Mi ritrovo a guardare la serie originale Netflix SanPa, storia di Vincenzo Muccioli e della comunità di San Patrignano. Storia di luci ed ombre, di fasti e terribili retroscena.
Contemporaneamente leggo Psicoanalisi senza dio, testo edito da Poiesis Editrice, il cui filo rosso è la necessità, per la psicoanalisi, di tornare ad auspicare (prima ancora, a ricercare nella teoria) un fondamento laico della sua pratica, non religioso.
Cosa ha in comune SanPa con Psicoanalisi senza dio? Apparentemente nulla, perché Muccioli non era uno psicoanalista e anche perché la psicoanalisi non dovrebbe preoccuparsi del “recupero” delle anime che sembrano perse.
Eppure i miei pensieri continuano ad andare e venire dall’uno all’altro, particolarmente attorno ad un punto: quello dell’etica.
La serie Netfilx racconta la storia di un uomo, Vincenzo Muccioli, che si è fatto carico di un’emergenza sociale, la tossicodipendenza, in un momento storico in cui le risposte dello Stato erano insufficienti e inadeguate.
Se, da una parte, Muccioli ha dunque risposto laddove lo Stato non era riuscito, dall’altra, di fatto, ha preso il posto delle famiglie distrutte e incapaci di gestire la presenza di un figlio tossicodipendente, applicando un metodo proclamato sin da subito: “io non ti lascio andare”. Nel momento in cui, cioè, un utente della comunità avesse voluto andare via e tornare alla tossicodipendenza, Muccioli impediva che questo accadesse ed era disposto a farlo a qualsiasi costo.
La frase di per sè ha un alone romantico: “nel momento in cui non ce la fai da solo, ci sono io ad impedirti di cedere”.
Peccato però che per tener fede a questa parola siano state necessarie le catene, il contenimento forzato, la segregazione, l’isolamento: tutto ciò che, di fatto, lede la dignità umana, la libertà di scegliere, la vita stessa.
Vincenzo Muccioli, acclamato dalle folle come si fa con la statua del Santo portato in processione per il paese, non si è però occupato del conflitto interno che causa la dipendenza degli utenti di San Patrignano (e neppure avrebbe potuto).
Ha invece aumentato quel conflitto facendolo talvolta diventare una spaccatura, tanto da portare alcuni suoi assistiti al suicidio. I sopravvissuti mostrano nelle loro testimonianze l’ambivalenza che il conflitto ha infiltrato nelle loro vite: la riconoscenza per un uomo (un padre?) che ha loro salvato la vita, ma che, in cambio, ha preteso la vita stessa. Muccioli non li ha lasciati andare, tutto poteva e doveva svolgersi solo nella sua comunità.
La testimonianza più drammatica, a mio avviso, è quella di Fabio Cantelli, oggi scrittore e filosofo, ospite per 10 anni della comunità di San Patrignano.
“Se non avessi trovato una persona col coraggio di commettere un sequestro, non penso sarei vivo. Poi certo, la sopravvivenza non è vita”.
In ogni sua parola si avverte la non coincidenza tra l’essersi salvato dalla morte e l’essere vivo. La vita infatti non gli apparteneva più, neppure la diagnosi della sua terribile malattia.
Riprendere a vivere fuori dalla comunità è stato il vero lavoro da compiere per chi è riuscito ad andarsene, lavoro dipeso in toto da se stessi, non dalla volontà di qualcun altro.
Le mie riflessioni non vogliono essere un giudizio su Vincenzo Muccioli e sul suo operato, ma intendono porre una domanda: il fine giustifica i mezzi? E, se si, qual è il fine?
Il fine, non la fine.
“Qual è il fine” è la domanda che deve continuare a farsi la psicoanalisi per non incappare in quello che nel testo Psicoanalisi senza dio è chiamato il nuovo discorso religioso.
Mettersi dalla parte di dio (con la d minuscola), di un padre che può ristabilire un ordine, si allontana da quanto la psicoanalisi, sin da Freud, si è proposta di fare.
Dice Franco Lolli, nella prefazione del testo, che il vero rischio per la psicoanalisi è quello di implodere, di perdere di vista la propria identità costitutiva: annegare essa stessa nella ricerca di un senso per tutto, rispondere ad ogni angoscia del tempo sedandola, saturandola. Rispondere, peraltro, attraverso il senso comune, facendo ricorso a quanto è socialmente accettato, condiviso e compreso. La psicoanalisi però non è nata per questo. Secondo Cristian Muscelli, la psicoanalisi “non può permettersi di rimanere inconsapevolmente incollata ad una narrazione; (…) perché essenzialmente è una prassi orientata dalla possibilità di soggettivazione” [1].
E la soggettivazione è un processo in cui si è soli. É la presa in carico della responsabilità della propria vita, senza più domandare all’altro cosa fare né chiedergli la garanzia che ciò che si sta facendo sia giusto.
Se lo psicoanalista pensa che, per ristabilire un ordine sociale, sia necessario ripristinare il padre capace di porre limiti, rischia di incarnare egli stesso questa figura. Proprio come, inconsapevolmente, ha fatto Vincenzo Muccioli.
La psicoanalisi non può salvare, per quanto il soggetto voglia o meno essere salvato; talvolta anche la parola “curare” sembra rivelarsi inappropriata.
Cosa si può fare, allora? Più che rispondere tramite una pratica, direi che la risposta più adeguata sia il richiamo all’etica, che, come espressa ne Il Seminario, Libro VII di Lacan, L’etica della psicoanalisi, consiste essenzialmente in un giudizio sulla nostra azione.
La psicoanalisi apporta qualcosa che si pone come misura della nostra azione [2], pone l’accento sul rapporto dell’azione con il desiderio che la abita. Il desiderio, non il volere né il potere, non il piacere né l’utile. Parlare di desiderio significa, cioè, andare al di là del bisogno, del narcisismo, dell’Io. Licitra Rosa si sofferma sulla buona risposta che la psicoanalisi è chiamata a dare, una risposta però sui generis, che può essere anche il silenzio o la non risposta. La buona risposta, la risposta etica, non è la risposta di aiuto (non è, ad esempio, decolpevolizzare il paziente). Comporta invece la dimensione dell’inconscio, particolarmente attorno a quel punto che è un vuoto di senso. “Non si tratta di spingere la persona a realizzare il suo fantasma, ma di spingerla in quella direzione ben più orrenda, ben più angosciosa, di farglielo enunciare, facendogli percepire lo stridente contrasto fra tale enunciato e tutto il resto delle costruzioni ideali su cui si sostiene. Saper dare la giusta risposta è qualcosa che si situa proprio su questo piano”. [3]
Rispondere ad ogni domanda dalla posizione del padre che sa tutto è il tentativo di colmare quel vuoto di senso.
La psicoanalisi opera nella direzione opposta: “punta a destrutturare, nel soggetto analizzante, ogni difesa dalla sua verità ultima, dalla verità della sua castrazione, della sua divisione, della sua impossibile padronanza di sé” [4], fino alla massima liquidazione possibile del retaggio narcisistico.
L’analisi mira a fare della mancanza irriducibile che abita il soggetto il vuoto causativo della propria esistenza, estinguendo il legame analista-padre-dio, smontando l’impianto edipico e rendendo possibile che il soggetto saldi i suoi debiti.
Vincenzo Muccioli, proprio perché non era uno psicoanalista, non poteva sapere tutto ciò. Talvolta, però, per lo psicoanalista, pur cosciente del pericolo, lo spazio tra il suo fare e la posizione del santone risulta troppo ridotto.
Di fatto, ciascuno di noi, nel senso di chi si forma alla pratica psicoanalitica, è a rischio di fare quel passo. Rischiare di voler dire su tutto, di pensare di poter interpretare tutto in nome di una competenza particolare, di una conoscenza più vera.
Qual è il limite tra il poter dire, assumendosi la responsabilità della propria parola (responsabilità che l’analisi dovrebbe produrre) e il voler a tutti i costi dire la propria?
Riletture.
A colpire particolarmente la mia attenzione in Psicoanalisi senza dio è una lettura nuova di concetti e pensieri che siamo abituati a prendere per veri, tanto da non fare a volte le domande che sarebbe stato lecito e necessario porsi.
Ad esempio, nel suo contributo, Pommier sottolinea come ci si sia abituati a sentir dire che la donna è “non tutta”, dando dunque per scontato che l’uomo sia un “tutto”. “Non esiste una definizione migliore del patriarcato!”, dice Pommier [5].
Anche l’operazione di archeologia critica che Markos Zafiropoulos fa dell’insegnamento di Lacan, in cui identifica un primo periodo, dal 1938 al 1953, e un secondo che va dal 1953 al 1957, risulta davvero utile per contestualizzare correttamente la sua elaborazione teorica.
La distinzione di questi due momenti temporali è data dal passaggio di Lacan dalle teorie di Durkheim a quelle di Lèvi-Strauss, passaggio che consentirà un vero ritorno a Freud.
Nel 1938, Lacan scrive il testo sui complessi familiari in cui risulterebbero le “famiglie di uomini eminenti” le più adatte alla “trasmissione dell’ideale dell’io” [6] di padre in figlio. Secondo Zafiropoulos dal 1938 al 1950, l’asse tematico che guida le ricerche di Lacan è l’asse che fa dipendere la maturazione soggettiva e la produzione culturale dei popoli dalle “condizioni sociali dell’edipismo”, garantite dall’esistenza del padre di famiglia. Sarà nel 1953, nel Discorso di Roma, che Lacan sostituirà il Nome del Padre al padre di famiglia, facendo dunque prevalere le leggi del simbolico e del linguaggio su quelle immaginarie/familiari.
La possibilità di rileggere la teoria e l’esperienza clinica di altri, anche quando non ci si trova in accordo, mi pare una prospettiva, forse l’unica, per non addormentarsi su quanto già sentito, dato per certo, per scontato. Restare in ascolto, aperto e attento, proprio come si fa verso il discorso di un paziente, senza poter mai credere di averne capito tutto.
“Ci sono diverse scuole, fino al punto che ogni analista inventa la sua propria teoria. Ma tutte queste teorie vengono dopo la pratica. La teorie psicoanalitiche sono numerose, ma non c’è che una pratica: è quella del divano e della poltrona, che permette di ascoltare senza interferenze le ripetizioni nella parola e di restituirle alla propria poesia. È la più intima pratica della musica: tale pratica non ha eguali e dà alla psicoanalisi un grande avvenire” [7].
Note
- MUSCELLI C., Sulla trascendenza in psicoanalisi, in Psicoanalisi senza dio, Poiesis Editrice, Bari 2021, p. 194. [⇡]
- LACAN J., Il Seminario Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2008, p.337. [⇡]
- LICITRA ROSA C., Note introduttive sull’etica della psicoanalisi, http://psicolicitra.it/wp-content/uploads/2015/02/Considerazioni_sull_etica_della_psicoanalisi.pdf , 2015, p.8. [⇡]
- LOLLI F., Morte del padre e fine analisi, in Psicoanalisi senza dio, Poiesis Editrice, Bari 2021, p. 161. [⇡]
- POMMIER G., Quale avvenire per la psicoanalisi all’alba del declino del patriarcato?, in Psicoanalisi senza dio, Poiesis Editrice, Bari 2021, p. 150. [⇡]
- ZAFIROPOULOS M., La mia archeologia critica dell’opera di Lacan, in Psicoanalisi senza dio, Poiesis Editrice, Bari 2021, p. 43. [⇡]
- POMMIER G., Quale avvenire per la psicoanalisi all’alba del declino del patriarcato?, in Psicoanalisi senza dio, Poiesis Editrice, Bari 2021, p. 152. [⇡]