Il trauma


Relazione presentata al Convegno Nazionale UCIPEM “Child Abuse”:
“Effetti clinici ed implicazioni soggettive nell’esperienza di abuso e nelle relazioni familiari” Franco Lolli
, Termoli 2 novembre 2019

Buongiorno a tutti e grazie per l’invito a partecipare a questo vostro incontro.
Le riflessioni che vi proporrò sono frutto dell’ascolto di persone che ho ricevuto e ricevo in studio e, dunque, sono considerazioni maturate in virtù di quanto ho avuto modo di verificare in numerose situazioni cliniche che hanno a che fare con il tema di cui oggi discutiamo: l’abuso. Queste riflessioni, pertanto, nascono, da un lato, dal materiale clinico e dall’ascolto di persone che hanno attraversato questo tipo di sofferenza, dall’altro, dal confronto costante con la teoria psicoanalitica alla quale farò riferimento, alla quale mi sono formato e che credo riesca a dire delle cose molto interessanti sulla questione.
Aprirò la mia relazione con un breve frammento di uno dei molteplici casi che mi è capitato di incontrare nel corso della mia attività professionale. Ho pensato di parlarvi di questo caso perché è un caso ordinario, che non ha nulla di eccezionale. È una delle tante storie che si possono ascoltare quando si affronta questo tema; ma proprio perché ordinario, credo sia utile per introdurci nell’argomento di oggi.
Vi parlerò di un ragazzo di trentuno anni che ricevo nel mio studio e che chiamerò Mario. Mario è uno studente universitario, bloccato da anni alla triennale, non riuscendo a proseguire i suoi studi per conseguire la laurea. Lo ricevo perché inviato dal servizio locale di psichiatria, dopo l’ennesimo tentativo di suicidio; subito capisco che si tratta di un caso molto impegnativo. Mario non ha nulla da dire, è scoraggiato, negativo, si definisce depresso, con una mimica facciale assolutamente inespressiva. Il suo tono è monocorde. In lui manca ogni tipo di slancio vitale. Mi dice che non si aspetta nulla dalla terapia; viene agli incontri solo perché mandato dallo psichiatra e su insistenza della madre, che, peraltro, lo accompagna in seduta. Non ha certamente un atteggiamento oppositivo, ma è sicuramente rinunciatario, disfattista, ai limiti del cinismo. Non si dà nessuna possibilità. Emerge in modo davvero importante il lato disperante di questa condizione esistenziale. Gli chiedo di raccontarmi la sua storia e incredibilmente dopo due sedute mi dice che mi ha detto tutto (come se una vita di trentuno anni potesse riassumersi in due sedute). C’è molta angoscia in Mario, anche se, forse, per effetto dei farmaci, questa angoscia sembra ammortizzata.
Cosa fare con una persona del genere? Come trattare una domanda di questo tipo? Da dove viene questa forma di ottundimento? Che, per giunta, sembra confinare, dal punto di vista fenomenico, con una sorta di inibizione intellettiva, con un rifiuto ostinato di sapere?
Qualcosa, di certo, lo ha bloccato e ne blocca il discorso. Solo un dolore di fondo, sordo, costante. Eppure, contro ogni mia previsione, Mario continua a venire in seduta. Mi parla di genitori problematici, in modo particolare del padre. Gli chiedo se ha qualche ricordo dell’infanzia, mi dice di no. Tutto sembra chiuso: il suo discorso è ermeticamente sigillato, non lascia passare nulla. Questa situazione va avanti diverse sedute. Ad un certo punto, mi chiede a cosa serva venire in terapia; mette, neppure tanto sotterraneamente, in dubbio la terapia, attribuendosi la responsabilità di un ulteriore eventuale fallimento. Ma noi che siamo stati formati all’insegnamento di Freud, sappiamo che quando una persona si auto-accusa, in fondo accusa l’altro. Dietro l’auto-accusa c’è sempre un’accusa rivolta all’altro. Dunque, io mi sintonizzo su quest’auto-accusa e comincio a capire che mi sta accusando implicitamente di qualcosa. Lui dice: “cosa può fare l’altro per me? io sono troppo grave”. Denunciando il proprio fallimento, implicitamente denuncia l’impotenza dell’altro. È disposto a fallire, pur di far fallire l’altro nel suo intento di guarirlo, di farlo stare meglio.
Io insisto col chiedere se ha ricordi, pensieri, memoria di pezzi di vita dell’infanzia e d’improvviso, nel corso di una seduta, mi dice, in una maniera assolutamente priva di risalto emotivo, di aver subito una violenza sessuale all’età di sette anni. Gli chiedo immediatamente di specificarmi l’evento, di dirmi cosa ricorda. Non dobbiamo aver paura di chiedere: la persona che ci riferisce un evento del genere deve poterne finalmente parlare e trovare in noi un ascolto non intimidito. Lui mi dice: “un ragazzo di diciassette/diciotto anni, un amico di famiglia, ha preso me e mio cugino, ci ha portati in un posto, si è slacciato i pantaloni e ci ha chiesto di avere un rapporto orale”. Io chiedo ulteriori dettagli. Mi dice che lui l’ha fatto ed anche suo cugino. E allora gli domando se lui li avesse costretti e lui dice di no. Chiedo allora: “perché allora parla di una violenza sessuale?”. Lui risponde di non sapere perché.
Ecco che siamo arrivati ad una prima questione; una questione molto spinosa, molto politicamente scorretta, ma, se vogliamo affrontare il tema seriamente, dobbiamo avere il coraggio di affrontare dei punti irritanti. Mario ci fa capire che ciò che ha vissuto, pur non trattandosi di una violenza nel senso comune della parola, soggettivamente, per lui, è stata violenza: così, per lo meno, la definisce. Ci dobbiamo interrogare quindi su questa apparente contraddizione, su questo apparente attrito semantico. Vorrei fermarmi un attimo su questo punto, che è un punto assolutamente scottante, urticante: ma è proprio a questo livello che la riflessione psicoanalitica può dare un contributo importante alla suddetta questione.
Mario racconta come violenza un fatto che non ha il carattere solito, abitudinario della violenza, che non è, cioè, caratterizzato da un’imposizione esplicita, da una forza fisica o da una suggestione, da un’influenza che superi un certo livello di costrizione. Tutto questo, nel racconto di Mario, non c’è. L’abusante è un ragazzo come lui. Questo è il terreno spinoso, molto delicato e complesso del tema. Mario non è obbligato a praticare il rapporto orale, ma in un certo senso sì. È costretto, ma in realtà non lo è. C’è un’ambivalenza profonda nell’evento della realtà. Allo stesso tempo lui avrebbe potuto scappare, ma non lo ha fatto, avrebbe potuto opporsi, ma non lo ha fatto. D’altra parte dire di sì è quasi una scelta forzata perché a dirgli di farlo è un ragazzo più forte di lui. Quell’invito suona, per Mario, come un ordine, con tutto l’aspetto costrittivo che è implicato in un’azione del genere. Siamo di fronte a quella che nella linguistica si definisce aporia: due asserzioni opposte che coesistono. Aggiungo, ora, altri due punti al ragionamento.
Primo punto: Mario ricorda precisamente il pene in bocca. Come mai? Lui dice che è un ricordo che gli fa schifo, ma lo conserva, lo mantiene in memoria. Perché? Cosa ha significato dal punto di vista pulsionale quel contatto con il sesso del diciottenne? Lui non lo sa, non sa dirne nulla ma, a livello della coscienza, c’è disgusto, c’è questa sensazione di schifo. Viene da chiedersi come mai una cosa così spiacevole non sia caduta nell’oblio. L’oblio è fatto proprio per dimenticare le cose spiacevoli. Se non ci fosse l’oblio, se non ci fosse la possibilità di dimenticare, saremmo così ingolfati dalle cose spiacevoli che non potremmo sopravvivere. Ma come mai una cosa così spiacevole non viene rimossa? Questo è il mistero della conservazione del peggio in memoria. Il peggio si conserva in memoria. Il male si fa difficoltà a dimenticarlo.
Secondo punto: Mario non racconta niente a nessuno; questo evento si incista nella sua mente come il grande segreto della sua vita. Un segreto condiviso: tra lui, il cugino, con cui non ne parlerà mai, e questo ragazzo che, da adulto, continua ad incontrare ma con il quale non ha mai più parlato. Colpisce il fatto che Mario non racconti nulla nemmeno ai suoi genitori. Nessuno sa niente, nessuno quindi può salvarlo; l’altro è fuori gioco. Esattamente come avviene, ripetendosi nel transfert, in ambito terapeutico. Anche io all’inizio, come terapeuta, vengo messo fuori gioco da lui. Non posso far niente. L’altro non ha fatto niente per lui: e ora, ciò che porta in seduta è che l’altro, ovvero il terapeuta, non può fare nulla per aiutarlo. Quindi Mario vive in una profonda solitudine, nella quale però tende a stare. Questo è un aspetto molto importante e ricorrente: la difficoltà a condividere l’esperienza con le persone care. La persona abusata non rivela il proprio segreto e si condanna a vivere nella solitudine questo aspetto drammatico della sua vita. Perché non ce la fa a dirlo?
Per rispondere a questi interrogativi, è necessario spiegare meglio la nozione di trauma. Che cos’è il trauma in psicoanalisi? Il trauma è qualsiasi evento il soggetto non riesca a comprendere. Trauma non è ciò che nella realtà si pensa faccia trauma. Trauma è qualunque esperienza accada a un soggetto in un’età nella quale egli non possiede ancora gli strumenti (cognitivi, emotivi, affettivi, ecc.) per comprenderla, e che, di conseguenza, si fissa in memoria come enigmatica, perturbante, angosciosa. Ciò che non è classificabile, ciò che non è assimilabile, ciò che non è elaborabile a livello simbolico resta incistato nello psichismo dell’essere umano come traumatico. Su questo punto, la psicologia commette un grave errore; non esiste un concetto di trauma generalizzabile, universalizzabile, applicabile ad ogni essere umano, in funzione della gravità ‘reale’ dell’evento. Un accadimento può avere valore di trauma per un soggetto ed un valore salvifico per un altro. Ad esempio: per alcuni, la recente esperienza del terremoto nelle Marche è stata assolutamente traumatica, per altri, ha generato uno slancio vitale straordinario. La stessa scossa di terremoto, uguale per tutti sul piano della realtà, ha avuto un significato (traumatico o no) soggettivo diverso per ognuno. Non esiste un trauma oggettivo! Non possiamo cadere nell’errore di pensare che un evento sia traumatico per tutti. Un evento è traumatico per me dal momento che assume una forma incomprensibile che fa si che io non riesca a classificare quell’evento e dunque resta bloccato come elemento estraneo all’interno di me. Pertanto, trauma può essere un semplice sguardo. Ho avuto in trattamento una ragazza per la quale fu traumatico notare come lo sguardo del suo amico bagnino con il quale era cresciuta, da un anno all’altro fosse cambiato nei suoi confronti. Dal momento in cui lei era diventata “signorina” – così si dice dalle mie parti – lui l’aveva cominciata a guardare in un altro modo, in un modo che lei non riusciva a spiegarsi. Il bagnino, probabilmente, vedeva in lei un oggetto sessuale, che fino all’anno precedente (prima del suo sviluppo sessuale) evidentemente per lui non era.
Il trauma quindi ha un valore e una portata assolutamente soggettiva. Si tratta di comprendere, allora, cosa renda effettivamente traumatica un’esperienza.
Il soggetto – lo abbiamo già visto – vive come traumatico un evento che non riesce a capire. Ma che carattere deve avere l’evento affinché il soggetto non riesca a capirlo e a viverlo, di conseguenza, come traumatico? Dobbiamo aggiungere un nuovo elemento a quanto sinora detto.
Un evento diventa traumatico, non solo quando non lo si comprende, ma quando, nel momento in cui lo si vive, il soggetto si sente ridotto ad oggetto. Ad esempio – come nel caso della mia paziente – oggetto di uno sguardo morboso, oggetto del godimento dell’altro: il quale vuole, evidentemente, il suo corpo, vuole pezzi del suo corpo. Dunque, è il sentirsi oggetto di una volontà che si disinteressa del proprio bene ad acquistare un valore traumatico. Non c’è niente di più traumatico di essere ridotti a corpo; noi non siamo un corpo, noi abbiamo un corpo. E quando l’esperienza ci porta a pensare che siamo un corpo, questo ha un effetto angosciante. Le donne sanno bene cosa significa questo sentirsi considerate come pezzo di corpo, quando, passando davanti al bar dello sport, davanti al gruppo dei maschi del paese, percepiscono chiaramente il peso, l’intrusione e l’invadenza del loro sguardo. Esse sanno cosa vuol dire lo sguardo dei maschi su di loro: uno sguardo penetrante, uno sguardo che riduce il soggetto a corpo, addirittura a un pezzo di corpo.
Dunque, abbiamo detto che trauma è ciò che non si comprende: il secondo passo che abbiamo fatto è considerare che è traumatico il sentirsi considerati oggetto delle attenzioni dell’altro. Ma tutto questo non sarebbe sufficiente senza un terzo elemento sul quale occorre soffermarsi. Il trauma più insidioso, quello che resta indimenticabile, si realizza quando al soggetto capita di sperimentare di essere, non solo, come già visto, oggetto dell’altro, ma, soprattutto, oggetto di una reazione inattesa che si produce all’interno del proprio corpo; quando cioè, pur in una condizione ritenuta sconveniente, come ad esempio quella di cui ci parla Mario, disgustosa, percepita razionalmente come sbagliata, sconveniente dal punto di vista morale, il soggetto si rende conto che, suo malgrado, avverte delle sensazioni particolari nel corpo. Sensazioni che non possiamo chiamare di piacere, ma, sicuramente, sensazioni di compiacenza del corpo. Qualcosa nel corpo risuona, contro la volontà del soggetto, che, simultaneamente, reputa quell’evento disdicevole. Il corpo, cioè, risponde pulsionalmente all’evento, contro la volontà dell’Io che, in effetti, giudica quella situazione come vergognosa. Questo fa sentire il soggetto in colpa. Come può essere che il mio corpo risponda libidicamente ad un evento che mi fa schifo?
Sentirsi oggetto del proprio corpo è una sensazione inaccettabile. Il vero trauma è proprio questo. Il che spiega la frequente impossibilità del minore di parlarne ai genitori: perché il bambino teme che possa emergere questa verità scabrosa, questa biasimata implicazione pulsionale del corpo. Questa situazione schianta lo psichismo del traumatizzato e lo divide, perché, da un lato, idealmente non sopporta quell’evento che è successo, ma dall’altro, sente che una parte di sé ha risuonato eccitandosi. Il traumatizzato spesso si colpevolizza chiedendosi perché non ha evitato l’incontro, perché è tornato in quel posto; sono domande di un’implicazione etica spaventosa.
Come si difende il soggetto da tutto questo?
L’evento in sé viene rimosso e cade nell’oblio, ma l’affetto non può essere rimosso. L’angoscia del sentirsi oggetto non può essere rimossa ma – come dice Jacques Lacan – ‘va alla deriva’, cioè si lega ad altri pensieri. Ad esempio, per Mario è angosciante il sentirsi solo, ma capite bene che il sentirsi solo è un aspetto dell’evento. Lui per anni, finché non ne ha parlato, non riusciva a legare quest’angoscia al trauma sessuale, ma lo legava al fatto di sentirsi solo (sentirsi solo è un aspetto dell’evento ma non l’evento, è una sua parte non il tutto). Lui ha vissuto vent’anni dominato dall’angoscia, senza conoscerne l’origine.
Il compito della terapia, allora, è riunire affetto e rappresentazione, cioè riportare il soggetto a parlare dell’evento. Ecco perché non bisogna aver paura di chiedere di parlare dell’accaduto, entrando (ovviamente con discrezione e pudore) anche nei particolari: perché il soggetto ha bisogno di raccontare ciò che gli è successo. E sarà proprio a forza di dirlo, di raccontarlo, di tornarci su più volte che l’evento potrà essere riscritto, riconfigurato e perderà, progressivamente, la sua qualificazione di trauma.
Ciò che si sedimenta nello psichismo, sebbene ben camuffato, è questo aspetto perturbante dell’esperienza vissuta, nella quale il soggetto si è sentito coinvolto. “Come posso essere stato così debole di fronte al male?”, si chiede. Come se il male, in questo modo, fosse entrato in lui. Questo è uno dei punti più problematici: ed è ciò, a mio avviso, che ha portato Mario a tentare il suicidio, nel tentativo di liberarsi dalla sensazione insopportabile che il male non sia solo fuori, ma dentro di lui. Mario vuole ammazzarsi per ammazzare il male che lo abita. Il male è dentro ed è legato a quella parte di sé che è risultata inconsapevolmente coinvolta, contro ogni volontà, nell’evento che l’io depreca. Il soggetto si sente colpevole di aver provato quello che Freud definisce un ‘piacere di natura diversa’ (una sorta di risonanza del corpo). Il vero trauma, allora, è quello di sentirsi alla mercé del proprio corpo.
La psicoterapia deve mirare a mettere in luce questa radicale divisione del soggetto, questo conflitto doloroso che la persona traumatizzata tende a non vedere o ad attribuire all’altro.
C’è però un ulteriore problema che la clinica mette in evidenza a proposito del sentirsi oggetto del godimento non voluto del proprio corpo (questa strana miscela di piacere e dispiacere). Tale godimento richiede di essere messo nuovamente in scena; questo è il vero problema. Il corpo reclama una nuova stimolazione, che seppur vissuta consapevolmente come spiacevole, tuttavia esige di essere vissuta ancora. È ciò che Freud chiama coazione a ripetere. Ecco perché colui o colei che è stato/a molestato/a o si consegna ripetutamente e ‘volontaristicamente’ alla vittima o diventa lui/lei stesso/a molestatore/molestatrice: il tutto, ovviamente, all’interno di una logica inconscia. E sarà questo programma inconscio ad orientare la sua azione, il suo futuro, il suo ‘destino’, alla ricerca (non consapevole) di quegli effetti pulsionali del corpo che, evidentemente, si sono iscritti nello psichismo del soggetto a seguito di quella prima esperienza. Ci troviamo di fronte e a fare i conti con una sorta di necessità interna a rimettere in scena la stessa situazione, indifferentemente in posizione attiva o passiva, di vittima o carnefice. Inconsciamente – lo ribadisco – ciò che è ricercato è il momento in cui il corpo è stato attraversato da quella corrente libidica, inappropriata ma vitalizzante, eccitante, che è stata vissuta come angosciosa ma che ha, tuttavia, lasciato una traccia indelebile. Quella sensazione viene condannata dall’istanza morale ma, contemporaneamente, ad un altro livello, la si ricerca; e nel ricercarla, la si manca sempre, non la si trova più, per questo si deve ripetere la scena traumatica, ancora e ancora. Potremmo dire così: la sensazione originaria non sarà più possibile riprovarla, ma l’intensità della spinta inconscia a ricercarla resterà sempre forte ed esigente. Da qui il carattere compulsivo di tutte quelle pratiche che si sviluppano a partire dall’incontro con il trauma, pratiche che suppliscono allo stato di eccitazione sessuale del corpo attraverso sostanze o di situazioni che garantiscono il raggiungimento di analogo livello di vitalizzazione (ad esempio, nelle dipendenze da droghe, ma anche da sesso, dal gioco, ecc.): un qualcosa vissuto coscientemente come assolutamente schifoso richiede di essere messo ancora in scena, reclama un’ulteriore soddisfazione.
Il trattamento deve puntare a mettere in evidenza questi aspetti dell’esperienza traumatica, che sono i più sconvenienti, i più conflittuali, i più problematici: e che possono toccare e far vibrare alcune corde sensibili dell’operatore. Si tratta di lavorare su un meccanismo psichico, che – ahimè – può affezionare la vittima all’evento spiacevole. Il nostro compito è lavorare per disinnescare questo meccanismo coattivo che associa in maniera problematica l’evento traumatico ad una memoria di attivazione del sistema che, in una qualche misura, è stato vissuto come indimenticabile.
Grazie a tutti.