Articolo pubblicato originariamente sulla rivista di Fascia A Miur “Paideutika”
n. 33 nuova serie – Anno XVII – 2021, pag. 31. Ibis ed.
Litorale ringrazia l’Autore per la gentile concessione
Still don’t know what I was waitin’ for
And my time was runnin’ wild
A million dead end streets and
Every time I thought I’d got it made
It seemed the taste was not so sweet
So I turned myself to face me
But I’ve never caught a glimpse
How the others must see the faker
I’m much too fast to take that test
(David Bowie, Changes)
Controfattualità dell’altrimentipsicopedagogico.
Cos’è l’altrimenti se non un controfattuale? È un avverbio che introduce il pensiero in una specie di universo parallelo, una sliding-door attraverso la quale un periodo ipotetico della (apparente) irrealtà crea mondi alternativi a quelli canonici e facilmente osservabili.
Cosa potrebbe essere, allora, l’altrimenti della pedagogia che reinterpreta il suo statuto epistemologico con strumenti clinici e psicodinamici? Probabilmente una dimensione in cui, in maniera controfattuale (Linsky, 1952), sia possibile immaginare come alcuni distaccamenti – parziali, insaturi – di grumi di senso della ragione psicopedagogica possano riorganizzarsi in dispositivi e in costrutti differenti dalla loro originaria disposizione, per proporre narrazioni e analisi parallele.
I grumi di senso dinamici del pedagogico smettono, per un po’, di essere agglutinati e si distaccano “come note” (direbbe Jankélévitch) per riordinarsi in “spartiti nuovi”, sebbene derivanti dalla stessa partitura musicale. Ma quando suoniamo le stesse note, sottraendole da accordi preesistenti e già consolidati, spostando (di poco o di molto) la loro altezza, la loro intonazione, il loro glissato, il loro riverbero, la loro durata e producendo magari dissonanze e complessità armoniche, noi tradiamo quegli accordi? Li sovvertiamo e li gettiamo alle nostre spalle come vecchi abiti in disuso? O li vivifichiamo, indicando i luoghi, i tempi e i modi in cui quegli accordi possono arricchirsi di nuove colorazioni, vaccinandosi da una condizione stagnante e museale?
A parere di chi scrive, mai come in questo tempo di “abisso culturale” (Sloterdijk, 2010) risulta necessario compiere lo sforzo coraggioso di provare a fornire nuovi grimaldelli alle humanities, senza rottamarne le tradizioni precedenti, ma con l’unico scopo di allargare il loro campo di analisi e di rendere “porosi” (Bion, 1984) i confini delle loro metodologie e dei loro statuti epistemologici. Provare, insomma, a produrre nuovi arrangiamenti (tanto per rimanere nella metafora musicale) sulle partiture che i loro percorsi hanno consolidato nel tempo, nel tentativo di renderli ancora orecchiabili, fertili e rispondenti alla malpadroneggiabilità euristica delle società contemporanee.
Per quanto riguarda la ragione pedagogica e il suo rigoroso impianto teorico tradizionale, una possibile analisi dell’altrimenti mi pare che oggi debba necessariamente fare i conti (per proporre il suo arrangiamento supplementare) con l’elevatissimo grado di umoralità data dai nuovi fenomeni politici e mediatici che l’educazione sembra contenere a stento. In altre parole, se le società ipermoderne procedono verso una velocissima e frammentaria ridefinizione delle loro caratteristiche antropologiche, come può l’educazione stare al passo di questa vertiginosa accelerazione e instabilità se non prendendo in carico la sua cifra emotiva? È possibile oggi, per le scienze pedagogiche, arroccarsi dietro steccati eminentemente razionali e cognitivi, mentre la società rischia di cadere nell’eterno ritorno di una crisi culturale dettata dalla pancia?
Le nuove Stimmungen che negli ultimi anni stanno mettondo sottosopra i rapporti tra i soggetti, le istituzioni educative e i nuovi romanzi di formazione (risultanti dall’incontro/scontro tra i primi due), sovvertono i grandi punti fermi della ragione pedagogica del Novecento: come osserva acutamente Fabbri (2019) pare essere tornata una pulsione di morte (Freud, 1920) che mira a destabilizzare le costruzioni della civiltà. Per questo motivo mi pare sia non solo utile ma necessaria la capacità di mantenere associata la riflessione pedagogica alla sua dimensione emotiva/affettiva e quindi psicodinamica, abbattendo i muri disciplinari che anche nell’Università demarcano saperi parcellizzati, a raggio corto, arroccati sui loro statuti esclusivi.
Tale altrimenti psicopedagogico ha la possibilità di generare non solo teoria ma soprattutto ricadute pratiche, cliniche, etico-politiche, riconsegnando all’educazione un ruolo non esclusivamente accademico ma soprattutto intellettuale, impegnato, cioè, nel decodificare le complessità del nostro tempo e possibilmente nell’indicare un antidoto alla crisi di cultura che è tornata a contraddistinguere le nostre società. Comprendere le trasformazioni antropologiche delle soggettività contemporanee passa da un’analisi delle sue dinamiche profonde, inconsce, che dall’individuale al collettivo ridisegnano la formazione dell’uomo.
La pedagogia non può essere associata esclusivamente allo studio dei modelli e delle forme di apprendimento, istruzione e valutazione. Se i pedagogisti, oggi, sentono di poter dire una parola ulteriore su quello che Jean Cocteau definiva “il cangiante quotidiano” probabilmente è perché, in forme diverse, si ribellano all’immagine di una pedagogia da allevamento intensivo, di una pedagogia ‘istituzione totale’, di una pedagogia dell’Invalsi, della misurazione, del prestazionale e del performativo.
E perché, in qualche modo, sono persuasi che ogni trasmissione di sapere avvenga solo a condizione che il sapere sia associato a una emozione, a un passaggio affettivo, a una dimensione transferale. E siccome, come diceva Italo Calvino, “l’educazione di qualcuno è sempre educazione del mondo intero”, l’educazione alle emozioni pare una vocazione non solo possibile ma necessaria. Necessaria per tornare a occuparsi del mondo, anche quando ci si occupa delle singole esistenze.
All’interno della dimensione affettiva dell’educazione, all’interno delle sue dinamiche, spesso e soprattutto inconsce, è possibile verificare il guadagno epistemologico dato dall’incontro tra la pedagogia e i saperi della psicologia e della psicoanalisi che sono alla base della relazione educativa.
Negli ultimi anni il dibattito scientifico internazionale è tornato prepotentemente a occuparsi dei fenomeni sociali, politici, antropologici, proprio attraverso questioni cliniche. La psicoanalisi torna a occuparsi di Kulturkritik, di analisi della civiltà, detronizzando la sociologia da quello che per tutti gli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio era stato un campo di sua esclusiva pertinenza divulgativa. Ma la prospettiva psicoanalitica non è solo un sapere clinico, una disciplina: è soprattutto un pensiero critico, uno strumento euristico che può affiancare gli statuti scientifici di altri saperi.
Le trasformazioni problematiche dei fenomeni culturali, politici, sociali del nostro tempo sono sempre lo specchio delle nuove forme di soggettività che lo caratterizzano: la formazione dell’immaginario collettivo passa innanzitutto attraverso la formazione dell’uomo che lo disegna, in maniera lenta, carsica ma continua. L’analisi dell’attuale crisi di cultura, pertanto, non può che trarre guadagno dall’analisi delle forme di soggettivazione che ne sono alla base, soprattutto attraverso le dinamiche profonde della loro dimensione psichica ed emotiva.
Volumi quali: La nuova economia psichica di Charles Melman (2018); L’età dello smarrimento di Christopher Bollas (2018); La città e le sue emozioni di Sarantis Thanopulos (2019); L’espulsione dell’Altro di Byung-Chul Han (2017); Il coraggio della disperazione di Slavoj Žižek (2017), solo per citare alcuni titoli, sono la prova di questa tendenza del dibattito internazionale negli ultimi anni. Per capire come si forma e come si trasforma una società occorre capire preventivamente come si formano e si trasformano le soggettività che la costituiscono. Il pallino del discorso, quindi, torna prepotentemente sulla questione della formazione dell’uomo, o come preferisco definirla, sulla questione della soggettivazione, termine che rappresenta il crocevia tra il discorso pedagogico, quello filosofico e quello psicoanalitico e indica il percorso di separazione e di crescita che costituisce autenticamente una esistenza, permettendo di “diventare ciò che si è”.
Il titolo di questo contributo, Le trasformazioni dell’Edipo pedagogico al tempo del sovranismo psichico, prova a muoversi su questa traccia: riflettere su un fenomeno antropologico recente attraverso la sua analisi psicopedagogica.
A corroborare questa linea, appare abbastanza indicativo il fatto che il Censis (l’Istituto di Ricerca di Giuseppe De Rita e del suo staff) abbia coniato il neologismo sovranismo psichico per la titolazione di un suo recente rapporto annuale (il 52°) sulla situazione sociale del nostro Paese, a rincarare la dose su quanto sia pregnante la cornice emozionale anche laddove si tratti di redigere una ricerca di tipo politico e socio-economico. Questa espressione ha riscosso subito molto successo e in pochi mesi si è allargata a macchia d’olio, al punto da essere stata inserita ufficialmente, proprio pochi mesi fa, nel dizionario online della Treccani, oltre a essere stata tradotta e utilizzata in tutto il mondo.
La mia tesi, che proverò a proporre in maniera breve in questa sede, è che il sovranismo psichico oggi rappresenta una forma di difesa e di resistenza a ciò che ho recentemente definito Edipo pedagogico (Pesare 2018), un modello che immagino come il vettore principale della soggettivazione e del legame sociale alla base della formazione dell’umano.
Da una decina d’anni, nel mio lavoro di ricerca e di scrittura, tento di legittimare una teoria psicopedagogica del soggetto e dei percorsi di soggettivazione ospitando al suo interno elementi teorici e clinici della tradizione psicoanalitica post-freudiana, soprattutto di orientamento lacaniano (ma non solo). Il senso di questa linea di ricerca è contenuto nell’idea lacaniana secondo la quale la soggettivazione (ossia l’insieme dei percorsi auto-educativi attraverso i quali ci formiamo come soggetti) avviene mediante il nostro incontro col discorso sociale, che ci determina ma che – allo stesso tempo – assumiamo in maniera singolare e irripetibile. In questo senso la soggettivazione altro non sarebbe se non una sorta di incontro: siamo costruiti, come soggetti, dall’incontro con l’altro, dalla parola dell’altro (l’altro del simile, della famiglia, della scuola, della società, della produzione culturale, artistica, musicale, sociale, che incontriamo). La storia della nostra formazione come soggetti è letteralmente strutturata dall’impatto degli incontri che abbiamo fatto nella nostra vita e attraverso i quali abbiamo costruito il nostro legame sociale.
Ma la condizione esistenziale di questo romanzo di formazione che ci struttura come soggetti è data da ciò che rende clinicamente possibile questa epifania dell’incontro con l’altro: l’Edipo pedagogico.
L’Edipo pedagogico.
Con l’espressione Edipo pedagogico intendo un modello che introduce all’interno delle dinamiche della relazione educativa la rilettura lacaniana dell’Edipo freudiano.
Ebbene, il mito di Edipo, che riveste sicuramente una importanza centrale nella storia della psicoanalisi, è riscritto da Lacan con una formulazione che ha implicazioni pedagogiche molto più pregnanti di ogni precedente e successiva formulazione della psicoanalisi classica. Lacan riflette sul fatto che l’Edipo, da Freud in poi, abbia fondamentalmente due radici di significato: quella di complesso, cioè di fissazione psicopatologica; e quella di struttura normativa, cioè di dispositivo formativo. Lacan privilegia quest’ultima lettura e non a caso sottrae il suo significato dalla dicitura di complesso (ossia psicopatologia), per definirla semplicemente come Edipo.
Quella di Lacan, pertanto, non è una teoria dell’Edipo classica, in cui, tanto per intenderci, la proibizione dell’incesto (come in Freud) costituisce semplicemente l’interdizione del desiderio sessuale del bambino nei confronti della madre, ma soprattutto rappresenta la “prima legge antropologica fondamentale”: quella che introduce il tema della separazione; la separazione del soggetto dall’idea prenatale dell’unità col mondo pulsionale. In altre parole, l’Edipo si configura come una struttura normativa che immette nel soggetto l’idea di una legge che regola la vita, che lo distoglie dal soddisfacimento immediato dei bisogni fisici e del mondo naturale e lo proietta nel mondo simbolico del linguaggio, delle relazioni, della cultura.
Detto con una frase sintetica, l’Edipo lacaniano è l’azione della cultura che separa il soggetto dalla natura.
Pertanto, si conviene nell’intendere la teoria edipica di Lacan come una teoria della castrazione simbolica. Ma questa castrazione non è più, come nella ricezione freudiana classica, la metafora della minaccia prepotente del padre, dispotico rivale che gode dei beni materni. Essa è simbolica, ossia è una frustrazione della tendenza a rimanere psicologicamente avviluppati nella fusionalità del maternage, cioè di un rapporto invischiante, incestuoso e mortifero dell’immediato oggetto di soddisfazione primaria. Questo oggetto (rappresentato nell’universo psichico del bambino dalla madre) anche in età adulta continua a vivere in rappresentazioni culturali successive di ritiro libidico nel familiare, nel proprio, nella chiusura all’esterno. Ebbene, l’Edipo, per Lacan, sarebbe quella struttura clinica che vaccina il soggetto da questo ritiro, lo emancipa da esso e lo immette nella prospettiva del mondo esterno, aprendolo ad altre possibilità di realizzazione extrafamiliare.
Lacan, in questo senso, non assegna tale funzione di separazione a quella figura che Freud identificava semplicemente col ruolo storico del padre. Ciò che permette all’Edipo di funzionare come dispositivo pedagogico è, in senso più lato, un terzo, una figura terza, cioè una funzione che può o non può essere incarnata da una persona ben precisa ma che fondamentalmente rappresenta l’intrusione del “mondo fuori” (della cultura) all’interno del “mondo interiore fusionale” (della natura), rendendo possibile la salute psichica e la costruzione di una vita autonoma.
Il terzo lacaniano, metafora della castrazione simbolica e condizione dell’Edipo pedagogico, permette al soggetto di emanciparsi dall’Uno materno, che non interessa (come lascerebbe intendere il termine stesso) esclusivamente il microcosmo dei rapporti personali con la figura della madre ma, più in generale, rappresenta proprio una impossibilità autarchica di aprirsi all’incontro con l’esterno.
Una cultura e una società dell’Uno materno sono culture e società in cui non c’è separazione – o come la definirebbe Freud nella Lezione 28 di Introduzione alla psicoanalisi (1917), “rettifica” – e in cui si avverte il bisogno di rimanere avvinghiati all’Uno, piuttosto che aprirsi all’Altro; in cui il pericoloso ritorno dell’idea di una donna solo-madre, tutta-madre (toute-mère) si riverbera nella metafora di una società iper-materna, difensiva, chiusa incestuosamente all’esterno, e di uno Stato che (per riprendere una definizione dell’Edipo freudiano) “gode da solo dei suoi figli, reintegrando in sé il suo prodotto”.
L’Edipo pedagogico, in altri termini, è l’elemento che introduce il soggetto alla realtà sociale, sottraendolo alla dimensione incestuosa dell’autosufficienza e facendolo entrare nell’ordine del senso, mantenendo, cioè, la vita dell’essere umano aderente a un senso. Ma è anche la struttura clinica e normativa che permette al soggetto di far attecchire un incontro-col-mondo, sganciandolo dall’indistinto del suo attaccamento fusionale e contrassegnandolo col segno della mancanza, dell’apertura, della fenditura che permette il passaggio e la comunicazione con l’esterno.
L’effetto più diretto di questo processo eminentemente formativo è l’apertura al desiderio: la castrazione simbolica, allontanando il soggetto dalla soddisfazione e dal consumo immediati del primo oggetto di godimento, lo apre all’esterno e quindi lo mette nella condizione di desiderare altro. Il terzo, con la sua interdizione, introduce perciò al soggetto il tema della impossibilità, l’impossibilità di aderire all’oggetto libidico originario: la salute psichica e la costruzione della vita e della civiltà nascono al nascere dell’idea di questa impossibilità e di questa separazione. L’incesto, in questo senso, è la metafora del fare-Uno col mondo, chiudendosi all’esterno e permanendo in una condizione psichica di fusionalità endogamica. Dove c’è endogamia simbolica non può esserci finestra sul desiderio e quindi non può esserci né civiltà né cultura, perché la condizione del desiderio (mattone costitutivo e cellula base della cultura) è la separazione.
Lo statuto stesso della pedagogia poggia, in fondo, su questo: alla base della soggettivazione ossia dei percorsi attraverso i quali avviene la formazione del soggetto, vi è l’incontro, inteso come categoria clinica. La nostra vita psichica è letteralmente forgiata dalla somma degli incontri che abbiamo fatto, all’interno di un personalissimo e irripetibile romanzo di formazione, le cui pagine sono scritte dall’evento affettivo dell’altro e dell’altrimenti-da-sé: nel bene o nel male siamo plasmati dall’esterno, dal fuori che costruisce il dentro.
La storia della nostra formazione personale, così come la storia dell’immaginario collettivo (culturale, politico, sociale, educativo) di un popolo è il frutto del suo romanzo, cioè della possibilità che un individuo o una collettività hanno avuto di diventare ciò che sono, attraverso gli incontri che hanno sperimentato.
L’Edipo come categoria pedagogica, in questo senso, costituisce una dimensione non solo normativa, ma soprattutto strutturante in quanto, mentre proibisce l’incesto simbolico, dona al soggetto l’accesso al desiderio, cioè alla cultura.
Ricapitolando: l’essere umano è il prodotto pedagogico dell’azione organizzatrice della Cultura sulla Natura: la sua struttura fusionale è per sempre castrata dall’azione sublimatrice del legame sociale.
Allontanandosi dal godimento primario attraverso il passaggio dell’Edipo, il soggetto accede al desiderio, nel senso che comincia a istituire una serie di relazioni con oggetti esterni, con legami sociali e con rappresentazioni culturali. Usando le parole di Freud, la pulsione è costretta a fare un giro più lungo per arrivare alla meta del soddisfacimento (ammesso che quest’ultimo sia raggiungibile).
Potremmo quindi definire Edipo pedagogico, la struttura clinica e normativa che, castrando la tendenza all’identità, apre il soggetto alla differenza, all’altro.
Sovranismo psichico
Cosa accade all’Edipo pedagogico in un tempo in cui l’immaginario popolare si sta raccogliendo attorno a un sentimento che il Censis ha definito sovranismo psichico?
L’espressione sovranismo psichico è qualcosa di più complesso della recente recrudescenza del fenomeno politico del sovranismo tout court, inteso come sentimento di allergia nei confronti di una dimensione cosmopolita e aperta della vita politica e il suo conseguente arroccamento dietro un fenomeno di neo-nazionalismo esasperato e spesso xenofobo. L’espressione coniata dal Censis allude a una dimensione pre-politica, antropologica, di soggettività introflesse e paranoiche, che reagiscono alla paura e all’insicurezza della crisi economica globale con sentimenti di chiusura, di diffidenza, di rancore, di allergia alle diversità e allo straniero e che in tempi di pandemia ha portato un inasprimento dei suoi esiti.
Nella diffusione di questo attualissimo fenomeno, dice in sostanza lo staff di Giuseppe De Rita, non c’è solo una nostalgia della sovranità nazionale, che sarebbe stata usurpata dall’UE e dalle élites finanziarie, ma soprattutto l’emersione di un nuovo soggetto che è specchio dello Stato sovrano perduto che evoca: entrambi si sentono assediati dall’Altro, dall’invasore minaccioso, e per questo sentimento di assedio paranoico entrambi erigono muri a difesa dei propri confini, che dovrebbero costituire la copertura fortificata alla loro fragilità interna. Questo processo produce allergia nei confronti dell’altro e delle istituzioni, che vengono percepite come un potere bieco, manovrato da presunte lobbies e sentimenti di rancore generalizzato:
È una reazione pre-politica che ha profonde radici sociali, che hanno finito per alimentare una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico. Un sovranismo psichico che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare e disperata, ma non più espressa nelle manifestazioni, negli scioperi, negli scontri di piazza tipici del conflitto sociale tradizionale. […]
Il processo strutturale chiave dell’attuale situazione è l’assenza di prospettive di crescita, individuale e collettiva. Ne è prova il fatto che oggi il 63,6% degli italiani è convinto che nessuno ne difende interessi e identità, devono pensarci da soli, e la percentuale sale al 72% tra chi possiede un basso titolo di studio. […]
– Parallelamente, tuttavia – la metà della popolazione è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso: lo pensa il 49,5% degli italiani, percentuale che sale al 53,3% tra i giovani under 35. Un terzo ritiene che la popolarità sui social network sia un ingrediente “fondamentale” per poter essere una celebrità, come se si trattasse di talento o di competenze acquisite con lo studio (il 30,2%, fino al 41,6% tra i 18-34enni).
(Censis, 2018, p. 3-4, ss.)
Quello del sovranismo psichico è insomma il tempo della sfiducia che si trasforma in rancore, della rabbia sociale, dell’assenza di empatia, del sospetto nei confronti dell’altro e dell’allergia verso i grandi ordini di cultura che tradizionalmente costituivano l’intermediazione tra i rivolgimenti socio-economici e gli individui.
Come è sempre accaduto, la recessione economica – associata, nell’ultimo anno, all’angoscia per la percezione di continuo pericolo dovuto alla pandemia Covid-19 e alle sue ricadute in termini non solo sanitari, ma soprattutto psicologici ed economici – produce un senso di impotenza e una insicurezza ontologica (Laing, 1959) che si trasformano in una condizione di sfiducia generalizzata: le frange della società più colpite e meno robuste culturalmente tentano di investire le loro energie in soluzioni inadeguate e spesso paranoiche. Da qui una delegittimazione sintomatica e strutturale di ogni tipo di rappresentazione istituzionale, politica, educativa, scientifica. Il romanzo culturale di una società non viene più percepito come rassicurante, come agente di tutela della vita di un popolo e per questo occorre creare oggetti transizionali in senso negativo, reificando i nuclei della paura generalizzata in qualcosa di osservabile, pensabile, chiudendosi in un dentro che tranquillizza da ogni possibile pericolo del fuori.
E allora ecco che l’angoscia per qualcosa di intra-psichico si trasforma in una esternazione inter-psichica, ossia in una tendenza collettiva alla diffidenza nei confronti dell’esterno.
Come afferma Sarantis Thanopulos (2019), poiché ogni trasformazione politica di una società corrisponde sempre a un assetto psichico collettivo, quello che sta accadendo oggi è che la chiusura sovranista e xenofoba (che individua nell’Europa, nel cosmopolitismo e nei processi migratori, dei nemici acerrimi) risponda a una “funzione antidepressiva”: mobilita, cioè, energie vitalizzanti contro un pericolo esterno da arginare. In altri termini, la fortuna del sovranismo psichico è dato da una sorta di distoglimento affettivo dall’angoscia per la crisi economico-sociale (e oggi anche sanitaria), che viene riconvertito libidicamente in una effervescenza collettiva (per usare un’espressione di Durkheim): l’eccitazione maniacale continua per il rigetto dello straniero e per la difesa dei confini nazionali, che monopolizzano il sentimento popolare.
In questo modo il soggetto rinuncia all’esperienza dell’alterità, sulla quale proietta le colpe della sua angoscia e si arrocca dietro un narcisistico ripiegamento sulla difesa della purezza (che in passato ha avuto esiti drammatici e nefasti). Il risultato di tale processo difensivo, continua Thanopulos, è necessariamente e clinicamente paranoico, perché come la letteratura classica della psicoanalisi ci insegna, l’espulsione (Ausstossung) all’esterno di parti angosciose di sé e la loro proiezione sull’altro, coincide con il sentimento di sospetto, di persecuzione, di minaccia, che quell’altro immaginario costituisce. Da qui il ritorno di temi drammaticamente classici, come “la nostalgia del paradiso perduto” e del Blut und Boden che il progresso, la globalizzazione culturale e il libero fluire degli scambi e delle comunicazioni di massa avrebbero corrotto.
La soluzione emozionale del sovranismo psichico devia ogni energia libidica sulla caccia paranoica del capro espiatorio, del colpevole, identificato nello straniero e più in generale in qualunque diversità o alterità perturbante.
L’identità nazionale, allora, diventa la metafora di soggettività introflesse che guardano a leader autoritari e carismatici come garanzia di contenimento dell’angoscia impensabile della loro condizione sociale.
Rispetto a quanto detto in precedenza, mi pare di poter affermare che il sovranismo psichico sia l’esito più attuale della resistenza e della difesa a quell’epifania dell’incontro di cui parlavo sopra: il soggetto sovranista psichico regredisce, ritorna in una fase di attaccamento patologico nei confronti di un oggetto perduto freudiano, che spesso viene metaforizzato nella casa, nella famiglia, nella razza, nella madrepatria, ecc.
In questo modo, quella famosa azione sublimatrice della cultura sulla natura, che permette al soggetto di entrare con gratificazione nel legame sociale, viene depotenziata, indebolita; la separazione dell’Edipo pedagogico, che porta con sé la salute psichica dei processi di soggettivazione, viene inibita da una spinta al “ritorno nell’Uno”, che nega l’Altro, lo espelle (in questo senso Freud parla di Ausstossung).
Naturalmente la cornice clinica del fenomeno del sovranismo psichico è quella della struttura di tipo paranoide “bianco”, in cui l’identità è sclerotizzata sull’Io, sull’uguale, sullo stesso, e la differenza dell’altro è avvertita non come ricchezza e scambio ma, al contrario, come un pericolo che mina la stabilità e la coesione del soggetto, della società, dello Stato.
Edipo pedagogico e sovranismo psichico appaiono quindi come due possibilità per la strutturazione delle soggettività contemporanee: aderire all’incontro con l’altro che dà forma all’esistenza e educa alla relazione o, al contrario, rifugiarsi nella diffidenza nei suoi confronti per difendere la presunta purezza dell’identico, con esiti paranoici.
Come scrive acutamente Bollas, in L’età dello smarrimento,
Il pensiero paranoico agisce in fretta, perché coalizza le persone intorno ad affetti potenti, trasformando idee complesse in concetti digeribili che sembrano coerenti e, perciò, corretti. Attraverso la proiezione, purifica i Sé dalle parti indesiderate: così, quello che disturba internamente, e che è in grado di produrre ansia persecutoria, colpa e depressione, viene scaricato in qualche Altro-fecale che poi, con un colpo di sciacquone, può essere allontanato dalla vista o annientato. (Bollas, 2018, p. 179)
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