Christos Tombras, psicoanalista che vive e lavora a Londra, ci ha inviato questo breve testo in cui riassume e spiega i contenuti del suo interessante libro Discourse Ontology: Body and the Construction of a world, From Heidegger Through Lacan (The Palgrave Lacan Series, Cham, Switzerland, 2019) nel quale analizza la relazione tra il pensiero di Heidegger e quello di Lacan. Lo ringraziamo per il prezioso contributo che ha voluto offrire alla nostra Associazione.
di Christos Tombras
Traduzione di Cristian Muscelli
Quanto segue è una libera rielaborazione del materiale presentato per la prima volta nel mio libro Discourse Ontology. Ci si devono dunque aspettare una certa ripetizione e una certa circolarità che, se pure inevitabili, possono risultare utili.
Ritengo che la filosofia di Heidegger permetta una profonda comprensione della condizione umana, senza ricorrere a tacite supposizioni su cosa sia un soggetto, cosa sia un oggetto, cosa sia la verità, cosa siano il reale e il conoscibile e cosa sia la conoscenza. Il lavoro di Heidegger rivela la storicità e i limiti della scienza moderna e, a mio avviso, aiuta a far emergere alcuni dei presupposti della teoria freudiana acriticamente accettati. La rivisitazione dei testi di Freud da parte di Lacan, e la sua rielaborazione dei concetti freudiani fondamentali, consente di formulare una metapsicologia post-freudiana che offre una via d’uscita dalla critica di Heidegger, o un suo aggiramento.
Ma prima dobbiamo andare indietro nel tempo, al momento in cui tutto ha inizio.
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Tutto inizia nel XVII secolo, con Cartesio. Da uomo pio quale era, Cartesio è preoccupato per la sua fede. Egli è preoccupato che abbia solide basi. E se i rappresentanti della Chiesa fossero bugiardi? E se il garante ultimo della verità, Dio, stesse cercando di ingannarci? E se i nostri sensi fossero controllati da un demone malefico che prova ad ingannarci e ci fa pensare quello che vuole farci pensare? E se tutto ciò che possiamo vedere e sentire non fosse da credere? Cartesio cerca la certezza, ma è vinto dal dubbio. Non ci può essere fondamento di certezza. Tutto è incerto.
Tutto tranne una cosa. Cartesio può dubitare di tutto, eppure di una cosa può essere certo: è lì e sta dubitando. Cioè, sta pensando. E in virtù di questo egli può affermare: penso, dunque esisto. Cogito, sum. Con questo semplice passo Cartesio inaugura l’era della modernità. La verità si emancipa da Dio e dalla Chiesa ed è ora alla portata del pensiero, dell’essere umano razionale che può porsi di fronte alla realtà e a un mondo disposti oggettivamente proprio per lui. Da Cartesio in poi, la conoscenza scientifica è formulata in termini di concetti concreti, di processi, relazioni, interazioni, il tutto per riflettere e rappresentare questa realtà oggettiva e misurabile.
Alla fine del XIX secolo, un giovane neurologo di Vienna decide di studiare la psiche umana. Profondamente impressionato dal fenomeno dell’ipnotismo e perplesso dal quadro clinico dell’isteria, Sigmund Freud approccia la mente umana come una sorta di dispositivo razionale, un “apparato mentale” che suppone operi secondo specifiche leggi psichiche. Nella prospettiva di Freud c’è poco di arbitrario nella nostra vita psichica. Un lapsus, un sintomo isterico o un sogno non sono fenomeni casuali o errori senza senso, né sono messaggi dagli dèi o altre divinità. Per Freud, la vita psichica è, in linea di principio, comprensibile, e i fenomeni psichici deterministicamente prodotti. L’unico inconveniente è che il funzionamento interiore di questo determinismo avviene lontano dai riflettori della nostra mente cosciente. Molte cose succedono nel backstage, in un’altra scena come la chiamò, la scena dell’inconscio.
Freud è cartesiano. Come Cartesio, anche lui cerca la certezza. La sua premessa è che solo la scienza ha le metodologie e gli strumenti necessari per studiare, comprendere e spiegare la psiche umana in modo obiettivo. Tutta la sua vita lavorativa è dedicata a costruire questa scienza della psiche. Nel lavoro di Freud, le ipotesi e i modelli teorici della psicoanalisi, la sua metapsicologia, sono costruiti, testati, rivisti, estesi, e forse abbandonati in modo molto simile a quel che avviene in qualsiasi altro campo scientifico. La teorizzazione psicoanalitica avanza con cautela, lentamente e con esitazione, a differenza della filosofia, che, secondo Freud, ha sempre bisogno di avere la risposta pronta ad ogni domanda. La psicoanalisi è una scienza e, nella sua ricerca della certezza, deve saper sempre tollerare l’ignoranza e le contraddizioni temporanee, dotata com’è di tutti gli strumenti di indagine scientifica razionale di cui ha bisogno per garantire gli sviluppi successivi.
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All’incirca nello stesso periodo, Martin Heidegger, un giovane professore tedesco di filosofia, non apprezza affatto questa nuova era scientifica. Decide di rivolgere la sua attenzione alle sue premesse concettuali di base. Allievo di Husserl, Heidegger usa la fenomenologia per rivolgersi “alle cose stesse”. Ma Heidegger non si ferma alle cose o ad altri generi di enti; il suo interrogatorio lo porta alla questione più generale sull’essere stesso, cioè alla domanda sull’origine dell’intelligibilità del mondo.
Heidegger è molto scettico sul corso che la metafisica aveva seguito fin dai tempi degli antichi greci. Con l’obiettivo di sfidare la tradizione e decostruire la filosofia occidentale, egli cerca di riportare un po’ dell’originalità e dell’incisività della loro domanda. Heidegger respinge la visione cartesiana dell’essere umano che sta di fronte al mondo, che è un soggetto dinanzi ad un oggetto. La sua intenzione è quella di scoprire e dimostrare l’incapacità della modernità di interrogarsi sui concetti e sugli strumenti che utilizza. Il ragionamento scientifico, in particolare, consiste nel rappresentare gli enti attraverso le loro caratteristiche quantificabili, cioè i dati, ed elaborare quei dati con l’aiuto di complesse formule matematiche, di strumenti e modelli. In questo consiste il suo principale limite, secondo Heidegger: considera reale solo ciò che può essere misurato e studiato “oggettivamente”, e rimane ignara di questo.
Di conseguenza, Heidegger critica Freud per aver adottato acriticamente lo stesso scientismo ingenuo del XIX secolo. Per Freud la vita psichica era in linea di principio comprensibile e i fenomeni psichici, in linea di principio, deterministicamente stabiliti, cioè non arbitrari. Per Heidegger, Freud fallisce a causa della sua adozione acritica di un programma di ricerca inapplicabile, vale a dire l’intenzione di studiare la psiche come se fosse un apparato mentale indipendente e autonomo che comprende dei sottosistemi con i loro meccanismi di interazione. La scienza moderna non è adeguatamente equipaggiata per parlare dell’essere umano come di un essere-nel-mondo, afferma Heidegger. Ciò che manca è un’attenta riconsiderazione dell’apertura, come la chiama lui, in cui il mondo emerge e si rivela all’essere umano (o Dasein) che può allora condividerlo.
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Il divario tra Heidegger e Freud sembra incolmabile. Anche se accettiamo che Heidegger aveva solo una conoscenza di seconda mano degli scritti di Freud, alcuni importanti aspetti della sua critica sono comunque validi. La psicoanalisi è vulnerabile a questa critica.
È qui che entra in gioco Jacques Lacan. Lacan, che si era formato come psichiatra ed è influenzato dal clima intellettuale dei primi anni del XX secolo, rivolge la sua attenzione a Freud nel tentativo di approfondire la sua comprensione di ciò che potremmo vagamente chiamare malattia o sofferenza mentale. Lacan legge molto di filosofia, scienze, letteratura e altri campi del sapere, e prende la critica di Heidegger molto seriamente, condividendo con lui una visione critica della scienza e della sua storicità.
Differiscono nella loro valutazione del lavoro di Freud. Per Lacan, l’importanza di Freud non sta nella scoperta del funzionamento di un apparato mentale interamente deterministico che era rimasto nascosto in precedenza, ma nel riconoscere la misura in cui la sofferenza umana dipende dal ed è soggetta al linguaggio. Nel lavoro di Freud, sostiene Lacan, l’essere umano si rivela come un soggetto “preso e torturato dal linguaggio”[1]. Una delle principali implicazioni della scoperta di Freud è, per Lacan, la reintroduzione della responsabilità soggettiva. L’essere umano è vincolato dalle regole della legge del significante, e allo stesso tempo lacerato, barrato, diviso dal proprio desiderio. Non è la legge che è importante, quindi, ma piuttosto gli spazi in cui si interrompe – l’altra scena di Freud, vale a dire, l’inconscio. Nel tentativo di reintrodurre la categoria aristotelica di causalità nel programma scientifico di Freud, Lacan descrive l’essere parlante come ciò che è rappresentato nell’effetto dirompente della tuché sull’automaton della catena significante.
Lacan, come Heidegger, respinge la visione cartesiana dell’essere umano come di un soggetto che sta di fronte al mondo come oggetto. L’ideale del soggetto cartesiano, che può trovare certezza e verità nella conoscenza oggettiva, non si può raggiungere: come dice Lacan, “non c’è metalinguaggio”, o “non c’è Altro dell’Altro”[2]. Eppure, paradossalmente, il soggetto della psicoanalisi è un soggetto della scienza. Questo perché solo il soggetto della scienza può voler riflettere sulla sua vita psichica e sentirsi eticamente costretto a considerarla qualcosa di significativo che può essere compreso.
In altre parole, Lacan sostiene che il lavoro di Freud porta inavvertitamente alla ribalta il soggettivo, in quanto desiderio, e, nello stesso tempo, scopre l’inevitabile incompletezza insita in ogni tentativo di formulare tutto questo concretamente. L’essere umano è un soggetto decentrato, un sembiante, un prodotto di identificazioni ricorsive e retroattive sovrapposte, un essere costruito che va in giro fingendo di essere ciò che non è.
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Entrambi i pensatori, Heidegger e Lacan, rappresentano una rottura con il passato. L’opera di Heidegger rivela i limiti e le impasse della modernità e presenta il Dasein come l’apertura in cui verità, conoscenza e scienza possono essere ripensate e tematizzate. Lacan rompe con la filosofia tradizionale e delinea le strutture discorsive alle quali l’essere parlante partecipa, decostruendo così i fondamenti della soggettività. Per Lacan, l’ontologia e la metafisica non sono possibili. La verità, tradizionalmente concepita come corrispondenza o adeguatezza, è un mito, il risultato di una negoziazione o di un compromesso, un gioco discorsivo. Invece della filosofia, Lacan annuncia un’anti-filosofia.
Questo ci porta all’invenzione di Freud, la psicoanalisi. Freud avrebbe voluto che la sua teoria fosse accettata e rispettata come una nuova scienza. Tuttavia, pur essendo certamente un prodotto della visione moderna del mondo, la psicoanalisi ci permette di rompere con i limiti del discorso che questa visione del mondo comporta. Non condividendo la necessità di Freud di affermarne il carattere scientifico, Lacan si avvicina al campo analitico in quanto campo discorsivo, piuttosto che scientifico. Con una visione più chiara della posizione del soggetto diviso impegnato all’interno della rete dei significanti, Lacan è in grado di riportare la questione della causa al centro della riflessione. In questo modo, permette ad Aristotele di vendicarsi su Cartesio. L’essere umano non può essere compreso nei termini di distinzione tra soggetto e oggetto; la causa della psicoanalisi sta nello sforzo di riformulare l’intera questione in termini di distinzione tra responsabilità (agency) e non-responsabilità (non-agency). Ma con questo non si intende contrapporre l’imperfezione umana alla perfezione celeste, come pensavano Aristotele e gli antichi; né sostenere che ci sia un mondo materiale di contro a un mondo immateriale, come sosteneva Cartesio. Non è nemmeno la questione dell’essere in quanto tale, sulla quale Heidegger ha insistito, a meno che non siamo disposti a fare un altro passo, seguendo Lacan, e accettare che l’essere è solo presunto in certe parole – “un fatto di detto”[3].
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La sfida principale, per come la vedo io, è tracciare il passaggio dal dominio corporeo del reale – cioè del godimento – al dominio incorporeo del significante, l’immaginario e il simbolico. È questo passaggio che permette la costruzione discorsiva della realtà umana e sociale e del mondo. Si deve essere assoggettati al linguaggio per essere in grado di formulare in che modo il mondo è rivelato solo dal linguaggio. Ma ciò che viene rivelato, questo insieme ricorsivo di entità, concetti, relazioni, proprietà e sistemi di riferimento, questa ontologia come la chiamo io, è una parvenza, un’ontologia della finzione, un’ontologia del discorso.
Mantenere il termine ontologia è forse inaspettato. Come termine, “ontologia” comprende altri due termini che sono stati di grande importanza, il termine “on”, nel senso di essere, ente, cosa; e “logos”, nel senso che Heidegger enfatizza, di insieme o raccolta (di ciò che è). Quando parliamo di un’ontologia, allora, ci riferiamo agli enti nel loro essere, cioè al fenomeno dello spazio aperto, o dell’apertura, dove un mondo di enti si presenta in modo intelligibile all’essere umano in quanto logos. L’origine di questa intelligibilità è la significantizzazione, cioè il fatto che gli enti possono essere significanti per altri enti. I significanti formano una catena. Tuttavia, questa catena significante è solo una rete priva di vita, almeno fino a quando non consideriamo che l’essere parlante può far emergere un mondo quando si relaziona con questa rete come soggetto desiderante. Ma a questo punto, ovviamente, ci stiamo riferendo a un discorso. In breve, l’ontologia è impossibile a meno che non ci sia un discorso – alludo alla nozione di discorso di Lacan, ma solo come un caso speciale. Designando un campo di studio come ontologia del discorso, voglio dire che mi riferisco all’essere-e-tempo, compreso come un concetto composito, in rapporto all’essere parlante. In questo modo, sottolineo e riconosco la circolarità che comporta: non c’è modo di formulare un’ontologia che possa coesistere con i fenomeni, come su un “meta” livello, a meno che non la si veda come un prodotto di un’attività discorsiva. Affrontare l’ontologia del discorso, quindi, rappresenta solo un tentativo di delineare la struttura di base che rende possibile il mondo umano – inteso come un dominio di coordinazioni, consensuali e ricorsive, di azioni, distinzioni e riferimenti.
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Cominciamo con l’essere umano nel suo essere, appunto, umano. Ciò che Heidegger chiama Dasein – cioè, l’essere umano considerato onticamente, nella sua fatticità, e ontologicamente, nella sua condotta preoccupata dell’essere e del mondo che l’essere rivela – è molto vicino, ma non identico, all’essere parlante di Lacan, il parlêtre. Il Dasein è (onticamente) un essere spaziale, localizzato, un essere che ci è, che è qui: Da-sein (esser-ci). Il termine di Lacan, parlêtre, richiama l’attenzione sul fatto che l’essere umano è un essere che parla e ha un mondo in quanto parla.
Per Lacan, il parlare è corporeo, e tipicamente, ma non esclusivamente, umano. Parlare è un tipo specifico di attività corporea coordinata e intenzionale, il cui “prototipo” può essere trovato nell’interazione consensuale e intenzionale tra due o più esseri parlanti. Questa interazione consensuale crea un dominio discorsivo dove è possibile un’ulteriore interazione consensuale (parlare, conversare, fare). Ogni atto linguistico può essere considerato tale solo all’interno del contesto in cui può essere assunto come tale. Questo sembra tautologico, ma è facile vedere che al di fuori di un tale contesto non è possibile distinguere, per esempio, tra il suono di una parola che è stata pronunciata intenzionalmente e il suono di una sequenza casuale di fonemi. È il contesto che dà un senso all’atto linguistico – il termine “senso” è qui inteso sia come significato che come direzione – e fornisce lo sfondo per l’emergere del significato. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, un dominio discorsivo non si fonda sul significato; di fatto, il significato è irrilevante. Il “significato” non è altro che il nome che diamo alla consensuale attribuzione retroattiva di relazioni di inter-corrispondenza tra pezzi di discorso: in questo modo, qualsiasi pezzo di suoni pronunciati può diventare un significante, cioè può diventare una parola o parte di una parola. Ciò che è unico per l’essere umano è che parlare implica un contesto di coordinamento consensuale ricorsivo di distinzioni, azioni o interazioni con altri esseri umani, cioè un grande Altro, ossia un discorso. Qui sta il fondamento della verità.
La verità può essere compresa in due modi correlati ma fondamentalmente diversi. Il primo, verità come a-letheia, è il modo heideggeriano che la vede come ciò che è dato o accettato come dato. È un concetto ontologico e non dovrebbe essere confuso con quello di verità logica, o ontica, che è invece corrispondenza o adeguazione – per esempio, quando consideriamo il valore della verità, o veridicità, di una dichiarazione. Per Heidegger costituisce ciò che egli chiama un evento di appropriazione (o Ereignis), mentre per Lacan è molto vicino a ciò che Freud aveva in mente quando si riferiva a un’affermazione primordiale (o Bejahung). Queste concettualizzazioni non sono identiche. La differenza principale sembra legata alla funzione che dà origine alla verità: per Heidegger, la verità è legata all’essere e al suo aprirsi al Dasein. Per Lacan, tuttavia, la verità è legata al parlare come tale: non appena parlo, dico la verità (o, forse, la verità è detta attraverso me). Verità, quindi, significa che accetto di essere il soggetto del linguaggio. Parlare rappresenta un’affermazione indiretta del fatto che l’essere parlante è impegnato in un legame sociale discorsivo. In altre parole, la verità ontologica è correlata alla significantizzazione; coinvolge sempre l’impalcatura consensuale del dominio discorsivo condiviso da esseri parlanti, cioè la lingua, e riflette sempre il “senso” che qualcosa è “in gioco”.
Il linguaggio stesso è un sistema formale di segni interconnessi che comprende un significante e un significato. Il significato del significante è instabile, mobile, scorrevole. Un significante può essere visto come un concetto tanto ontico quanto ontologico. Ontologicamente, il significante porta la significantizzazione – cioè la possibilità di stabilire corrispondenze consensuali tra le parole (come significanti) e altre parole (come significati).
Il parlare avviene nel tempo – usiamo questo termine nel suo senso più basilare, di tempo come sfondo e flusso. Parlare può essere visto come qualcosa che ha un inizio, una durata e una fine. L’emergere del significante rende visibile questo aspetto temporale del parlare in quanto l’essere parlante deve attendere la “fine” di una sentenza del discorso per arrivare a ciò che da essa è inteso, cioè al suo significato.
Per Lacan, il corpo è il luogo in cui tutto accade. C’è un aspetto specifico della riflessione di Lacan sul coinvolgimento del corpo nel mondo che in Heidegger non è per niente considerato. Si tratta di quel che Lacan presenta sotto la categoria di godimento. Il godimento è un effetto, per così dire, del congiungimento strutturale del corpo con il mondo. In quanto concetto, il godimento è sia ontico che ontologico: è ontico nel senso ovvio dei dettagli circostanziali delle specificità di questo o quell’evento del corpo che lo ha generato, ma anche ontologico nel senso che dà luogo alla significantizzazione. Il godimento è correlativo all’essere-nel-mondo del Dasein: l’essere umano in quanto Dasein non può che essere-nel-mondo. Ed essere nel mondo non può che significare che c’è godimento. È proprio perché c’è godimento che l’essere umano si apre alla significantizzazione. La significantizzazione è ciò che realizza l’apertura nella quale un significante può installarsi, e un significante è ciò che permette al godimento di essere tematizzato. Sembra, quindi, che per Lacan la concettualizzazione del godimento renda possibile la discussione della rivelazione originale dell’essere che Heidegger prevede, senza dover ricorrere a un significato, un significato che, secondo Heidegger, l’essere implica.
Il corpo materiale in quanto organismo biologico non è identico al corpo vissuto dall’essere parlante. Il godimento popola il registro del reale. Sottomettendosi al linguaggio, l’essere umano ottiene un’immagine del corpo e uno schema, o identità, con cui l’essere parlante occupa il corpo o lo abita. Nel processo, parte del godimento del corpo si cristallizza, popolando i registri immaginari e simbolici. Viene significantizzato. Il godimento restante diventa una causa per l’emergere del desiderio. Nel diventare un soggetto di linguaggio, l’essere parlante rimane tormentato da una tensione tra il corpo come entità ontica (cioè una cosa) e il corpo come entità immaginaria che abita l’essere parlante.
L’essere parlante si preoccupa dell’essere, nel senso che Heidegger dà a questo termine. L’essere può essere un problema solo quando è emerso il significante, un processo che, per l’essere parlante, rivela il mondo. Il mondo si rivela attraverso la possibilità della significantizzazione, e non dipende da un significato specifico in quanto tale. Certo, si tratta di fenomeni che avvengono in modo co-originario: il mondo emerge insieme al significante e si rivela insieme all’essere.
Il mondo non è un contenitore vuoto che l’essere parlante occupa. L’essere parlante è fondamentalmente nel mondo, come denotato dall’espressione composta essere-nel-mondo, nel senso che non esiste un modo ontologico (o ontico) per separare l’uno dall’altro. Infatti, l’essere umano è essenzialmente un essere che forma il mondo; gli oggetti, come una pietra o una sedia, non hanno un mondo (sono “senza mondo”); gli animali sono “poveri di mondo”; e gli esseri umani “creano un mondo”, e il loro mondo è un mondo condiviso[4].
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I temi fondamentali dell’ontologia del discorso qui presentati toccano questioni come l’emergere consensuale del significante, l’apertura alla verità in assenza di un metalinguaggio, la costituzione del tempo, il possesso dei nostri corpi e l’ottenimento di un’identità sessuale, la questione della costruzione e della condivisione di un mondo.
Se volessimo etichettare, potremmo designare questo approccio come materialista. In senso stretto, tuttavia, non è esatto. La distinzione tra materialista e non-materialista (o qualsiasi altro nome si possa usare, come, per esempio, trascendentale, idealista, platonico etc.) non è appropriata perché porta ad ogni genere di falsi dilemmi, proprio come fa la distinzione tra soggetto e oggetto. È in questo senso che possiamo comprendere l’anti-filosofia lacaniana. Lacan spinge a svegliarci dal nostro eterno sogno e a guardare oltre l’“idiozia” che “caratterizza” la “storia delle idee”[5]. Se decidiamo di distogliere lo sguardo ancora una volta, va bene. Ma la psicoanalisi sarà ricordata come un altro fallimento nella lunga serie di tentativi di cercare la certezza e stabilire la verità in termini di un “grande” grande Altro.
Questa sarebbe un’immagine bella e, forse, conveniente, ma è imprecisa. Ora sappiamo che non c’è un “grande” grande Altro. Non c’è nessun Altro dell’Altro. Il programma di Cartesio è irraggiungibile. In questa era di post-verità e di fatti alternativi, la sfida che la psicoanalisi lancia è più urgente che mai. Le opzioni sono davanti a noi e la scelta è nostra. Non c’è altra presa di coscienza oltre alla nostra. Dovremo accettarla e assumerci la responsabilità che ne deriva.
Note
- J. Lacan, Il seminario. Libro III. Le psicosi (1955-56), Einaudi, Torino 2010, p. 279. [⇡]
- J. Lacan, “Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano”, in Id., Scritti, Einaudi, Torino 2002, p. 816. [⇡]
- J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora (1972-73), Einaudi, Torino 2011, p. 113. [⇡]
- M. Heidegger, I concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine, Il nuovo Melangolo, Genova 2005. [⇡]
- J. Lacan, “Forse a Vincennes…”, in Id., Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, pp. 309-311. [⇡]