È appena stata pubblicata, per Orthotes Editrice, la prima traduzione italiana di Un Destin si funeste di François Roustang. Il libro uscì in Francia nel 1977; una traduzione inglese del libro fu pubblicata nel 1982 con un titolo di per sé esplicativo: Dire Mastery: Discipleship from Freud to Lacan (“Terribile padronanza: il discepolato da Freud a Lacan”). E’ sorprendente non solo che un libro così “vecchio” abbia attirato l’attenzione solo ora, ma anche che ci sia voluto così tanto tempo per presentarlo al lettore italiano. Gli psicoanalisti italiani possono dunque legittimamente chiedersi: qual è il significato di questo libro oggi? Come può il libro di Roustang essere utile alla psicoanalisi di oggi?
Il libro è essenzialmente una critica rivolta a Freud, specificamente al suo autoritarismo e al modo paternalistico con il quale concepì e gestì la società psicoanalitica. Ma non è solo Freud l’obiettivo della polemica, perché Roustang sembra parlare della psicoanalisi in generale, senza eccezioni, o meglio sul destino della psicoanalisi che è stata stabilito fin dalla sua fondazione.
Senza dubbio, Roustang trova continuità tra Freud e Lacan, e si può senz’altro affermare che sia quest’ultimo il vero bersaglio della critica. Nelle parole di Élisabeth Roudinesco, si trattava di «un libro iconoclasta che metteva in ridicolo gli effetti di idolatria propri del freudismo e del lacanismo», e «denunciava l’intero sistema di pensiero elaborato da Lacan come dottrina totalitaria, sorta di gulag dello spirito. E pretendeva altresì di rivalutare l’ideale di un umanesimo fondato sulla critica generalizzata della nozione di determinismo strutturale» (1995, p. 413). Molto probabilmente, Roustang non fu mosso tanto dall’intenzione di dimostrare una tesi quanto dalla volontà di denunciare ciò che stava accadendo nell’ambiente lacaniano. Tuttavia, nonostante la ragioni contingenti della sua scrittura e pubblicazione, Un destino sì funesto è un originale saggio sul transfert, riferito al caso particolare e unico delle relazioni insegnante-studente – cioè il rapporto maestro-discepolo –, e sull’effetto anti-umanistico delle teorie e delle pratiche psicoanalitiche.
Roustang muove una critica radicale al concetto di transfert, su cui getta nuova luce: il modo in cui è stato sviluppato dalla teoria freudiana sembra ignorare qualsiasi responsabilità da parte dell’analista (lacaniano), che non ammetterebbe mai di fare qualcosa per sedurre il paziente, per indurre l’amore e poi rifiutarne le conseguenze: «dobbiamo ammettere che con l’invenzione del transfert, Freud stava essenzialmente creando uno strumento per l’analista che potesse consentire di ottenere il massimo grado di oscuramento di sé al fine di evitare di sentirsi coinvolto o implicato con la propria sessualità e, in questo modo, consentire allo psicoanalista di essere un destinatario puro e insensibile, uno specchio puro e senza difetti» (Roustang, 1984a, pp. 95-96). Questo è un punto fermo nella critica di Roustang: gli analisti cercano sempre, in modo surrettizio, di dipingersi come anime immacolate – questo è il motivo per cui ritiene che gli analisti siano strutturalmente paranoici – e non riconoscono quanto siano loro stessi a manipolare l’amore di transfert che i pazienti “sentono”. Sulla scorta di questa necessaria premessa sulla realtà del transfert, l’interessante risultato dell’indagine di Roustang è la corrispondenza che egli trova tra la relazione maestro-discepolo e il significato di quella ostinata ricerca di un riconoscimento della psicoanalisi come teoria scientifica, una ricerca condotta da Freud e dai suoi allievi. L’osservazione della storia del movimento psicoanalitico freudiano rivela come gli individui siano stati umiliati e annientati in nome di teorie “assolute”, teorie dalla pretesa scientificità – tali erano le teorie strutturaliste. Ma la scienza, ci ricorda Roustang, è solo un requisito immaginario della psicoanalisi, perché, in realtà, l’intera teoria freudiana deve essere vista come un discorso transferale e come un mezzo attraverso il quale gli analisti e gli analizzanti possono essere condotti a una sorta di follia collettiva. Si tratta di una tesi molto dura che viene dimostrata attraverso un gran numero di fatti, lettere, discorsi e comportamenti di Freud e dei suoi allievi.
Cosa significasse essere un discepolo di Freud è illustrato attraverso i drammatici casi di Jung, Tausk e Groddeck, tutti casi che mostrano come Freud manipolasse il transfert al fine di mantenere i suoi colleghi nella condizione di semplici “discepoli”. Il noto caso di Jung, che ostinatamente rifiutò di sottomettersi all’autorità del maestro, è particolarmente illuminante; a coloro che, invece, desideravano essere discepoli, come è il caso di Groddeck, non fu concessa la pur minima libertà, e Freud certamente abusò della loro domanda di amore (del padre). Leggendo il materiale presentato da Roustang, diventa evidente come il motivo della difesa appassionata della teoria freudiana da parte dei discepoli fu sempre e solo la devozione al maestro, e, come è dimostrato nel caso di Abraham, fu solo il rapporto eroticizzato con Freud che spinse ogni discepolo a vedere tutti gli altri, non appena avessero provato a criticare la teoria psicoanalitica, come minacce fatali alla psicoanalisi nel suo complesso: di fatto, Jung, Rank e Bleuler erano per Abraham rivali in amore (transferale). Ciò che Roustang vuole dimostrare, però, è che, così facendo, Abraham rispondeva alla richiesta di lealtà e fedeltà da parte di Freud: fu Freud che per primo pretese di credere alla coincidenza tra la sua teoria e la sua persona, e, per raggiungere questo obiettivo, incoraggiò Abraham a supporre di essere il suo prediletto. Questa era la modalità di gestione del legame del padre della psicoanalisi.
Poiché Freud utilizzò le stesse strategie nella creazione e nella gestione dell’Associazione Internazionale di Psicoanalisi, Roustang mostra come Freud abbia sempre stabilito relazioni, sia con gli individui che con le istituzioni, che corrispondessero perfettamente ai meccanismi libidici descritti in Psicologia delle masse e analisi dell’io, precisamente quelli che riguardano folle altamente strutturate come la chiesa e l’esercito. La pungente conclusione di Roustang è che il desiderio di Freud di istituire un’associazione che potesse custodire e proteggere la dottrina psicoanalitica contenesse il desiderio – non così inconscio – di essere preservato nella posizione del maestro anche dopo la sua morte, come il padre morto dell’orda selvaggia: parlando di Jung, «Freud propose che (…) dopo la scomparsa del fondatore (der Führer), ne sarebbe divenuto il successore, il luogotenente (sein Ersatz), in possesso di ‘un’autorità disposta a istruire e vigilare’. (…) se Jung non si era rivelato la persona giusta, fu perché, ‘incapace di tollerare l’altrui autorità, era ancor meno incline a crearsene una propria e devolveva tutte le energie nel perseguire senza scrupoli i propri personali interessi’. Sono esattamente questi i luoghi comuni che si ascoltano nelle società religiose, nelle quali il diritto al comando è proporzionale alla perfezione dell’obbedienza» (Roustang, 2022, pp. 31).
Tutti gli eventi esaminati da Roustang hanno anche lo scopo di mostrare ciò che di fatto accade in ogni relazione analitica e che può essere descritto piuttosto chiaramente: ciò che si trova in un’analisi personale, ciò che si trova nell’inconscio dell’analizzante, è un mero delirio, a meno che non sia sostenuto da una teoria – nel cui contesto quel delirio può avere un senso – e da un maestro che garantisca per la teoria stessa.
In un’analisi, si va fino al «limite del delirio» (ivi, p. 57), ma anche quando l’analizzante inizia a “deparlare” (déparler), e perde qualsiasi riferimento alla realtà, c’è sempre l’analista che si suppone in grado di capire ciò che sta dicendo. Il principio è chiaro: finché c’è qualcuno che l’analizzante ritiene in grado di capire quel che lui dice in analisi, questi non è davvero delirante. Cosa accade, allora, quando un’analisi termina? Quando il transfert si dissolve? L’unico modo per sapere se si sta delirando o meno è trovare un sistema per mantenersi nella posizione dell’analizzante, o meglio, per trovare una posizione alternativa ma equivalente: quella del discepolo. Il maestro sa sempre se ciò che l’ex-analizzante dice o scrive ha un qualche valore ed è pure l’unico capace di esprimere un giudizio finale sulla validità e la sanità delle parole del discepolo. Vale a dire, il maestro può garantire che i suoi discepoli, che continuano a deparlare fuori dal setting analitico, non siano pazzi. Se ciò che viene scoperto come “inconscio” ha bisogno di una teoria e di un maestro – che non possono essere separati l’uno dall’altro – perché abbiano un senso e siano giustificati, allora l’analizzante deve essere un discepolo. Questo è, nella conclusione di Roustang, il paradosso stesso della psicoanalisi: il transfert sull’analista, alla fine di un’analisi, non è affatto dissolto, ma è, al contrario, rafforzato.
Tutte le questioni poste da Roustang sono ancora oggi, come sempre, “sottilmente” ignorate; nessun psicoanalista direbbe o ammetterebbe di non riflettere su argomenti fondamentali come la natura del transfert, la trasmissibilità della conoscenza psicoanalitica, lo status epistemologico di una teoria o su quei caratteri del rapporto con un maestro che vanno dalla dipendenza alla sottomissione, ma, di fatto, tutti i ragionamenti quasi sempre si indirizzano a dimostrare la validità della teoria cui l’analista crede, e, più significativamente, la legittimità ed il valore indiscutibili del proprio maestro. Tutto questo avviene per una ragione “strutturale”, sembra sostenere Roustang, perché ogni elemento del ragionamento è usato per fornire una base teorica alla relazione sado-masochistica tra maestri e discepoli, una relazione senza la quale tutti, analisti e analizzanti, impazzirebbero.
Seguendo le ipotesi di Roustang, è chiara la necessità di un capovolgimento: non dovremmo analizzare fantasie e desideri sulla base di una teoria, ma dovremmo chiederci quali fantasie e desideri hanno dato origine alla teoria! Dopo tutto, non dobbiamo dimenticare che l’inconscio non è altro che un’ipotesi, come afferma Freud già nel 1915, e che in una prospettiva epistemologica la psicoanalisi «ha più in comune con la scrittura di racconti fantascientifici che con la costituzione di un sapere» (Roustang, 1984b, p. 932). Di questo dovremmo sempre essere consapevoli e, a partire da questa consapevolezza, realizzare come non ci sia nulla di simile alla scienza nella psicoanalisi: i concetti psicoanalitici sono sempre contraddittori – ognuno significa qualcosa e il suo contrario – e possono essere definiti solo attraverso tautologie. Poiché non c’è modo di trasformare il suo status e renderla una scienza, se ci autorizzassimo a classificare qualsiasi testo teorico della psicoanalisi come mitologia (Roustang, 2000) arriveremmo a vedere la stessa teorizzazione psicoanalitica come un sintomo, e potremmo analizzarla proprio come si fa con un mito o un sogno, fino a rendersi conto che essere un discepolo, essere obbediente a una teoria e a un maestro, è l’opposto di quel che la fine di un’analisi dovrebbe implicare.
Di fatto, la principale conseguenza della relazione maestro-discepolo è che qualunque elaborazione il discepolo possa fare, essa deve seguire le indicazioni del maestro. Ma ciò è esattamente quel che la psicoanalisi dovrebbe evitare e che la rende incompatibile con il discepolato. Per molte ragioni che Roustang spiega.
In primo luogo, la teoria psicoanalitica è successiva a quel che si trova in ogni pratica psicoanalitica. La teoria psicoanalitica, dunque, non deve essere recepita come una dottrina alla quale sottomettersi anticipatamente, prima dell’esperienza analitica. La richiesta di sottomissione è l’opposto di ciò che la psicoanalisi dovrebbe essere, perché la teoria può esistere solo dopo, o, scrive Roustang, come effetto in après-coup (o, come viene tradotto in inglese, come azione differita): «Lo psicoanalista è un solitario che non può contare su nessun altro, nella pratica come nella teoria, poiché il transfert fa di lui, non il rappresentante di un valore – fosse pure della teoria analitica –, non il garante di una verità, ma l’ascoltatore dell’inudibile, colui che rischia il linguaggio stesso nella ‘deparola’ dell’analizzante. Che lo voglia o meno, l’analista è costretto ad ammettere che l’esercizio della psicoanalisi si pratica senza rete di protezione. È correndo questo rischio che qualcosa ha la chance di accadere» (2022, p. 103).
La seconda ragione dell’incompatibilità tra la psicoanalisi e il discepolato è che se il maestro è l’unico che può teorizzare, allora nessuno è autorizzato a pensare per se stesso, a meno che la teorizzazione non sia una pura ripetizione di ciò che dice il maestro. Le implicazioni psicoanalitiche di questa seconda ragione sono particolarmente importanti perché la credenza in una sola teoria, annunciata dal maestro, e la conseguente implicita proibizione di pensare e sviluppare una teoria basata sulla propria pratica, impongono uno stato di transfert permanente e senza fine. Ovviamente, questa condizione è opposta a ciò cui mira l’analisi, vale a dire la liquidazione del transfert. Ogni singola analisi deve essere un’invenzione soggettiva e particolare che dipende dalla propria esperienza – dalle fantasie, desideri, ecc. – e non può consistere nella sottomissione volontaria e anticipata a una teoria o dottrina precostituita.
Non c’è dubbio che l’inizio di un’analisi esiga che gli analizzanti credano che l’altro, l’analista, abbia conoscenza e potere, ma con il progresso dell’analisi questa credenza deve essere dissolta in modo che gli analizzanti si autorizzino a fantasticare, a desiderare e a parlare solo secondo se stessi (almeno il più possibile), e non per assecondare l’analista e la sua teoria. Roustang spiega, in un brillante commento, che nella maggior parte dei casi – seguendo il suo ragionamento, probabilmente dovremmo dire “sempre” – la situazione del transfert permanente è «giustificata: si sostiene, per esempio, che l’accettazione della teoria lacaniana, la sottomissione ad essa, equivalga a una castrazione simbolica. Non ci si accorge che questo significa confondere infantilismo e castrazione» (2022, p. 104). Uno dei significati della castrazione simbolica, quello che può meglio adattarsi al contesto della discussione di Roustang, è l’accettazione della solitudine e la rinuncia a vivere nel dilemma tra scegliere di uccidere il padre e domandare la sua protezione, o, in altre parole, tra aggressività e sottomissione. La castrazione, potremmo dire, ha l’effetto di “ridimensionare” l’Altro, che cessa di esistere e di incombere sull’esistenza del soggetto, ed è convocato solo in quanto il soggetto ne ha bisogno per sostenere le sue fantasie. Se questo Altro, invece, è visto in carne e ossa nella persona del maestro, è chiaro che si è ancora coinvolti in una situazione transferale, che il transfert non è stato analizzato e dissolto.
Terza ragione dell’incompatibilità della psicoanalisi e del discepolato: il discepolato richiede che il transfert sul maestro non sia analizzato. Il caso di Lacan è illuminante: Lacan-il-maestro è la conoscenza assoluta, è colui che sa tutto, e non c’è alcun bisogno di mettere in discussione il transfert verso di lui. Lacan stesso, nota Roustang, nei suoi scritti, nei suoi interventi e nel suo Seminario «ha fatto tutto il possibile per evitare di lasciare traccia della sua soggettività» (1986, p. 14). Che il transfert sul maestro non debba essere analizzato è perfettamente chiaro quando si consideri come una citazione da Lacan metta fine a qualsiasi discussione tra analisti, e, naturalmente, a nessuno è consentito dubitare o sottoporre a verifica ciò che Lacan afferma. Se non ci si accontenta di ciò che dice Lacan e si esprime il proprio personale punto di vista, allora, questa è l’accusa, non si è veramente lacaniani. Questo può anche esser vero, poiché se ci si discosta troppo da una teoria è chiaro che non la si ritiene più capace di guidare la propria pratica, ma l’effetto ultimo della relazione maestro-discepolo è la riduzione del discepolo-ex analizzante al silenzio: l’analisi, che si suppone liberi la parola, condanna tutti coloro che appartengono alla stessa comunità psicoanalitica al mutismo. È interessante come Roustang riporti un discorso di J. A. Miller, tenuto a Roma nel novembre 1974: Miller «inizia la sua relazione con un elogio di Lacan. Padrone, isterico, educatore, analista: sarebbero questi i suoi titoli di gloria; nella sua persona convergerebbe, cioè, la totalità dei quattro discorsi oggi possibili. Questo elogio di Lacan ha per contrappunto la critica degli analisti della Scuola: al padrone essi rispondono con l’abiezione, all’isterico con il sembiante di pensare e il sembiante di sapere, all’educatore con l’impostura, all’analista con il fatalismo che non vuole mai mettersi alla prova. Non è da mettere in dubbio la validità delle dichiarazioni di Miller, poiché sono state accolte dal congresso senza colpo ferire e in seguito sono state pubblicate. Tutto ciò che Miller ha raccontato al congresso è esatto. Gli si può solo far notare di non aver sottolineato la coerenza del proprio discorso, e cioè che l’elogio va di pari passo col pamphlet, che Lacan è indispensabile agli analisti della Scuola e viceversa. La padronanza non va senza l’abiezione e, se Lacan può esser tutto, è a condizione che gli analisti della Scuola non siano nulla» (2022, pp. 49).
Quando un discepolo propone una qualsiasi innovazione, egli rischia di incorrere in un rimprovero che va ben oltre la semplice critica. E troppo spesso, dovremmo aggiungere per quel che riguarda la pratica clinica, l’unico modo per valutare un trattamento è quello di giudicare quanto la direzione della cura sia fedele all’idea di cura di Lacan, o, in altre parole, quanto una cura psicoanalitica sia fedele al testo del maestro (si tratta di una sovrapposizione interessante se si considera l’effettiva esistenza dell’articolo di Lacan La direzione della cura e i principi del suo potere), o alla principale e più influente interpretazione del testo del maestro proposta dalla comunità dei profeti del maestro, solitamente dominata da un unico successore. La raccomandazione di Roustang è di continuare a trarre piacere dalla lettura e dall’ascolto dei maestri, ma di non farsi ingannare dai loro artifici perché «non sono utili alla nostra pratica, sterilizzano il pensiero se li accettiamo come rivelazioni, fanno degli psicoanalisti i fedeli seguaci di una setta il cui oscurantismo non è superato né da quello delle religioni né da quello delle ideologie politiche. Dobbiamo mantenere un atteggiamento estremamente critico verso questi testi, dobbiamo smantellarli come faremmo con un mito o con la mitologia individuale di un nevrotico» (Roustang, 1984b, p. 937).
Bibliografia:
Roudinesco, E. (1995). Jacques Lacan. Profilo di una vita, storia di un sistema di pensiero. Raffaello Cortina Editore.
Roustang, F. (1984a). Uncertainty. October, 28, 91-103.
Roustang, F. (1984b). On the Epistemology of Psychoanalysis. MLN, 99(4), 928-940.
Roustang, F. (1986). Lacan, de l’équivoque à l’impasse. Les editions de minuit.
Roustang, F. (2000). How do You Make a Paranoiac Laugh: Or, What is Psychoanalysis. University of Pennsylvania Press.
Roustang, F. (2022). Un destino sì funesto, Orthotes Editrice.
Leggi l’articolo originale sul sito European Journal of Psychoanalysis