altro onnisciente, al modo di un dio capace di sapere ogni cosa e di prendere ogni decisione; l’assunzione di questa posizione finisce per ridurre l’analisi alla funzione di confessione religiosa, con l’implicazione della preghiera e dell’espiazione: l’analista, come sosteneva Foucault, viene ad essere un sacerdote[7]. Seppure debba provvisoriamente accondiscendere a giocare quel ruolo, non è da quella posizione che l’analista deve interpretare. L’analista prodigo di spiegazioni intorno ai sintomi dei suoi analizzanti dà il suo sapere (quello che ha) invece di dare la sua mancanza (quello che non ha) e induce l’analizzante a domandare piuttosto che a desiderare, lo costringe a rimanere alienato piuttosto che a separarsi. Questo significa che l’analisi non si applichi in alcun modo alla ricerca della verità del soggetto? Si tratta di definire cosa intendere per verità analitica, come scrive Fink: «Si può quindi sostenere che il tipo di verità “svelata” dal lavoro psicoanalitico non abbia nulla a che fare con il significato e che, se anche i “giochi” matematici di Lacan possano sembrare puramente ricreativi, la sua convinzione fosse che un analista impara ad essere abile nell’affrontarli, nel decifrarli, e nello scoprire la logica che li sostiene. È il tipo di decifrazione richiesta da ogni incontro con l’inconscio: nell’inconscio – e in quanto inconscio – il linguaggio è impegnato nella cifratura. L’analisi comporta quindi un processo di decifrazione significante che si traduce in verità, non in significato» [8].
L’interpretazione non deve fornire né avere di mira il significato, perché il significato è strumento (non solo un esito) della razionalizzazione, che a sua volta tiene lontano l’inconscio; l’interpretazione deve invece farsi garante della necessità che il soggetto parli (non “comprenda”) degli eventi e delle fantasie che hanno marchiato la sua infanzia e la sua intera storia: che il soggetto metta in parole l’indicibile attraverso il reperimento di quei significanti che lo hanno inchiodato affinché corrispondesse alla domanda d’amore, e che sia pure capace di dire del suo godimento, che non ha a che fare con la “verità”, e dunque non può essere descritto puntualmente, ma che «esiste, e bisogna che si possa parlarne» [9]. Il modo per compiere questa speciale interpretazione, che non ha a che fare con il significato, è la “scansione” della seduta attraverso la punteggiatura, l’interruzione, il taglio. Lacan, su questo punto, è stato esplicito e definitivo: «il taglio è indubbiamente la modalità più efficace dell’interpretazione analitica. (…) è uno dei metodi più efficaci del nostro intervento. Dobbiamo sapervi insistere e applicarci a esso» [10]. Attraverso il taglio, insiste Fink, si può realizzare quell’interpretazione fuori senso che invita il soggetto a parlare e lo accompagna ad incontrare la castrazione e la separazione: il soggetto in analisi deve realizzare che nessuna spiegazione potrà mai essere completa e che nessuno ha tutte le risposte.
Siamo agli obiettivi ultimi dell’analisi lacaniana, ed è questo il secondo punto che vogliamo sottolineare circa la riflessione di Fink. Posto che ciò che comunemente viene definito “insight” è del tutto irrilevante per il processo analitico e che la frustrazione dell’analizzante per la sua incapacità di comprendere non è di alcun ostacolo al potere trasformativo della psicoanalisi, ciò che deve cambiare non è neppure cosa o il modo in cui l’analizzante pensa di sé e delle sue fantasie: deve cambiare, sostiene con fermezza Fink, la posizione soggettiva rispetto al proprio modo di soddisfarsi. Non è attraverso la comprensione e lo sviluppo infinito dei significati che un’analisi – e un soggetto – può procedere, perché obiettivo dell’analisi non è l’apparizione e la costituzione di un Altro che conforti e rassicuri; al posto dell’Altro la psicoanalisi lacaniana pone l’oggetto (a), che non può essere detto ma ha consistenza logica e capacità effettiva di riconfigurare l’economia libidica del soggetto. Questo è uno dei punti di insistenza della riflessione di Fink: l’analisi può procedere oltre la “roccia della castrazione” e condurre il soggetto ad una condizione di “al di là della nevrosi”. Occorre però rivedere, appunto, la nozione di soggetto e seguire una conseguente traiettoria speculativa e pratica.
Il risalto concesso al desiderio, all’obiettivo analitico di (ri)mettere in movimento il desiderio del soggetto liberandolo dal desiderio dell’Altro, può produrre il fraintendimento per cui sia proprio questo l’obiettivo ultimo della psicoanalisi [11]. Certamente lo è nelle prime fasi dell’analisi e Lacan stesso per un lungo periodo considerò il desiderio come l’elemento cruciale di un’analisi riuscita: è il periodo, per così dire, della prevalenza del simbolico, quando Lacan pensa al desiderio soggettivo come un effetto della struttura significante nella quale prende il suo posto. Questo Lacan – con particolare riferimento ai Seminari VII e VIII – è quello che pensa che un’analisi debba produrre un certo esito: un desiderio “deciso”. Ma il Lacan successivo smette di intendere il desiderio come la forza sovversiva capace di portare il soggetto oltre la nevrosi perché il desiderio è comunque subordinato alla legge: che cerchi di trasgredirla o che la assuma per rispettarla, il desiderio è interamente dipendente dalla legge, ossia dall’Altro: il desiderio nasce e rimane iscritto, comunque, nel campo dell’Altro. Un risultato opposto a quello cercato dall’analisi, che resta quello di separare il soggetto dall’Altro. Il soggetto lacaniano descritto da Fink è, o può essere, qualcos’altro rispetto alla pura mancanza che dà origine al desiderio descritta dal primo Lacan, qualcosa che può esistere al di fuori dell’Altro, se solo lo facciamo coincidere con l’inconscio freudiano: l’inconscio come luogo delle pulsioni, ineducabili, incuranti delle approvazioni, delle convenienze, capaci di ottenere sempre la loro soddisfazione [12]. L’esperienza clinica conferma la teoria: «Per quanto sia strano, le pulsioni sono ciò che l’analizzante spesso descrive come la cosa a lui più estranea, più Altra, quando viene in analisi per la prima volta: “Non è quello che voglio, ma mi ritrovo a goderne comunque”. In termini freudiani, il soggetto desiderante può, in un certo senso, essere pensato come l’io (in parte cosciente e in parte inconscio) che si difende dal tipo di soddisfazione che l’Es cerca. L’io trova discutibile e minacciosa la ricerca di soddisfazione dell’Es, perché l’Es non presta alcuna attenzione alle norme sociali e agli ideali nella sua selezione di oggetti e orifizi, di partner e pratiche» [13]. Lacan passa dalla concezione del soggetto come desiderio inconscio all’identificazione del soggetto con la pulsione: l’essenza del soggetto umano, la cosa che maggiormente conta, non è più il movimento metonimico ed incessante del desiderio, bensì la soddisfazione. Il soggetto lacaniano diventa il soggetto acefalo della pulsione che è in cerca di soddisfazione, e questo è il soggetto messo a tacere, limitato e soggiogato tanto dall’io e dal super-io quanto dal desiderio stesso, da un desiderio che, in quanto formazione di linguaggio, è possibile e si costituisce solo all’interno e dall’interno del discorso dell’Altro, il discorso che contiene i valori, gli ideali, i desideri dell’Altro. Se prima Lacan pensava al soggetto come a ciò che tiene sotto controllo l’urgenza delle pulsioni per la loro stessa soddisfazione, e dunque come a una difesa dal godimento sregolato, poi considererà il soggetto come coincidente con la pulsione: per conseguenza, il fine dell’analisi (con i nevrotici) sarà il lavoro del soggetto affinché il desiderio non impedisca la soddisfazione pulsionale e cessi di costringere l’analizzante ad ottenere una soddisfazione solo attraverso il sintomo, attraverso l’insoddisfazione. Il problema che l’analisi deve affrontare è, prevalentemente, che il desiderio non ne vuole sapere di quale siano le vere condizioni (oggetti, situazioni, etc.) per la realizzazione della vera soddisfazione. La conclusione è netta: «L’analizzante deve ricostituirsi non in relazione alle domande o ai desideri dell’Altro ma in relazione all’oggetto parziale che causa soddisfazione: l’oggetto a» [14].
Sappiamo che Lacan cambia la sua teoria intorno alla pulsione: la pulsione è inizialmente riferita alla domanda dell’Altro, a quel circolo interminabile nel quale c’è un rimando continuo della domanda tra soggetto e l’Altro (ti domando di domandarmi, all’infinito). Nel Seminario XI Lacan propone una teoria della pulsione che ne fa un’istanza svincolata dall’Altro e dalla domanda, impegnata nel giro solitario intorno al suo oggetto. Fink, però, propone di interpretare questo cambiamento teorico nella dottrina di Lacan come un effetto, ancora una volta, della pratica: egli vede questa variazione della natura della pulsione più come l’effetto conclusivo di una trasformazione (della pulsione) attraverso il processo analitico, cioè come un cambiamento che si produce lungo il percorso dell’analisi. Non si tratta di una mera questione teorica, dunque, ma di una possibilità concreta che ha l’occasione di compiersi in un’analisi: all’inizio di un percorso analitico la pulsione è soggiogata dalla domanda dell’Altro, poi l’analizzante può realizzare come il suo desiderio sia determinato dal desiderio dell’Altro e come questo desiderio – supportato dal fantasma – impedisca di riconoscersi soggetto della pulsione e di trovare soddisfazione, e, infine, il soggetto può permettersi di riconoscersi in quanto pulsione, rendendo così la pulsione libera di perseguire l’oggetto a. Un itinerario tripartito che è osservabile come il destino del soggetto in analisi: il soggetto è prima dominato dall’Altro della domanda, poi dall’oggetto a in quanto desiderio dell’Altro (che viene assunto dal soggetto come suo proprio desiderio), e infine il soggetto si riconosce come soggetto pulsionale non in relazione all’Altro ma agli oggetti a. Fink, alla scuola di Miller, ricorda e spiega dettagliatamente che il soggetto come pulsione è la destinazione di un percorso analitico: in quanto domanda è immerso nel registro immaginario, come desiderio è istanza dell’ordine simbolico, come pulsione è soggetto nel reale. Sono le tre facce del soggetto, delle quali solo l’ultima è capace di procurarsi una soddisfazione reale. Questo non significa certo che il soggetto debba diventare, attraverso l’analisi, una macchina sempre in cerca di piacere! Significa, piuttosto, che il lavoro analitico debba essere tale per cui, da una parte, il desiderio cessi di essere impedimento alla soddisfazione pulsionale, e, dall’altra, il soggetto possa finalmente autorizzarsi a riconoscere e accettare la sua natura pulsionale e la soddisfazione che cerca.
Si tratta, come recita il sottotitolo del libro, di un soggetto tra linguaggio e godimento, che può avere o l’uno o l’altro, ma non entrambi, se non nel suo fantasma.
Note
- B. Fink, “On the value of the Lacanian approach to analytic practice”, in International Journal of Psychoanalysis, vol. 100, n. 2, 2019, pp. 315-332. [⇡]
- Ibidem, p. 275. [⇡]
- A questo tema Fink ha dedicato la postfazione del suo Fundamentals of psychoanalytic technique. A Lacanian approach for practitioners, Norton, New York 2007. [⇡]
- La chiarezza delle riflessioni di Fink induce anche a interrogarsi su quanto sia legittimo abdicare alla trasparenza quando si trattano argomenti etici e deontologici, argomenti dunque pubblici, non interni alla relazione transferale. [⇡]
- B. Fink, “What’s so different about Lacan’s approach to psychoanalysis”, in The Psychoanalytic Review, vol. 98, n. 6, dicembre 2011, pp. 843-869. [⇡]
- Vedi B. Fink, “Against understanding: why understanding should not be viewed as an essential aim of psychoanalytic treatment”, in Journal of American Psychoanalytic Association, vol. 58, n.2, pp. 259-285; B. Fink, Against understanding, 2 voll., Routledge, New York 2014. [⇡]
- M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 53-68. Se c’è una figura di riferimento, o di ispirazione, è semmai quella del maestro Zen, cui Lacan fa riferimento in alcune occasioni, ad esempio nelle prime battute della prima lezione del Seminario I (J. Lacan, Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud. 1953-1954, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2014, p 3). [⇡]
- Infra, Parte 1, cap. 2, “L’inconscio assembla”. [⇡]
- J. Lacan, Il Seminario. Libro XIX …o peggio. 1971-1972, Einaudi, Torino 2020, p. 224. [⇡]
- J. Lacan, Il seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione. 1958-1959, Einaudi, Torino 2016, p. 535. [⇡]
- Su questo tema Fink ha scritto una chiarissima sintesi che si trova nel capitolo 10 del suo A clinical introduction to Lacanian psychoanalysis. Theory and technique, Harvard University Press, Cambridge 1997, pp. 205-217. [⇡]
- Fink riconosce il suo debito verso Jacques-Alain Miller per l’elaborazione delle sue ipotesi, con riferimento soprattutto al seminario “Donc” del 1993-1994 (inedito). [⇡]
- B. Fink, A clinical introduction to Lacanian psychoanalysis. Theory and technique, cit., p. 276. [⇡]
- Ibidem, p. 209. [⇡]