Abstract
Il canto mostra come la voce possa essere uno strumento di godimento. Per arrivare a comprenderne le ragioni, occorre dapprima riconoscere come il carattere enigmatico della voce sia stato tradizionalmente celato dall’idea che essa sia un trasparente veicolo del significato, che riesce a svolgere la sua funzione in modo immediato, e che annulli la distanza che separa l’espressione dal contenuto. Si può però pensare la voce quale oggetto indipendente dalla relazione con il concetto, e rivolgersi a quei momenti nella storia della riflessione filosofica in cui si è tentato di mostrare come la voce sia materia acustica, e non sia un mero medium: la voce acquisisce in questa circostanza lo statuto di “corpo”, e solo in quanto tale essa è capace di dare piacere. Attraverso la definizione di Lacan della voce come “oggetto pulsionale” si possono esplorare le ragioni che fanno del canto un godimento: l’oggetto, in psicoanalisi, è ciò attraverso il quale la pulsione riesce a trovare soddisfazione. Oltrepassando la teoria freudiana, la voce è introdotta da Lacan tra questi oggetti che consentono alla pulsione di raggiungere il suo obiettivo: soddisfarsi. La voce lacaniana non solo non è in nessun modo assimilabile al discorso, ma non ha proprio niente a che fare con il parlare: è in relazione solo con il corpo e con il godimento. Così l’oggetto-voce, inteso come originario oggetto pulsionale, è quanto più si avvicini a descrivere il “cantare”.
Il canto è un’esperienza di piacere, non solo quando l’eventuale connotazione artistica lo traduce nella complessità dell’esperienza estetica: c’è un’associazione indissolubile tra la voce che canta e il piacere, tra la voce che diviene puro suono e la soddisfazione che essa procura. Per provare a comprendere quali siano le ragioni di questo piacere, e che tipo di piacere esso sia, possiamo provare a seguire il percorso interdisciplinare indicato da Roland Barthes, che in un testo dedicato al canto romantico sintetizzò la sua riflessione scrivendo che cantare è «godere fantasticamente del mio corpo unificato» (1985: 276), un’affermazione che suona come una descrizione puntuale di quanto accade nel canto: constata infatti come il canto sia un godimento, cioè un’esperienza di profonda soddisfazione; rileva come il piacere a esso associato, lungi dall’essere meramente intellettuale, abbia una connotazione “fisica”; nota come nel canto la voce realizzi una particolare unità, perché nella materia corporea della voce tutto il corpo si sente unificato. Per descrivere questo nesso tra la materia acustica e il piacere che essa genera nel corpo, tra la sostanza sonora e il godimento, Barthes ha utilizzato il termine “grana” (ivi: 257-266): la grana della voce emerge giusto quando, con il canto, la voce perde la sua valenza semantica e si fa corpo, ed è questo nuovo statuto che la rende causa di piacere. La voce ha un corpo, seppur sottile, e proprio e solo in quanto corpo può generare soddisfazione.
Il sonoro e il semantico sono stati tradizionalmente considerati un’unità, ma, seppure inseparabili, la componente acustica della voce è stata ritenuta a servizio di quella semantica: il significato deve precedere la voce, se l’essenza della voce umana, a differenza di quella animale, è la capacità di veicolare un concetto. Anche le difficoltà che la voce può incontrare fanno segno dell’antecedenza di quel significato; anche quando fallisce nell’intento di comunicare, la voce avvisa di qualcosa, è sintomo che dice del soggetto: dal balbettare all’interrompersi mentre si parla, dallo schioccare la lingua alla perdita di controllo sulla tonalità della voce fino all’afonia assoluta, sono tutte possibilità, non insolite, per manifestare ciò che il soggetto non vorrebbe. La ricerca psicoanalitica ha mostrato che, seppur nell’errore e nell’inciampo, la voce può farsi segno di un significato nascosto nell’inconscio ed espresso in modo metaforico. Si tratta, nel complesso, di una figura della voce che potremmo definire positivistica, poiché centrata sull’idea che sia possibile pervenire a una verità semantica (Lagaay 2008).
È però possibile seguire anche gli sviluppi di una concezione “negativa” della voce, che ne fa la manifestazione più semplice e immediata della vita (Bologna 1992) che precede l’istituzione del linguaggio: è una voce, per così dire, vuota, in nessun modo veicolo del concetto. In questo senso, la voce che caratterizza l’umano è proprio la voce che può significare niente: è la particolare dimensione non-significante che umanizza la voce, nel senso che alla sparizione della componente significativa, anonima e impersonale, corrisponde la comparsa dell’unicità di una voce, fenomeno irriducibile della singolarità di un soggetto. Il canto è la manifestazione esemplare di questo passaggio, perché nella voce che canta la parte comunicativa e semantica si riduce fino a lasciar emergere la materia di cui la voce è fatta, la sua corporeità.
La voce-fenomeno e il primato del significato sul significante
Descrizioni e spiegazioni della voce come fenomeno ne fanno inevitabilmente un fatto sociale, meramente comunicativo. Jacques Derrida (1968) ha mostrato quali siano le implicazioni di questa prospettiva e ha rilevato come la voce abbia fondato la metafisica e ne abbia segretamente servito gli scopi. La supremazia della voce sulla scrittura ha servito l’intento di garantire l’essere come presenza, cioè di pensare e garantire ogni significato prima di ogni rimando, di ogni linguaggio, e di fare così del significato una sostanza; la scrittura è “segno di segno”, mentre nella voce il significato – e dunque la sua verità – si dà immediatamente: il significante, componente materiale del verbo, si cancella nell’identità del significato. Può esistere in questo modo una verità sostanziale, una verità prima del linguaggio, un significato puro, trascendentale, autonomo rispetto al segno che lo indica. Per Derrida, anche il rigore fenomenologico della teoresi di Husserl – per il quale la funzione primaria del linguaggio è senza dubbio quella comunicativa (1968: § 9) – nasconde questa “presupposizione metafisica”: «Husserl ha senza dubbio inteso mantenere uno strato originariamente silenzioso, “prespressivo”, del vissuto» (ivi: 44). Anche per Husserl il significato delle espressioni si decide prima nella propria mente, perché l’atto significante, l’intenzione, viene prima del segno [1]. Ciò che si presuppone è che prima del linguaggio verbale, fatto di segni, che consente la comunicazione – che è essenzialmente “indicazione” – c’è una voce che consente il monologo solitario della coscienza, una voce non compromessa con l’impurezza dell’espressione: è una voce che simula la conservazione e la ripetizione degli oggetti contenuti nella coscienza pre-verbale. Per la fenomenologia esiste una dimensione dell’umano libera dal linguaggio, libera dalla necessità di significare attraverso l’indicazione, attraverso il segno, e in questa dimensione la voce non comunica nulla, non indica nulla, perché tutto è immediatamente presente. La voce è dunque un’autoaffezione pura, voce che si ascolta immediatamente mentre parla, impossibile da distinguere in trascendenza e intra-mondanità, pura presenza, espressione immediata della coscienza; la voce fenomenologica è l’evidenza della possibilità di un accesso immediato ai contenuti della coscienza, senza alcuna contaminazione del mondo esterno.
C’è anche un altro punto nella critica di Derrida che ha particolare rilevanza per gli sviluppi del nostro discorso, laddove individua nella voce fenomenologica anche il fondamento della coscienza di sé: «La voce fenomenologica sarebbe questa carne spirituale che continua a parlare e a essere presente a sé – ad intendersi – nell’assenza del mondo» (ivi: 45). In una semplice equazione, la presenza è coscienza e la coscienza si stabilisce attraverso la voce, perché parlare, dice Derrida, significa “intendersi-parlare”, cioè parlare e capirsi contemporaneamente in un’esperienza di auto trasparenza, di evidenza a se stessi. S’entendre parler diventa così la definizione minima di coscienza.
Derrida finisce però con il cancellare la prolifica ambiguità che è propria della voce: il fonocentrismo non comprende l’intera storia della metafisica. Anzi, dire che logocentrismo e fonocentrismo coincidono non è del tutto corretto. Derrida ha trascurato un indirizzo della storia del pensiero che considera la voce in tutt’altro modo, osservandone appunto le ambiguità. Certa filosofia è stata lungamente consapevole dell’ambiguità e dei pericoli della voce: la voce è stata pensata anche come contraria all’auto-affezione, alla trasparenza a sé, al significato e alla presenza; la voce è stata pensata anche come l’opposto del lògos, il negativo del lògos (Dolar 1996: 24). Il luogo cui dirigere l’attenzione è certamente la trattazione filosofica del canto, caso paradigmatico nel quale la voce ha manifestato la sua enigmaticità fino a configurarsi, contrariamente a quanto sostenuto da Derrida, come vera e propria minaccia alla presenza e alla costanza del senso. Per questo movimento del pensiero metafisico, le cui prime tracce risalgono al 2200 a.C. quando l’imperatore cinese Chun scrive i suoi precetti sulla musica, la musica può realizzare una pericolosa divaricazione tra la voce e le parole, tra suono e senso, significante e significato. La voce cantante che supera con la sua intensità il valore significante delle parole diventa un’insensata e seduttiva forza d’attrazione, e questa forza della parte sonora del canto è fatta coincidere, già dall’antichità, con la femminilità, in opposizione alla mascolinità del testo con la sua capacità di significazione.
La dicotomia tra voce e lògos è in gioco anche nel testo platonico che è denso d’indicazioni che condannano la musica e la sua presunta capacità di deteriorare le qualità individuali e le leggi della convivenza (Repubblica 4, 424c-e), fino a sostenere che il processo di decadenza morale possa essere iniziato proprio dalla musica, dove risiede la possibilità del piacere puro senza alcuna distinzione tra bene e male (Leggi 3, 700d-e). Platone cerca di combattere le pericolose potenzialità della musica stabilendo che musica e ritmo debbano sempre “seguire” le parole: deve esserci un significato, chiaramente definito, e successivamente un modo per esprimerlo. L’idea che possa esserci una voce la cui materialità sia più piacevole della contemplazione della verità ideale è assolutamente impraticabile. Quel che Platone mette in chiaro è che l’ambiguità terrifica della musica, la causa del timore che essa provoca risiede nel suo essere a metà strada tra natura e artificio.
Le stesse perplessità saranno espresse dalla filosofia cristiana, per esempio da Agostino: anche in questo caso la soluzione è di ricordare sempre che la verità sta nel significato della parola di Dio, non nel suo suono; il suono delle parole è invece diabolicamente capace di causare piacere, in un rapporto sostanzialmente carnale con l’uomo [2].
La voce oltre il fenomeno
All’interno di una prospettiva diversa, anche Adriana Cavarero (2003) critica la posizione di Derrida – ma più in generale della filosofia – segnalando come egli non arrivi a riconoscere la singolarità della voce come puro suono e resti invece vincolato all’idea di una voce come pensiero: la voce della coscienza fenomenologica è una voce del pensiero, per niente sonora. Riferendosi a Barthes, Cavarero riconosce che la priorità del linguaggio condanna l’essere umano a una certa comprensione del mondo e delle sue possibilità di azione, ma, senza negare tale presupposto, riconosce pure che la voce rivela proprio la particolarità dell’esperienza incarnata, quell’esperienza soggettiva di dolore e piacere che riesce a sovvertire le determinazioni del linguaggio. La voce, la mera sostanza acustica, ha una forza che «precede, genera ed eccede la comunicazione verbale» (ivi: 39), una forza che identifica in modo univoco il soggetto, come quando si risponde “sono io” alla domanda “chi è?” che ci rivolgono al telefono o al citofono (ivi: 192). Prima di assumere la funzione significante, la voce è essenzialmente espressione di “reciproca invocazione”, uno scambio musicale attraverso il quale si istituisce la relazione intersoggettiva: è quanto accade nella relazione tra madre e infante, nella quale la lallazione del bambino e le risposte della mamma si configurano come un “duetto” e realizzano una melodia che canta la loro reciproca dipendenza. La prima voce, la voce all’origine della storia del soggetto umano è proprio la voce che canta, non quella che dice.
Seppure Derrida identifichi nella voce una questione fondamentale, una sorta di “matrice della metafisica”, allo stesso tempo la intrappola nella stessa struttura metafisica che avrebbe voluto decostruire; la voce di cui si occupa Derrida non è in verità la voce “sonora”, quanto piuttosto un fenomeno concettuale. D’altra parte, non è forse essenza dell’uomo essere “zòon lògon èchon”, e dunque capace di un logos che è “phoné semantiké”? Se fosse solo la materia sonora della voce, la sua parte musicale e non semantica – diremmo: la capacità di farsi canto – a caratterizzare la voce dell’uomo, quale sarebbe la differenza con la voce degli animali, con i suoni emessi dalle bestie? Intorno a questo tema Agamben (1982) ha fornito commenti di grande efficacia: la voce umana è un’istanza puramente negativa, in quanto, questo è il punto centrale, essa non è più mero suono, come nel caso dei versi emessi dall’animale, ma non è ancora parola significante. La voce è un non-più e un non-ancora: essa ha il carattere dell’elemento mediano, tra l’insignificanza animale e la formalizzazione significante del mondo umano, del suono naturale che non si è ancora innalzato al livello del linguaggio. Il “pensiero della voce sola” dischiude una dimensione straordinaria: l’aver luogo dell’istanza di linguaggio, prima che sopraggiungano i significati. In modo più chiaro: la voce come intenzione di significare. Inoltre, aggiunge Agamben, la voce (con la minuscola, suono) deve sparire, per far luogo all’apparizione del significato, per lasciare che la Voce (con la maiuscola, articolata e significante) accada: «La voce, la φωνή animale, è, si, presupposta dagli shifters, ma come ciò che deve necessariamente esser tolto perché il discorso significante abbia luogo» (ivi: 48). Agamben giunge a criticare la teoria di Derrida sulla tradizione metafisica, e, pur riconoscendone il valore, denuncia come Derrida creda di aver dato abbrivio al superamento della metafisica quando invece ne ha «solo portato alla luce il problema fondamentale. La metafisica non è, infatti, semplicemente il primato della voce sul gramma. Se metafisica è quel pensiero che pone in origine la voce, è anche vero che questa voce è, fin dall’inizio, pensata come tolta, come Voce» (ivi: 54). La voce, il sonoro, è ciò che deve essere posto e al tempo stesso sottratto perché la metafisica abbia principio: così come sostiene Derrida, essa deve essere posta in quanto garante del significato stabilmente istituito, ma anche sottratta perché il permanere della voce impedirebbe la significazione.
Voce e identità
In termini più prossimi alle ricerche della psicoanalisi, il “sentirsi parlare” di cui ha detto la filosofia potrebbe ritenersi la forma primigenia di auto affermazione della coscienza, il fattore elementare della costituzione dell’identità. Jacques Lacan ha dedicato molta della sua iniziale speculazione alla formazione dell’Io, al narcisismo elementare e allo strumento primario di tale narcisismo: lo specchio (Lacan 2002a). Lo specchio ha la funzione di produrre l’auto riconoscimento, ossia la costituzione immaginaria dell’identità, attraverso la composizione in unità di un corpo che altrimenti, e primariamente, è avvertito dal bambino “in frammenti”, cioè un insieme di pezzi e movimenti scoordinati; grazie all’immagine allo specchio il corpo viene finalmente percepito come unità. Si tratta di una percezione che, in ragione della soddisfazione che genera, dà il via alla serie di identificazioni che consegneranno al soggetto l’illusione di essere un io: in altri termini, le identificazioni danno una consistenza immaginaria al soggetto.
Si può sostenere, sebbene Lacan non abbia sviluppato questo indirizzo della sua riflessione [3], che anche la voce contribuisca alla formazione dell’Io; si tratta di un tipo di identificazione molto diversa, e probabilmente più complessa, che però segue la stessa logica della deriva immaginaria della costituzione dell’Io: anche nel caso della voce, la storia del soggetto passa per un momento illusorio in cui il soggetto si riconosce nella voce dell’Altro. Il rapporto con l’Altro è sempre l’unica e decisiva possibilità di costituzione del soggetto, e all’Altro il soggetto deve per forza indirizzarsi: anche la voce, nell’atto stesso dell’emissione, si introduce nel dominio dell’Altro per tornare nello spazio del soggetto, che può così riconoscersi come tale (Silverman 1988). Per esempio il grido del neonato, che di per sé non vuole significare niente, avrà quale sua meta necessaria il “farsi sentire”, cioè dovrà raggiungere e passare attraverso l’Altro per poi concludere il suo giro tornando al soggetto: al termine del suo giro il grido sarà diventato un’invocazione, perché l’Altro lo avrà raccolto e avrà risposto all’appello. In modo logicamente simile a quanto accade con l’immagine allo specchio [4], la voce dell’Altro è il ritorno della propria voce: la voce che risponde all’invocazione consente all’infante di riconoscersi come io, come se la voce fosse stata riflessa da uno “specchio acustico”. Erik Porge, nel tentativo di colmare la mancanza di elaborazione della “pulsione invocante” da parte di Lacan, ha proposto di aggiungere allo stadio dello specchio anche uno stadio dell’eco (2012), uno stadio molto precoce in cui si realizza uno scambio di suoni, un rapporto di risonanze: in questo stadio, prima di introdurre il mondo del significato, la voce si configura come un “canto” che stabilisce il rapporto dell’infante con sé e col mondo, con l’Altro. In questo momento del processo costitutivo dell’identità è la sola voce che produce l’effetto di creare la relazione con l’Altro, e di certo la significazione non è ancora coinvolta. Prendiamo ancora l’esempio del grido del neonato: non c’è un significato nel grido del neonato prima che esso venga accolto dall’Altro, piuttosto è l’Altro che assegnerà un significato a quel grido (“ha fame”, “ha mal di pancia”, eccetera); la trasformazione da phoné a logos avverrà quando l’Altro farà dire al soggetto ciò che vuole che il soggetto dica, cioè quando l’Altro depositerà nella phoné inarticolata i significati che la renderanno espressiva. Prima di questo accadimento la distinzione tra soggetto e oggetto non ha neppure compimento: l’infante che grida non ha voce propria poiché non ha modo di dire “io grido”; quel grido è improprio (non-proprio), è semplicemente nel mondo, indistinto; quel grido, senza l’Altro, non può significare niente. Il passaggio attraverso l’Altro consentirà dunque di distinguersi come soggetto, di essere riconosciuto e di riconoscersi.
Sempre in una logica simile a quella della identificazione immaginaria allo specchio, anche l’auto-affezione vocal-uditiva include la perturbante percezione della difficile coincidenza fra l’emittente e il ricevente; c’è qualcosa nella propria voce che sfugge sempre, qualcosa che rende la voce estranea al soggetto, che la rende sempre in qualche modo la voce dell’Altro. Nel giro che va dalla bocca all’orecchio la voce perde il suo marchio di proprietà, fino al punto che deve essere nuovamente riconosciuta da chi l’ha emessa. Il perturbante caratterizza così sia lo sguardo (e l’immagine) sia la voce (e il suono): nel registro immaginario il soggetto si costituisce narcisisticamente attraverso il “vedersi vedere” o il “sentirsi parlare”, ma è pur vero che nell’atto di realizzazione di tale riflessività qualcosa sfugge al soggetto, e cessa di appartenergli; vedersi vedere e sentirsi parlare significa anche fare esperienza dell’Unheimlich, del perturbante, dell’impossibilità di far cessare lo sguardo che ci guarda o la voce che ci parla: la voce e lo sguardo continuano a indirizzarsi al soggetto indipendentemente dalle sue azioni volontarie, e possono condurlo occasionalmente a realizzare che qualcosa di voce e sguardo non gli appartiene, come se il proprio sguardo e la propria voce divenissero strumenti per l’azione scopica e invocativa di qualcun altro. Per questo si può dire che la voce è anche sempre voce dell’Altro, dell’Altro che parla attraverso il soggetto e del quale il soggetto non potrà mai appropriarsi.
Ecco perché per Lacan, al contrario di Derrida, l’auto-affezione realizzata dalla voce è il punto di partenza di una questione: rilevare che la voce è un’auto-affezione non dimostra la presenza della coscienza a se stessa, bensì vuol dire che al centro della presenza c’è una scissione. Nella teoria lacaniana c’è alienazione nel processo d’identificazione attraverso lo specchio, poiché l’immagine che rende l’unità del soggetto sarà comunque sempre esterna al soggetto; allo stesso modo la voce scinde il soggetto attraverso la sua alienazione nella voce dell’Altro. C’è un doppio effetto nel processo di identificazione immaginaria, due distinti momenti logici: l’immagine allo specchio provoca il riconoscimento giubilatorio dell’unità dell’Io e allo stesso tempo l’alienazione della propria identità nell’immagine stessa (che potrà poi essere avvertita come estranea); allo stesso modo l’esperienza della voce si configura come riconoscimento di sé ma pure come rivelazione di un’intima alterità costitutiva del soggetto, poiché anche la voce è in qualche modo sempre esterna.
Queste considerazioni sulla similarità tra la logica dell’identificazione immaginaria e dell’identificazione vocale ci permettono ora una prima sintesi – che proveremo a sviluppare ulteriormente: il canto è un momento di unità del corpo che equivale, in termini libidici, al momento giubilatorio del riconoscimento di sé allo specchio, perché quando la voce torna a farsi canto il corpo viene percepito come nuovamente unificato. Ci avviciniamo così un poco al senso dell’affermazione di Barthes dalla quale abbiamo preso le mosse: «godere fantasticamente del mio corpo unificato».
La voce come oggetto della pulsione
Jacques Lacan assegna un valore davvero originale alla voce: ne fa un oggetto pulsionale. Questa teoria è introdotta da Lacan nel Seminario X, un seminario dedicato al tema dell’angoscia, ed è qui che Lacan discute il suo più autentico contributo alla psicoanalisi: l’oggetto a. Come noto, l’oggetto è per la psicoanalisi quel che la pulsione ricerca per – temporaneamente – soddisfarsi; ma l’oggetto a di Jacques Lacan ha uno statuto affatto particolare che modifica radicalmente lo stesso concetto psicoanalitico di oggetto, e nella lista degli oggetti a Lacan include lo sguardo e la voce.
L’intervento lacaniano, dagli inizi degli anni Sessanta, distingue innanzitutto due dimensioni dell’oggetto: l’oggetto-mira e l’oggetto-causa. L’oggetto-mira può essere descritto dal modello fenomenologico, che con il termine oggetto intende una classe molto ampia e varia di cose, incluse quelle immaginarie, astratte [5]; l’oggetto-causa, che Lacan introduce nel Seminario X e che chiama appunto “oggetto a”, non è invece rubricabile sotto la categoria degli oggetti intenzionali e descrive l’esatto capovolgimento dell’oggetto husserliano, perché ha a che fare col desiderio:
Per fissare la nostra prospettiva, dirò che l’oggetto a non è da situare in nulla di analogo all’intenzionalità di una noesi. Nell’intenzionalità del desiderio – da distinguere precisamente da quella della noesi – tale oggetto deve essere concepito come la causa del desiderio. Per riprendere la mia metafora di prima, l’oggetto è dietro il desiderio (2007: 110)
Lacan sta descrivendo quell’oggetto che spinge, che dà il via al percorso metonimico del desiderio, all’inesauribile ricerca che movimenta la vita umana [6]. Il modello fenomenologico non può arrivare a descrivere l’oggetto pulsionale: è un oggetto che non solo non pertiene al registro non linguistico, ma si costituisce in modo paradossale attraverso la sua mancanza: è infatti la mancanza dell’oggetto-causa che spingerà il soggetto a tentare di recuperarlo attraverso l’inseguimento incessante di tanti oggetti-mira.
Non è qui possibile descrivere la complessità dell’oggetto a, soprattutto in relazione alla sua costituzione, ma per comprenderne la natura dobbiamo necessariamente fare riferimento a due concetti: la pulsione e il godimento originario (della Cosa). Freud descrive la pulsione come qualcosa a metà tra il somatico e lo psichico, qualcosa che possiamo definire come un “istinto artificiale” (Zenoni 1995: 169); l’obiettivo della pulsione è di completare il suo circuito e tornare al punto di partenza, e per realizzare il suo intento, a differenza del bisogno, la pulsione non si soddisfa con gli oggetti esterni – che sono di fatto “pretesti” intercambiabili – ma si soddisfa con il corpo proprio. Lacan, fedele alla pagina freudiana, insiste su un punto: la pulsione tende a rintracciare e ripetere una prima esperienza di soddisfazione, un episodio in cui il soggetto avrebbe conosciuto non solo la soddisfazione del bisogno, ma anche una soddisfazione “autentica”, un godere che ha accompagnato l’appagamento del bisogno; la pulsione, da allora, “gira” intorno a un oggetto vuoto, cerca di soddisfarsi con questo oggetto, di goderne.
Una possibilità di sintetizzare la natura dell’oggetto a è riferirlo alla nozione di traccia (Di Ciaccia 2012: 126). Il soggetto lacaniano deve essere cercato a partire da una traccia, la traccia lasciata dalla cancellazione della soddisfazione originaria, mai realmente accaduta ma già da sempre presupposta dal soggetto. La traccia, secondo questa interpretazione, ha due destini, entrambi necessari: diventare significante e trasformarsi in oggetto a. La traccia che diventa significante è ciò che del godimento originario si cancella per iscriversi nel simbolico, ciò che si traduce nella dialettica del linguaggio. La traccia che diviene oggetto a è invece una “cancellazione-materializzazione”, perché è una trasformazione della traccia in un posto nel quale si materializzeranno gli oggetti a: seno, escremento, sguardo e voce.
Per esempio, il bambino non succhia solo perché ha fame e cerca il latte, ma perché gira intorno a quell’oggetto – il seno – che è stato causa del godimento originario, e che diventa vuoto perché non è più presente, non più a disposizione; oltre alla soddisfazione del bisogno alimentare, il bambino è sempre sulle tracce di un altro appagamento. La ricerca si risolve in se stessa, cioè si soddisfa nel girare intorno a questo oggetto vuoto, ed è l’oggetto impossibile da mangiare, è proprio il “vuoto” dell’oggetto, la sua mancanza, che è causa del desiderio: è ciò che spinge incessantemente. Lacan può così specificare che l’oggetto(mira) è affatto intercambiabile e può anche precisare che l’oggetto a non è propriamente un oggetto, bensì un luogo che può essere occupato da una pluralità di oggetti, qualunque oggetto in grado di prendere il posto del vuoto lasciato da quel primo godimento originario (come nel caso del seno sostituito dal biberon): «Quell’attività che in lui denominiamo pulsione (Trieb), è devoluta a far ruotare tali oggetti per riprendere in essi e restaurare in lui la sua perdita originale» (Lacan 2002b: 852). Allo stesso modo, ogni suono, anche non umano, può fungere da oggetto-voce, perché ogni suono può avviare la ricerca desiderante della voce perduta, la voce coinvolta nella prima mitica soddisfazione originaria [7].
L’oggetto-voce è forse dell’oggetto più complesso, più “sottile” (Alemán e Larriera 2009), perché più di ogni altro presenta la difficoltà di comprendere in che modo esso debba essere costituito al suo centro da un vuoto, quel vuoto che consente al soggetto di cercare il godimento e di desiderare [8]; il vuoto che si deve realizzare non è solo quello dell’assenza – cioè la semplice scomparsa della voce – ma pure il vuoto di significato: la voce, in quanto oggetto della pulsione è vuota di ogni contenuto. Per la pulsione i significati, la funzione significante, il linguaggio, non contano niente. Qual è allora la voce perduta che diventa oggetto della pulsione, oggetto a?
La voce, il corpo e il godimento
Il soggetto lacaniano è sempre doppio, essenzialmente diviso: c’è il soggetto che si lascia rappresentare dalle parole, dal simbolico, e il soggetto del godimento, che niente ha a che fare con il linguaggio. Nel “primo Lacan”, fautore dello strutturalismo, la categoria di godimento non è ancora disponibile ed è l’azione del linguaggio, del simbolico, a tradurre il soggetto da una dimensione prossima al regno dell’animalità a quella propria dell’umanità. Per il Lacan strutturalista, non è, come ancora insegnava Kojève, la forza negatrice dell’intelletto a negare la realtà biologica del vivente umano, ma la semplice violenza del linguaggio, impersonale e anonimo così come lo ritrae il magistero dello strutturalismo (Lacan 2004: 381-396): il linguaggio allontana irreversibilmente dall’animalità perché l’istinto viene riferito – attraverso il linguaggio – all’Altro e inserito nell’ordine simbolico. Nel “secondo” Lacan è invece il rapporto con il godimento a fondare la costituzione della soggettività umana. La voce, ora, non è più strumento necessario al linguaggio, ma è l’espressione di un’originaria relazione “acustica” alla soddisfazione: parlare – il blablabla, dice Lacan – è un godere.
Il Seminario XX (2011), tenuto nel 1972-1973, è il momento in cui Lacan varia la sua idea di parola e di linguaggio, e inventa un termine che dovrebbe indicarne i nuovi caratteri: è lalangue, quella parola che non è più significante, ma è, appunto, solo godimento. È una virata molto brusca del suo pensiero, che si dirige verso l’identificazione di uno statuto più originario della parola: prima di essere mezzo di comunicazione, prima di essere inclusa nella grammatica del linguaggio, è una forma di godimento. Questo indica che, a questa altezza della sua riflessione, Lacan cessa di credere che il simbolico sia primario, che il linguaggio (inteso come la langue di De Saussure) presti la sua struttura al soggetto; c’è invece una lingua che accade prima del linguaggio, prima di essere catturata dal dizionario e dalla grammatica, prima del suo ingresso nelle strutture significanti: è appunto la lingua come lalangue, una lingua svincolata dal linguaggio, dalla significazione, dalla necessità di dire qualcosa, e che proprio per questa sua libertà la lingua permette il parlare che fa godere, il blablabla, che non significa niente. Quel che in Funzione e campo (1974), scritto del 1953, si chiamavano linguaggio e parola, ora, in quanto espressioni ottuse della soddisfazione originaria, cambiano in lalangue e blablabla. Dacché la nascita del soggetto è rintracciata nel rapporto con il godimento, e non più con il simbolico, Lacan individua un’altra funzione del linguaggio e un altro campo della parola, poiché c’è un linguaggio che non intende comunicare e una parola che non vuole significare. Lacan non abbandona la prospettiva strutturalista degli anni Cinquanta, ma riconosce un’altra possibilità di relazione costituente col linguaggio: il pre-linguistico fenomenologico, l’ipotesi di una coscienza in cui non sia presente il linguaggio – nel senso che non sia stata istruita né pronta a comunicare – è in altro modo recuperata; non si tratta ovviamente di una coscienza vuota – non potrebbe esserlo per definizione – ma di una coscienza che gode, piena di solo piacere. È questo un punto certamente controverso: per Lacan non può esistere un tempo che precede il linguaggio, perciò il godimento deve essere immanente al linguaggio, ossia deve delinearsi come ciò che, nel linguaggio, non può essere detto dal linguaggio.
In ogni caso, rispetto al dettato strutturalista, obiettivo certo della proposta lacaniana è di rielevare il corpo (e il godimento) al rango del linguaggio, di porli sullo stesso piano. C’è una soddisfazione che non dipende in alcun modo dall’Altro, ma è del corpo in quanto corpo, perché il corpo, secondo l’ultimo Lacan, gode senza l’Altro, gode di se stesso: è questo quel che l’ultimo Lacan chiama il godimento Uno, godimento del corpo proprio come luogo di godimento che basta a se stesso, ed è questo il momento originario del soggetto dell’inconscio [9].
Il soggetto gode anche in ragione della parola insignificante, gode de lalangue, del semplice fatto che il corpo parli, o meglio: che la voce abbia un corpo. Questo godimento che è nella voce in se stessa dovrà poi essere perduto affinché la parola sia possibile: se vogliamo che la voce “dica” qualcosa, bisogna che essa perda il godimento di sé. La storiella riportata come esempio da Mladen Dolar all’inizio del suo lavoro sulla voce (2014) è molto illustrativo: i soldati italiani, che durante la Prima Guerra non vogliono eseguire l’ordine d’assalto urlato dal loro Capitano, si concentrano sul puro suono del comando, e infine esclamano: “Che bella voce!”. Prestare attenzione alla materia acustica della voce, significa perdere traccia dei significati che essa veicola, vuol dire perdere il significato, e allo stesso tempo ricondursi a quel piacere originario della voce. Ecco perché il sonoro è quella parte dell’esperienza acustica che si deve perdere perché possa esserci la realtà, perché possa esserci significato, e allo stesso tempo è ciò che offre la possibilità alla ripetizione della soddisfazione originaria [10].
Si gode col corpo che, misteriosamente, “parla” (Miller 2001: 37) e gode della corporeità della parola, della parola in quanto sostanza corporea. Questa parola-corpo è disconnessa dall’Altro, non si rivolge a nessuno, non vuole comunicare, non vuole essere riconosciuta, è una mera figura del godimento: questa parola è solo suono, materia sonora, dunque corpo. Ciò che più le assomiglia è certamente la masturbazione, e infatti Lacan, nel Seminario XX, fa cenno alla possibilità di interpretare il blablabla come forma di sublimazione: «il corpo parlante (…) quando lo si lascia da solo, sublima a tutta forza tutto il tempo» (2011: 120-121).
Della sola voce il soggetto potrebbe continuare a godere se non fosse per l’intervento dell’Altro che lo forza a rinunciare al godimento autistico e ad accettare l’ordine del simbolico. La voce originaria, al contrario, non avrebbe bisogno di significare, di dire, di parlare, perché è già un godere; è l’ingresso nella dialettica con l’Altro (del circuito domanda-risposta, prevalentemente tra madre e bambino) che obbliga a rinunciare al godimento e in questo modo consente alla voce di dire e di significare. Per questo, sostiene Lacan, il soggetto sarà forzato a cercare quella voce della soddisfazione perduta, quella voce che bastava a se stessa, che non era del soggetto e non era di altri. Ciò che continuerà a cercare, l’oggetto-causa del desiderio, è la voce che non dice niente, la voce come “corpo insignificante” prima di ogni significazione, assolutamente non simbolico; in questa la voce non conta più quanto sia sonora, piuttosto quanto sia capace di essere un corpo che, in quanto tale, può procurare piacere al corpo, una soddisfazione pulsionale senza sublimazione (eppure non sessuale).
Ecco dunque cosa desidera la voce che canta: realizzare la coincidenza tra voce e corpo, e recuperare così il godimento originario, quella soddisfazione che invade il corpo quando la voce non significa niente e il corpo non è differenziato, non è territorializzato dal simbolico, dal linguaggio.
Bibliografia
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Note
- Husserl, avverte Derrida, ha sottomesso nuovamente «il segno alla verità, il linguaggio all’essere, la parola al pensiero e la scrittura alla parola». [⇡]
- Nella storia del pensiero non mancano posizioni contrarie a questo imponente paradigma intorno alla musica: è infatti presente una corrente d’interpretazione che trova nella musica l’unica voce appropriata alla grandezza di Dio, della verità. La musica è misteriosa proprio perché non comunica concetti, perché continua a esprimere ciò che non può essere espresso, non l’indicibile bensì l’ineffabile, come scrive Janké́lé́vitch (1998: 62). [⇡]
- Forse in ragione della teoria dello specchio, lo sguardo ha sempre goduto di un certo vantaggio. [⇡]
- Seppure il paradigma strutturalista non lo consenta, ci sembra difficile non sospettare che vi sia un ordine cronologico: le vicende della voce sono evidentemente anteriori a quelle dello specchio, e ciò farebbe dell’identificazione acustica un fenomeno più primitivo dell’identificazione immaginaria. [⇡]
- «Che l’angoscia mi prenda la gola, che il dolore mi roda un dente, che la pena mi strugga il cuore, tutte queste cose le percepisco nello stesso modo in cui percepisco che il vento scuote gli alberi» (Husserl 1968: 536). [⇡]
- La nozione di desiderio non trova una descrizione puntuale nella teoria lacaniana: è ciò che resta dopo che bisogni – fisiologici – e domanda – di accoglimento nell’ordine simbolico – sono stati soddisfatti; oltre i confini dell’organico e del simbolico, è ciò che non può essere detto. [⇡]
- Per queste ragioni Roland Barthes può scrivere: «La voce umana è dunque il luogo privilegiato (eidetico) della differenza: un luogo che sfugge a ogni scienza, perché non esiste scienza (fisiologia, storia, estetica, psicanalisi) che esaurisca la voce: per quanto si classifichi, si commenti storicamente, sociologicamente, esteticamente, tecnicamente la musica, ci sarà sempre un resto, un supplemento, un lapsus, un non detto che si designa da solo: la voce. Questo oggetto sempre differente è posto dalla psicanalisi tra gli oggetti del desiderio in quanto mancante, cioè tra gli oggetti a» (2001: 268). [⇡]
- Dobbiamo precisare che gli oggetti sguardo e voce sono si correlati al desiderio – essi causano il desiderio, sono «il supporto per il desiderio dell’Altro» (Lacan 1974: 852) – ma c’è da distinguere la direzione, il verso del desiderio dell’Altro: la voce è oggetto-causa del desiderio verso l’Altro, mentre lo sguardo è oggetto-causa del desiderio che proviene dall’Altro. [⇡]
- Nel Seminario X troviamo descrizioni del corpo e degli organi secondo un approccio naturalistico: non se ne comprenderebbe la ragione se non si tenesse presente che da questo punto della sua speculazione Lacan cerca di ridefinire gli oggetti prima che essi diventino simbolici, prima dell’intervento del linguaggio: si tratta, per esempio, di un ritorno al seno reale, a un pezzo di corpo che non è ancora “segno d’amore”. Inizia a cercare, per dirla con Nietzsche, la grande ragione del corpo. [⇡]
- La voce che per Agamben deve annullarsi per lasciar spazio alla Voce significante, sarebbe, in termini psicoanalitici, il godimento cui il soggetto deve rinunciare per essere ammesso nell’ordine simbolico. [⇡]
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