Etnopsichiatria dell’Occidente: impotenza appresa, colonizzazione dell’immaginario, nostalgia del futuro


Siamo onorati di presentare, con grande emozione, un importante scritto di Piero Coppo[1], la cui recente scomparsa ha lasciato in tutti noi un profondo dolore. Ringraziamo i colleghi del Centro Studi Sagara per averne consentito la pubblicazione.

1. Da dove parlo

L’etnopsichiatria ha una storia: prima, coloniale (la follia degli altri indagata con i criteri della nostra psichiatria: Emil Kraepelin, John C. Carothers, ecc.); poi, più nobile, frutto dell’acquisizione di uno sguardo multiculturale e multidisciplinare su ciò che avviene altrove, ma anche qui. Il prefisso “etno” chiama oggi in campo le discipline umane applicate (antropologia, sociologia, storia, filosofia) come alleate della psicologia, psichiatria e psicoanalisi.

Dall’etnopsichiatria attuale possiamo guardare il presente (anche il nostro presente) da una posizione tendenzialmente meta-culturale, da una prospettiva conquistata attraverso l’esperienza dell’altrove (anche attraverso i documenti dell’antropologia, della sociologia, della storia).

L’antropologo Ralph Linton sottolineava che il pesce non può vedere l’acqua in cui nuota, che pure è quella che gli permette di vedere. Per coglierne le particolarità, dovrebbe fare l’esperienza di un’altra acqua, quella di un altro acquario (lo “spaesamento”). Si può fare etnopsichiatria di questo mondo solo conoscendone altri, radicalmente diversi. L’etnopsichiatria alla quale mi riferisco (alcuni dei maestri: George Devereux, Henri Collomb, Ernesto de Martino, Tobie Nathan, Michele Risso, Franco Basaglia, Sudir Kakar, ecc..) nasce proprio dall’esperienza dello spaesamento, dalla possibilità di cambiare gli occhiali che portiamo [2]

2. Psichiatria

Caratteristica di ogni cultura è istituire una normalità; poi, prevedere una particolare messa in forma delle anormalità e delle loro cure. Nell’Occidente il campo che qui ci interessa, quello dell’anormalità e della sua interpretazione e gestione operativa, è competenza, nell’ambito delle scienze, anche (ma non solo!) della psichiatria. La psichiatria, insieme alla psicologia e alle psicoanalisi, è l’istituzione alla quale in questo mondo (e a partire dagli Enciclopedisti e dall’Illuminismo) si affida la lettura e la cura delle sofferenze eccessive, anche prive di cause organiche evidenti.

Dato che queste sono le discipline e le istituzioni alle quali è affidata qui l’analisi e cura dei disturbi di “psiche” (o, come altri dicono, dell’anima, dello spirito, della mente) allora un buon punto di partenza in una prospettiva multiculturale è prima di tutto uno sguardo “come da fuori” sui loro fondamenti e pratiche. La psichiatria può, come fa la medicina, presentarsi come “scienza” e pretendere l’ultima parola sulla natura e cura delle sofferenze umane che non hanno origini decifrabili come le malattia del e nel corpo? In altre parole: la psichiatria ha o no il diritto di disabilitare tutte le altre teorie e pratiche relative alla salute e alle sofferenze della componente immateriale degli umani?

La “diagnosi” psichiatrica è aleatoria e spesso sbrigativa. Diceva un’antipsichiatra: “La diagnosi è una spada che spezza il cuore della gnosi”. Tuttavia dal punto di vista tecnico, burocratico, amministrativo e gestionale è indispensabile disporre di una diagnosi universalmente condivisa.

Due sono oggi le nosografie accreditate. ICD 10 (International Classification of Diseases), classificazione statistica internazionale delle malattie e dei problemi sanitari correlati, fu adottata nel 1960 dall’ Assemblea Mondiale della Sanità (WHA). E’ in vigore dal 1993 e riguarda tutte le malattie sia del corpo che della psiche. DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), è la classificazione dei disturbi mentali a opera dell’American Psychiatric Association giunta alla quinta edizione (2013), adottata in tutto il mondo come classificazione dei disturbi psichici. “Disturbi”, in questo caso, non “malattie”, perché in psichiatria non vale la sequenza logica in grado di fare verità nel sapere medico (sequenza sintomo-sindrome-malattia e, poi, ma alla fine, diagnosi, prognosi e terapia). Non ci sono, nei diversi disturbi di competenza psichiatrica, dei “testimoni affidabili” [3] che motivino la scelta di un farmaco come terapia eziologica, rivolta cioè a una causa morbosa identificata (come, per esempio, si può fare in medicina prescrivendo un antibiotico attivo contro lo Streptococcus pneumoniae in caso di meningite grave di cui il laboratorio abbia dimostrato l’agente patogeno). In medicina, il “testimone affidabile” dimostra il suo potere patogeno quando nei laboratori si trasmette dal malato al sano; in psichiatria non ci sono simili testimoni affidabili che, prelevati da un malato, per esempio di schizofrenia, possano generare malattia analoga nel sano. Le nominazioni che si vorrebbero “diagnosi” non sono perciò eziologiche (causa) ma affidate alla lettura di sintomi e sindromi (costellazioni di sintomi che si presentano insieme in modo statisticamente rilevante in certe culture e non in altre) e, soprattutto, sostenute dall’efficacia sintomatica di particolari farmaci (diagnosi ex-iuvantibus). Gli psicofarmaci sono quindi prescritti non perché riconosciuti come attivi sulle cause (l’eziologia) di quei determinati disturbi psichici, ma perché attivi su un insieme di sintomi affini presentati da determinate categorie di pazienti assemblati a partire da valutazioni statistiche e poi fissati nel DSM come “disturbi”.

Le molecole testate oggigiorno nei laboratori che si rivelano attive sui sintomi della sofferenza psichica sono derivate da quelle capostipiti scoperte nel secolo scorso per caso (serendipity). Sono loro, e le loro filiazioni, a istituire, attraverso test prima sugli animali poi sugli umani, i gruppi di pazienti a loro sensibili. Al loro disturbo si attribuirà un nome a partire dai sintomi principali che rispondono alla molecola sperimentata (ansiolitico, antidepressivo, ecc.). Anche per questo, perché legata alle incessanti innovazioni nella psicofarmacologia (che deve innovarsi continuamente per essere presente sui mercati), la classificazione del disturbi mentali è sottoposta a continui aggiornamenti (richiedendo a volte, per essere applicabile, doppie o triple diagnosi). Le manca la base certa di una diagnosi in assenza di un testimone affidabile che sveli la natura ultima della malattia [4]. Le alterazioni biochimiche nel Sistema Nervoso Centrale registrabili dalle macchine non sono la causa della psicopatologia, ma alcune delle manifestazioni somatiche di esperienze e vissuti patogeni che vengono prima, e da altrove.

Per esempio: i primi antidepressivi furono filiazioni derivate da un farmaco antitubercolare (l’Iproniazide) prodotto e testato su tubercolotici nel 1951 dai laboratori Roche. Con loro sorpresa gli sperimentatori constatarono la sua nuova efficacia non tanto contro i sintomi della tubercolosi, ma per il miglioramento dell’appetito e dell’umore dei malati. Fu il primo farmaco antidepressivo. I moderni inibitori della ricaptazione della serotonina non agiscono direttamente sulla causa della malattia, sugli eventi particolari che hanno determinato e determinano l’abbassamento del livello di serotonina; ma sul loro effetto su un organo: in questo caso, diminuendo la ricaptazione di un neurotrasmettitore nel Sistema Nervoso (e non solo quello Centrale). Rialzando il livello di serotonina, alcuni sintomi possono affievolirsi o scomparire.

Ancora. Il primo neurolettico fu scoperto nel 1950 da Henri Laborit, medico militare francese che cercava un farmaco che producesse una specie d’ibernazione artificiale, quasi un letargo, da usare sul campo dove non era immediatamente disponibile un’anestesia negli interventi chirurgici di urgenza in soldati gravemente feriti. L’intervento, indispensabile per la sopravvivenza, poteva essere a tal punto traumatico da portare alla morte. Occorreva quindi indurre nel ferito uno stato simile al letargo che ne inibisse le immediate e incontrollabili reazioni vegetative di difesa. Le ricerche su come costruire quei “cocktail litici” per la chirurgia di guerra produssero la Clorpromazina. Gli psichiatri subito la adottarono per far fronte all’agitazione di alcuni pazienti. Divenne così la capostipite dei neurolettici, le “camicie di forza chimiche” che rivoluzionarono, nel bene e nel male, la presa in carico di pazienti psicotici agitati con sollievo certo delle istituzioni di custodia, ma con l’effetto di mascherare nel paziente il trauma del processo in corso.

Il farmaco ha oggi in psichiatria una posizione dominante nel costruire la nosografia (che, poi, suggerisce il processo di cura) attraverso la funzione, condivisa con la cultura generale, detta di patoplastica: messa in forma, sempre provvisoria, dei disturbi (si veda la loro variabilità nei luoghi e nel tempo).

Tutto ciò in buona parte origina dai laboratori delle ditte farmaceutiche, non dalle scoperte e dalle riflessioni dei clinici.

A partire dagli effetti delle molecole capostipiti, a partire cioè da ciò che le nuove molecole fanno fare prima agli animali da laboratorio e poi agli umani, si identificano nuovi aggregati di sintomi che diventano sindromi senza cause acclarate e poi, infrangendo la coerenza e la regola epistemologica in medicina, “malattie”. Giustamente, le nuove classificazioni (DSM-5) non usano più la parola “malattia”, ma quella di disturbo meno impegnativa perché non allude alle cause ma solo alle manifestazioni. Nel campo della medicina, invece, si continua a parlare di “malattie” (ICD – V).

Tutto ciò non sminuisce assolutamente l’utilità clinica degli psicofarmaci che sono però da considerare come sintomatici. Anzi: i loro effetti sugli animali da laboratorio (a partire dai quali, attraverso un processo rigoroso, lungo e complesso le nuove molecole diventano farmaci anche per uso umano autorizzati dalla Food and Drug Administration americana) e il sollievo che portano al paziente (e a chi se ne occupa) forniscono indicazioni preziose sui disturbi di coloro che, usandoli, ne trovano vantaggio. Vista da questa prospettiva, l’efficacia di un antidepressivo in un paziente ne segnala l’intrappolamento in una situazione di vita analoga a quelle allestite nei laboratori dei farmacologi per la sperimentazione sugli animali: impotenza appresa, behavioural despair (comportamento disperato), nuoto forzato, sospensione per la coda, disperazione per isolamento e separazione [5].

Per rovescio, dunque, è l’efficacia del farmaco che fa la diagnosi e quindi costruisce teoria. A partire dai farmaci efficaci in quei determinati casi possiamo dire quale siano i problemi di vita di chi li assume con vantaggio: iperstimolati ma frustrati, in stato di impotenza appresa e quotidianamente confermata, ansiosi per lo stress, feriti dalla separazione e dalla solitudine, intrappolati e senza via di uscita.

Dunque: non c’è un “testimone affidabile” nel campo delle psicopatologie che ne certifichi le cause; la psichiatria non è una scienza; la diagnosi psichiatrica “spezza il cuore della gnosi” che altri approcci (per esempio quello fenomenologico o psicoanalitico e psicodinamico [6] ) invece favorirebbero. Informazioni e comprensione dello stato di salute di una popolazione si otterrebbero dunque, più scarne ma con minore nebulosità delle complesse valutazioni epidemiologiche basate per esempio sul DSM, dalle statistiche sull’uso dei farmaci (quali e quanti per annno) [7]. Nelle istituzioni sanitarie però sono comunque le “diagnosi”, pur epistemologicamente deboli, a comportare importanti conseguenze per l’amministrazione e per la vita dei pazienti.

La centralità conoscitiva in psichiatria è dunque quella delle neuroscienze che, in continue evoluzioni, svelano i meccanismi che stanno alla base delle sofferenze psichiche e suggeriscono i rimedi per trattarne (silenziandoli) i sintomi (non per debellarne le cause!!). E’ quindi dai laboratori farmacologici che scaturisce la “nosografia” psichiatrica operativa. Il resto non conta.

L’operazione, ricordava Stanislav Grof, psichiatra innovativo, è simile a quella di un automobilista che, vedendo accendersi una spia di allarme sul cruscotto, taglia il cavo che l’alimenta nell’illusione di risolvere così il problema e poter continuare il suo percorso.

Oggi sono attive nuove diagnosi, rese più o meno ufficiali dal DSM-5, che segnalano l’evoluzione della sofferenza e delle sue possibili messe in forma. Borderline e disturbi della personalità fanno saltare il cardine stesso della nosografia psichiatrica: la distinzione tra nevrosi e psicosi; e poi disturbi bipolari, disturbi alimentari, comportamenti suicidari e aggressivi, Hikikomori, ecc. [8]. Segni che, portando alla ribalta forme spurie di sofferenza mentale così diffuse, fanno pensare, piuttosto che a una malattia particolare, a un difetto generalizzato di costruzione degli umani e delle loro protezioni, e, di conseguenza, al bisogno, non riconosciuto, di “iniziazioni” virtuose che ne portino a termine la costruzione.

Questo è ciò che avviene oggi e qui, nello stato attuale del “primo mondo”.

3. Ma: altrove?

Diversamente da quanto accadeva ai tempi di Sigmund Freud ed Emil Kraepelin, oggi molte sono le informazioni che vengono da altri mondi esplorati e descritti con precisione e attenzione da rappresentanti delle discipline che si riferiscono alla scienza. Ernesto de Martino è il primo a dover essere citato per l’accuratezza e la precisione dei suoi documenti su las Indias de por acá (così i Gesuiti chiamavano le culture italiane illetterate): le culture contadine e pastorali allora in via di modernizzazione. Su ciò che accedeva ne las Indias de allà (nei paesi sottosviluppati) giungevano le testimonianze opache di colonizzatori e militari. E’ solo verso la metà del secolo scorso che notizie su ciò che accadeva in altri mondi, purificate da ogni tentazione missionaria e coloniale, potevano circolare dentro e fuori i circoli degli esperti.

Per esempio, il Programma Medicina Tradizionale della V Regione in Mali, progetto di cooperazione internazionale finanziato dal Ministero degli Esteri italiano e coordinato dall’Istituto di Psicologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Roma, poté portare in Mali verso gli anni ’80 un gruppo di studiosi con le loro domande, scaturite anche dopo il fermento dei decenni precedenti nel campo delle discipline umane e in particolare della psichiatria e della psicanalisi. Dei risultati di quella missione riporto qui brevemente alcuni dati, rinviando alla bibliografia relativa per maggiori informazioni [9].

Tra la popolazione dogon dell’altopiano di Bandiagara fu eseguita tra il 1985 e il 1990 un’inchiesta epidemiologica utilizzando metodologie standardizzate proposte dall’OMS per ricerche anche in ambiti transculturali. Non furono rilevate sindromi depressive nei contesti agricoli e pastorali ma solo, e con una frequenza minima, in ambiti locali acculturati (impiegati nell’amministrazione e nell’educazione, personale sanitario, ecc.). Nel corso della presentazione di quei risultati in convegni scientifici in Italia e Canada, furono avanzate diverse ipotesi. La prima: in culture “primitive” il disturbo depressivo si sarebbe manifestato solo come disturbo somatico per mancanza, in quei popoli, di capacità di astrazione (da notare che nei decenni precedenti alcune missioni francesi di antropologi e psicologi avevano registrato, nelle stesse popolazioni, miti e cosmovisioni di estrema complessità ed elaborazione). La seconda, proposta da uno tra i principali studiosi del comportamento dei primati non umani: c’è solo un modo per deprimere una scimmia: isolarla. E quindi era naturale che in popoli ad alta struttura comunitaria il fenomeno depressivo fosse molto più raro.

I guaritori dogon esperti in quelli che noi chiamiamo “psicopatologie” con i quali abbiamo più a lungo collaborato, distinguevano due forme di “follia”. Quella più frequente, “calda”, si esprimeva con floride manifestazioni: aggressività, violenza, allucinazioni, deliri. Se i pazienti venivano messi in sicurezza in modo che non nuocessero a se e agli altri, la crisi dopo uno-due mesi rientrava senza sequele (ma indicando una predisposizione: poteva recidivare con le stesse modalità). La seconda, “fredda”, molto più rara, si affermava insidiosamente e alla fine coinvolgeva tutto il corpo. Allora diveniva incurabile e portava a una cronicità deficitaria. Questa distinzione corrispondeva a quella adottata dalla psichiatria tra bouffée deliranti (transient psychosis) e i disturbi di natura schizofrenica. I guaritori ci misero in guardia: se utilizzate i vostri potenti farmaci neurolettici ritardo con la follia calda, la trasformate in fredda impedendone la combustione e il consumo. Alla fine avrete molti più folli inguaribili come quei pochi che vedete qui per le strade.

In altri mondi, come in paesi africani o amazzonici, l’uso ritualizzato di sostanze vegetali “sacre” (il cui effetto è traumatico perché potenzia l’azione di alcuni neurotrasmettitori, come hanno documentato gli specialisti delle neuroscienze) in contesti rituali sapienti e di gruppo consente di “civilizzare” il viaggio fuori di sé, nei territori del caos e della morte, producendo una specie di vaccinazione contro altri sperdimenti senza ritorno.

Ho interrogato tre tra i più rinomati esperti dogon (Mali) delle “cose nascoste”: guaritori, alti iniziati incapaci di leggere e scrivere ma considerati nelle loro zone i più sapienti ed efficaci terapeuti delle malattie che noi chiamiamo psichiche. Ho chiesto loro cosa pensassero delle epidemie di forme depressive e disturbi alimentari che allora si registravano in Italia, soprattutto tra le giovani donne che a volte finivano per perdere le mestruazioni o per morire. Per due di loro si trattava di un attacco al nostro popolo da parte di un altro popolo: indeboliva gli uomini e le donne, non dava più loro il desiderio di vivere, toglieva loro la generatività. Era dunque nel campo della stregoneria che bisognava andare a guardare. Per un altro, il terapeuta più giovane, stava cominciando ad accadere ciò che le profezie avevano annunciato. E’ quando viene suonato con maggiore veemenza che la pelle del tamburo si rompe. Così è per la Terra: al culmine dell’intensità e della velocità della sua eccitazione, alla fine il serpente che tenendosi la coda in bocca la circonda per separarla dall’acqua lascia la presa e le acque la ricoprono spazzando via ogni cosa. In ogni modo, e su questo punto grandi o meno grandi iniziati erano d’accordo, è nel registro della stregoneria che bisognava come prima cosa andare a guardare.

La stregoneria. Dice il proverbio: non è nel giardino dello stregone che i bambini devono andare a giocare…

4. La Stregoneria del Capitale

L’eziologia stregonesca delle malattie gravi e della follia è un’eventualità che fa parte di molte visioni del mondo.

Philippe Pignarre, docente all’Università Parigi-VIII e Isabelle Stengers, dottore in filosofia all’Università libera di Bruxelles, ambedue collaboratori del gruppo di etnopsichiatria dell’Università St Denis di Parigi, pubblicarono nel 2005 un testo, tradotto in italiano nel 2016 (Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio, Ipoc, Milano), in cui mettevano in parallelo gli aspetti fondamentali del capitalismo maturo con le caratteristiche dei sistemi a stregoneria vigenti in altri contesti: americani, africani, orientali.

Molti studi recenti e passati da parte di antropologi, sociologi e psichiatri avevano sottolineato come la chiave “stregoneria” venisse utilizzata per descrivere gli effetti dell’avvento del capitalismo in paesi fino allora periferici. Si trattava, in molte di quelle culture, del modo più immediato di interpretare la dinamica del Capitale: sfruttamento delle forze vitali degli umani (fino a ridurli alla malattia o alla morte), non redistribuzione alle comunità di appartenenza dei guadagni e delle risorse così accumulate. In molti paesi l’accusa di stregoneria può ancora portare in tribunale, quando non venga giudicata direttamente in loco dai rappresentanti tradizionali dell’autorità, a volte in modo sbrigativo e con conseguenze nefaste.

Ho cercato di studiare l’importanza del sistema stregoneria nell’interpretazione e cura delle psicopatologie in Mali dovendo interrompere quel lavoro quasi alla fine perché implicava passaggi pericolosi per più ragioni. La più semplice nel commento di un amico, un vecchio dogon: “Voi avete la mafia, no? E ti metteresti a interrogare, da solo, andandotene in paesi dove non ti conoscono, come la mafia funziona e chi sono? La gente penserebbe: o sei un nemico, un gendarme; o uno che vuol diventare mafioso.” La più complicata: non c’è studio che non produca effetti sulla persona studiosa: modifica la sua visione del mondo e quindi i suoi comportamenti e pensieri. Oltre un limite, si studia la stregoneria solo entrando nel suo sistema [10].

Per trovare il nome da dare allo stato attuale delle condizioni di vita umane nei paesi dell’ipermodernità, bisogna, hanno scritto Pignarre e Stengers, rivolgerci verso saperi che abbiamo squalificato: “Ciò che riesce a far coincidere asservimento, messa al lavoro e assoggettamento alla produzione di quelli e quelle che, pure in libertà, fanno ciò che devono fare, ha un nome da molto tempo. Si tratta di qualcosa di cui i popoli più diversi, salvo noi moderni, sanno la natura temibile e verso cui conoscono la necessità di allestire, per difendersene, i mezzi adeguati. Questo nome è: stregoneria.”

Stregoneria, dunque, del Capitale: riduzione della possibilità (di pensiero, di azione, d’intrapresa di chi ne è oggetto-soggetto), messa al lavoro nella produzione-consumo, sottrazione della forza vitale altrui per proprio guadagno, colonizzazione dell’immaginario per sfruttare a proprio vantaggio la potenza generativa dell’immaginazione e del desiderio altrui.

Nel nostro lavoro d’insegnamento e formazione all’etnopsicoterapia rivolto a medici, psichiatri e psicologi siamo stati così costretti (grazie anche ai contributi degli iniziati di altre culture che da altrove ci guardano, quando non partecipino direttamente alle attività informative e formative che organizziamo) a riprendere le fila di un discorso critico e radicale sul presente che ci aiuti a leggere le dinamiche positive e negative con le quali ci confrontiamo. Alcuni di noi hanno dovuto così ripercorrere la storia del pensiero critico che molti anni fa era stato in grado di affrontare e comprendere ciò che stava avvenendo, in particolare nel passaggio dal dominio formale a quello reale del Capitale [11].

Andando a ripescare quei testi, si possono avere non poche sorprese per l’assoluta attualità di quelle considerazioni. Per citare solo alcuni degli Autori, Karl Marx, ovviamente; poi: Günter Anders, Herbert Marcuse, Hannah Arendt, Theodor Adorno, Walter Benjamin. E nella contemporaneità: Lelio Demichelis, Elvio Fachinelli, David Graeber, Byung-Chul Han, Renato Curcio, Bruno Latour, Isabelle Stengers, Eduardo Viveiros de Castro …

Nessuna nostalgia del passato, dunque; ma “nostalgia” di un altro futuro che, nonostante tutto, oggi è ancora possibile volere.

5. Che fare?

Per esempio e per cominciare: svelare le dinamiche stregonesche, fare cultura condivisa uscendo da ghetti specialistici, co-costruire situazioni protette dagli influenzamenti di cattura e generatrici di esperienze di vita, attivare pratiche cliniche di protezione e de-colonizzazione (tra le altre risorse per farlo quelle psicodinamiche, transculturali, esperienziali, ecc.).

Tornando al punto di partenza.

Impossibile limitarsi, per capire o per curare nelle condizioni presenti, alla psicologia, alla psichiatria, alle psicoanalisi (per quanto alcune, e non delle migliori, alla moda).

C’è una dimensione storica, culturale e politica immediatamente iscritta nelle forme del disagio contemporaneo che noi etichettiamo come “psichico”; c’è sempre, ma più che mai nella forma attuale di dominio che si è spinta fino a colonizzare le sorgenti del desiderio.

C’è anche una perfino imbarazzante sintonia con quanto hanno pensato e scritto quelli della Scuola di Francoforte (in particolare Adorno: Dialettica dell’Illuminismo, Minima moralia) e altri testimoni di ciò che avveniva in Europa tra prima e seconda guerra mondiale e poi oltre oceano, in quello che si configurava come punta avanzata della modernità (Hanna Harendt, Le origini del totalitarismo, La banalità del male Marcuse: Psicanalisi e politica; L’uomo a una dimensione).

Erano certo altri tempi, ma quei loro scritti risuonano fragorosamente nell’avvenuta colonizzazione dell’immaginario, nel dominio reale del capitale (Marx, Camatte J., Cesarano G.). Dove, come altri hanno detto (Débord G.), in girum imus nocte et consumimur igni: giriamo in tondo nella notte e veniamo consumati dal fuoco, presi come siamo in un cortocircuito perverso tra bisogno di futuro e nostalgia di ciò che è perduto; miscela che contribuisce a impedire al nuovo, all’inedito, di prendere forma ed emergere.

Oggi, quando la nostra cultura, come le altre, sta divenendo “cultura (etero-determinata) di massa” in sinistra risonanza con ciò che avvenne nella Mitteleuropa verso la metà del ‘900 (ma, oggi, con una uniformizzazione dell’umano già pre-fabbricato, ab ovo, in sintonia coi bisogni delle varietà di merci buone per ogni età) diventa attuale, anche dal punto di vista psicologico, ciò che altri già allora pensavano e scrivevano [12].

Se tutto ciò è vero, allora sparisce, tra le altre, la distinzione teorica e operativa tra psichiatria tout court e psichiatria sociale: la psichiatria nei paesi a capitalismo avanzato, più che “medica” è sociale per sé. Nel senso che la costruzione dell’umano, delle sue protezioni e delle sue crisi qui e ora non è più principalmente oggetto di riflessioni mediche, né prerogativa del singolo, delle sue elaborazioni e decisioni intime o di quelle del suo contesto immediato (famiglia, classe, luogo). E’ opera dell’intenzione del Capitale che, giunto alla sua fase di dominio reale, impone al vivente, che colonizza, i suoi obblighi e condizioni proponendo (a caro prezzo, poiché impedisce altri divenire) le sue offerte e le sue illusioni.

Davvero: non è nel giardino dello stregone …


Note

  1. Coppo Piero, Medico Neuropsichiatra, Direttore della Scuola di Psicoterapia di indirizzo psicodinamico e orientamento etnopsicoterapeutico del Centro Studi Sagara, segreteriascuola@centrosagara.it Testo per il Congresso della Società di Psichiatria Sociale, Sezione Svizzera Italiana, Mutamenti sociali e nuove forme del disagio psichico, Mendrisio, 12 Aprile 2019.  []
  2. Per Ernesto de Martino l’“etnocentrismo critico” è innanzitutto consapevolezza della nostra “ombra”: “L’etnografo è chiamato … a esercitare una epoché etnografica che consiste nell’inaugurare, sotto lo stimolo dell’incontro con determinati comportamenti culturali alieni, un confronto sistematico ed esplicito tra la storia di cui questi comportamenti sono documento e la storia culturale occidentale che è sedimentata nelle categorie dell’etnografo impiegate per osservarli, descriverli e interpretarli: questa duplice tematizzazione della storia propria e della storia aliena è condotta nel proposito di raggiungere quel fondo universalmente umano in cui il “proprio” e l’ “alieno” sono sorpresi come due possibilità storiche di essere uomo …” ( de Martino E., 1977, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino, 2002, p. 391)   []
  3. Un “testimone affidabile” è un’entità (germe, batterio, sostanza, ecc.) identificata in un soggetto malato che, trasportata in un soggetto sano, determina la comparsa della stessa malattia.  []
  4. Le alterazioni biochimiche osservate nel Sistema Nervoso Centrale non sono la causa della psicopatologia, ma alcune delle manifestazioni sull’organismo delle conseguenze di vissuti patogeni.  []
  5. Si vedano, per maggiori chiarimenti: Coppo P. 2005 Le ragioni del dolore. Etnopsichiatria della depressione, Bollati Boringhieri, Torino; Pignarre P. 2001 Comment la dépression est devenue une épidémie, La Découverte, Parigi  []
  6. L’approccio fenomenologico aiuta a capire il vissuto dell’altro perché è attento all’esserci-nel-mondo della persona, al suo vivere, al suo esperire: in Italia Bruno Callieri, Eugenio Borgna, Sergio Piro, Franco Basaglia ecc.  []
  7. Pignarre P. 2004 Le grand secret de l’industrie pharmaceutique, La Découverte, Parigi  []
  8. Per esempio: Rossi Monti M., 2012, Psicopatologia del presente. Crisi della nosografia e nuove forme della clinica, Franco Angeli, Milano; Lolli F., 2012, L’epoca dell’inconshow. Dimensione clinica e scenario sociale del fenomeno borderline, Mimesis, Milano.  []
  9. Per esempio: Coppo P. 1984 “Syndromes dépressifs et retard mental dans une communauté rurale africaine: anquête épidémiologique”, Psychologie Médicale, 16, 7: 1273-1276; Coppo P. 2007 Negoziare con il male. Stregoneria e controstregoneria dogon, Bollati Boringhieri, Torino; Coppo P. – A. Keita, 1989 Médecine traditionnelle. Acteurs, itinéraires thérapeutiques, Edizioni E, Trieste.  []
  10. Si veda per esempio: De Rosny E., 1996 Les yeux de ma chèvre, Plon  []
  11. Si veda per esempio: Coppo P. “Benvenuti nel regno della paranoia”, in Coppo P., S. Consigliere, S. Paravagna 2008 Il disagio dell’inciviltà. Forme contemporanee del dominio, Edizioni Colibrì, Milano  []
  12. Per esempio: Canetti E. 1960 Massa e potere, Adelphi, Milano, 1981; Adorno T.W, 1941, “Individuo e società. Abbozzi e frammenti”, in La crisi dell’individuo, Diabasis, 2010, pp. 53-97  []