Presentiamo un contributo di Mimmo Pesare e Chiara Agagiù già pubblicato sulla rivista MeTis:
ringraziamo gli autori e l’editore per la gentile concessione.
Da Sofocle a Hegel, passando per le rielaborazioni del Post-strutturalismo, i codici della parentela hanno tracciato la fondatività del discorso sociale e dell’ordine simbolico, con tutte le contraddizioni e le aporie che tale (pretesa) fondatività si è portata dietro i suoi modelli a-priori.
Nel corso del Seminario VII (1960), Jacques Lacan tratta la figura sofoclea di Antigone come emblema del rapporto dialettico tra il soggetto e il codice sociale e come archetipo del conflitto tra queste due sfere all’interno dei percorsi di soggettivazione.
È proprio all’interno della questione psicopedagogica della parentela – che per Lévi-Strauss è alla base della produzione di civiltà in senso universale – che Judith Butler rilegge l’Antigone lacaniano come nuovo paradigma di famiglia. Può esserci famiglia senza l’appoggio e la mediazione dello Stato? E può esserci lo Stato senza la famiglia che funga da sostegno e mediazione? Nel presente contributo indagheremo questa domanda per rispondere ai nuovi quesiti che riguardano le sfide della formazione del soggetto contemporaneo.
Noi non facciamo parte di quelli che si affliggono per un presunto allentamento del legame familiare.
J. Lacan, I complessi familiari nella formazione dell’individuo (1938)
- Per una filologia della famiglia: dispositivi nell’Umbildung-roman
Il fatto che, ancora oggi, l’istituzione familiare continui a interrogarci sull’attualità del suo statuto antropologico rappresenta probabilmente la misura stessa della sua atemporalità: il concetto stesso di famiglia, come pochissimi altri, si sottrae al già-dato delle Grundfragen che hanno scritto la storia dell’umanità in senso definitivo e il suo perimetro invoca l’esigenza di un continuo lavorio di risemantizzazione.
Tale lavorio, a nostro giudizio, deve la sua necessità non semplicemente al fisiologico grado di obsolescenza che pesa sulle grandi questioni umane e che impone alle progressioni generazionali di accordarne il senso originario con l’attualità; in altre parole non si tratta esclusivamente di un ammodernamento storico, giacché l’istituzione della famiglia possiede un gradiente di complessità che si rende paradossale nel rapporto – tanto per rispolverare una celebre equazione freudiana ripresa da Haeckel – tra filogenesi e ontogenesi. È paradossale in quanto essa rappresenta ciò che Derrida definiva una metafora attiva, ossia un concetto operativo che condiziona non solo comportamenti, etiche pubbliche e modi di stare al mondo all’interno dell’evoluzione umana (filogenesi), ma soprattutto il riverbero che, da queste, la vita del singolo individuo ripercorre come processo emotivo (ontogenesi).
Ecco, la famiglia potrebbe essere, in questo senso, considerata una Grundfrage cortocircuito del rapporto tra la temporalità della filogenesi e l’immanenza dell’ontogenesi: il suo statuto antropologico, etico, giuridico, pedagogico, curotrofico, non deve solo fare i conti con il susseguirsi di codici sociali, ma tener conto del rapporto problematico tra questi e le invarianze di schemi mentali che il suo concetto si porta dietro.
Per questo sembra ragionevole, oltre che pertinente, l’affermazione tranchant «la famiglia non esiste» che è possibile leggere nel monumentale Cosmo, corpo, cultura (2002), del pedagogista tedesco Christoph Wulf: la famiglia in quanto “situazione concreta” (per esprimerci come Max Weber) deve fare i conti con il conflitto profondo tra l’ordine socio-culturale di un tempo e gli invarianti che ogni società gli scaglia addosso nel nome delle vestigia filogenetiche sempre presenti nella storia emotiva dell’individuo.
La “famiglia”, nelle forme in cui si esplica quotidianamente, è sempre condizionata culturalmente dalle specifiche forme di vita dell’ambiente culturale e sociale, e non appare solo rilevante nel cambio delle generazioni per la perpetuazione di questo ambiente, ma viene intesa considerando le particolari tradizioni culturali all’interno di questo ambiente.
“La” famiglia non è mai esistita e non esiste […] le analisi e le descrizioni storiche e di culture comparate propongono un’abbondanza di forme sociali che vengono definite come “famiglia”: e il modo attuale di considerarla mostra la famiglia in specifiche connessioni sociali, economiche, culturali, affettive, che riguardano la sua costituzione, le sue condizioni e il suo significato. Pertanto anche sotto il profilo antropologico “il” significato di “famiglia” non può esistere. (Wulf 2002, 307)
In questo conflitto sta il paradosso teoretico della famiglia, che però dalla teoresi passa ai dilemmi del quotidiano e alle sue aporie storiche; tale paradosso merita di essere analizzato alla luce di un punto di vista per noi illuminante: quello filologico, genealogico e psicodinamico di Jacques Lacan che, come sempre più spesso, recentemente, capita di scoprire, offre una chiave di lettura di ordine eminentemente pedagogico, sebbene non provenga da una letteratura scientifica esplicitamente pedagogica (cfr. Pesare 2015, 2017; Agagiù 2020).
In particolare intendiamo procedere attraverso alcuni passi del Seminario VII (L’etica della psicoanalisi) di Lacan e della sua rilettura post-strutturalista di qualche decennio successiva: quelli in cui lo psicoanalista e filosofo francese (e i suoi commentatori) prendono a prestito da Sofocle la figura di Antigone, presentata come archetipo, per sottolinearne i dilemmi etici alla base di quel paradosso di cui si parlava e che delinea un modo inedito di pensare le trasformazioni sociali della famiglia, delle sue potenziali crisi, delle sue potenziali morti e delle sue potenziali rinascite, al netto dell’incedere del tempo.
L’approccio psicopedagogico di orientamento lacaniano vede il suo nucleo teoretico nel processo di soggettivazione, che risiede nel complicato rapporto di elaborazione individuale tra il codice sociale (la struttura nella quale siamo immersi prima ancora di nascere) e le inclinazioni e i desideri soggettivi. Antigone è, per Lacan, la figura tragica eletta a emblema dello scontro dialettico proprio tra il soggetto e il codice sociale, culturale e di linguaggio che in termini lacaniani definiamo come Grande Altro, ovvero la struttura culturale, la produzione di convenzioni, di miti, di riti, di visioni del mondo che fa accedere il soggetto al sistema del linguaggio e lo iscrive nella legge del legame sociale, immettendo la sua vita in un ordine di senso.
Ma il processo di soggettivazione dato da questo cortocircuito tra l’individuale e il trans-individuale del mondo culturale in cui siamo immersi (il Grande Altro lacaniano) può essere pensato come una pedagogia dell’incontro: ogni incontro che facciamo nel corso della vita ci trasforma e definisce un pezzo in più della nostra soggettivazione («Siamo il prodotto delle parole che l’altro ci ha indirizzato», ripete come un mantra Lacan).
Ebbene, la famiglia è il primo luogo di incontro con la parola dell’altro, cellula costitutiva di ogni romanzo di formazione (Sola 2003); e lo è nella misura in cui il soggetto forma la sua identità attraverso il “ritorno” delle parole che lo descrivono, che lo definiscono e lo denotano, in primis, all’interno del suo nucleo familiare (il cosiddetto “stadio dello specchio” lacaniano [1]).
Ora, il saggio illuminante in cui Lacan tratta esplicitamente del tema della famiglia – non esclusivamente dal punto di vista clinico – è I complessi familiari (Lacan 2001), in cui afferma che il dato biologico non è sufficiente per l’analisi di un gruppo di individui (sia anche, quest’ultimo, solo il gruppo-famiglia), giacché «le istanze culturali dominano le istanze naturali» (Lacan 2001, p. 23). Nel 1938 Lacan non aveva ancora elaborato la sua nozione di Simbolico[2] che riguarda il rapporto del soggetto con la cultura – o meglio, ciò che garantisce intelligibilità culturale al soggetto. Più avanti, nell’analisi di Butler, si vedrà che i concetti di “simbolico” e di “cultura” non siano però totalmente sovrapponibili, ma in questa sede basterà sapere che ne I complessi familiari Lacan utilizza il termine di “cultura” in sostituzione a quello di “simbolico”, poiché quest’ultimo sarà elaborato negli anni a seguire.
Sin dagli esordi di questo saggio, come sottolineato, Lacan tende a precisare che le istanze culturali dominino quelle biologiche, e in una misura tale «da non poter ritenere paradossali i casi in cui, come nell’adozione, si sostituiscono a esse» (ivi, p. 23). Come dire, è l’analisi psicologica che deve riconoscere alla famiglia lo statuto di un’istituzione; ogni attribuzione di famiglia non potrebbe, pertanto, poter prescindere dai dati provenienti da «etnografia, storia, diritto e statistica sociale, coordinati dal metodo sociologico» (ivi, p. 24) (facendo particolare riferimento all’opera di Emile Durkheim).
Sin dalle prime pagine, lo psicoanalista francese sembra precorrere il concetto di “catena dei significanti”[3] a livello intergenerazionale, per cui si garantirebbe una certa continuità psichica tra le generazioni, dando alla causalità psichica[4] un certo carattere ereditario, sebbene «il padre, la madre e il bambino sono gli stessi della famiglia biologica. Tale identità non è altro che un’uguaglianza numerica, e tuttavia la mente è tentata di riconoscervi un’unità di struttura» (ivi, p. 25).
A fronte di una forma contratta di famiglia che lo studioso ravvisa nello statuto antropologico delle istituzioni (Stato, partito, scuola, ecc.), egli esorta alla considerazione dei rischi di una struttura che rimarrebbe rigida «rispetto alle variazioni della situazione vitale» del soggetto. E, già nel 1938, Lacan si rivolge ai seguaci del suo insegnamento affermando perentoriamente che «noi non facciamo parte di quelli che si affliggono per un presunto allentamento del legame familiare» o «deldeclino sociale dell’imago paterna» (ivi, p. 60). Tema che anticipa la trattazione sistematica del Seminario IV riguardante le relazioni d’oggetto (1956-57) e per cui la funzione paterna e quella materna prescinderebbero dal mero genere del genitore.
A questo punto si rintraccia nello scritto lacaniano, oltre che la necessità di revisione dell’Edipo, un netto monito agli educatori coevi che vale la pena riportare, tanto per sua la valenza psicopedagogica, quanto per la considerazione del periodo storico entro cui il saggio è redatto, alle soglie del secondo conflitto mondiale. Nella struttura familiare Lacan riconosce «una potenza che oltrepassa la razionalizzazione educativa» e «questo dato merita di essere proposto ai teorici di un’educazione sociale con pretese totalitarie – qualunque sia la corrente cui appartengono – affinché ciascuno ne tragga le deduzioni che preferisce» (ibidem).
A fronte, dunque, della “grande nevrosi contemporanea” e delle forme di trasformazione dell’istituzione familiare ravvisate dall’analista, egli afferma che una revisione dell’Edipo sia necessaria perché
offrendo una grandissima differenziazione alla personalità […] il complesso apporta ai confronti sociali di questo periodo la massima efficacia per la formazione razionale dell’individuo. Si può in effetti ritenere che in questa fase l’azione educativa riproduca, in una realtà più articolata e sotto le sublimazioni superiori della logica e della giustizia, il gioco delle equivalenze narcisistiche da cui è sorto il mondo degli oggetti. Quanto più diverse e ricche saranno le realtà inconsciamente integrate nell’esperienza familiare, tanto più formativo sarà per la ragione il lavoro della loro riduzione. (ibidem)
Ed è proprio la questione della revisione dell’Edipo che ci traghetta verso il Seminario VII e, dunque, verso Antigone. Il conflitto funzionale dell’Edipo reintegra nel progresso psicologico e nella formazione dell’individuo proiettato nella cultura «la stessa dialettica sociale prodotta dal conflitto edipico» (cit., p.57) sancendo un imprescindibile scontro e legame tra singolare e plurale che, ne I complessi familiari, consegna un’affinità elettiva tra il lavoro psicologico/educativo e quello sociologico.
- Dalla dialettica io/altro nella Soggettivazione all’Ate familiare di Antigone.
Come abbiamo anticipato, il processo di soggettivazione implica necessariamente la considerazione di una polarità io/altro.
Il modello euristico del Grafo del desiderio, che per ragioni di spazio in questa sede non è possibile affrontare, restituisce bene la dialettica singolare/plurale nella soggettivazione (cfr. Pesare 2020, pp. 169-184) e offre, tramite un modello topologico sintetico e intuitivo, la cifra di una dialettica che fonda le basi della Soggettivazione, dando un’importanza pregnante al discorso sociale e pedagogico che si inscrive nel soggetto. Per quanto il lemma “soggettivazione” appartenga ad una tradizione filosofica e psicoanalitica, esso è mutuato da più ambienti disciplinari (cfr. Deleuze, 2020); qui si utilizza per definire un campo epistemico psicopedagogico che non può prescindere dall’implicazione del discorso sociale sulla soggettività e, dunque, dalla serie di incontri e relazioni che strutturano l’esistenza umana, definendo il perimetro della formazione dell’uomo. Si fa qui riferimento agli studi della “Clinica della formazione” avviati da Riccardo Massa e proseguiti dall’omonimo gruppo di ricerca (cfr. Massa 1992, Riva 2000). [5]
Se la soggettività è dunque una istituzione dialettica, la relazione con l’alterità è qualcosa di cui il soggetto è letteralmente “fabbricato”:
la Soggettivazione sarebbe, pertanto, un dispositivo che catalizza il discorso sociale (il Grande Altro lacaniano, la struttura foucaultiana) nell’assunzione di una storia formativa dell’individuo (…) attraverso una serie di tecnologie del sé che iscrivono la sua formazione in un ordine di senso. (…) Per Foucault, infatti, il fine ultimo di tutte le scienze sociali dovrebbe essere quello di dimostrare come il soggetto della conoscenza si costituisca attraverso una struttura sociale all’interno della quale è assoggettato, cioè immerso già da prima della sua venuta al mondo, non potendone prescindere (Pesare 2020, p. 176).
Da questa premessa metodologica (con la quale la teoria del soggetto di Lacan ci suggerisce come prima di analizzare ogni forma di legame sociale, istituzionale, educativo, sia fondamentale tenere conto della dialettica Self/Net) alle considerazioni circa l’archetipo paradossale di Antigone, il passo è veramente breve.
«Chi non sarebbe capace, in qualsiasi conflitto ci laceri nel nostro rapporto con una legge che, in nome di una comunità, si presenta come una legge giusta, di evocare Antigone?» (Lacan 2008, p. 285). È questa la domanda che Lacan pone nel capitolo dedicato alla figura tragica di Antigone nel Seminario VII dedicato all’Etica della psicoanalisi, conferendole quella centralità emblematica per la cultura occidentale e, precisamente, nell’ambito dello scontro dialettico tra soggetto e discorso sociale.
La dimensione perturbante di Antigone – già a partire dalla suggestione etimologica della preposizione greca insita nel prefisso del suo nome (Anti-) – ci fornisce parecchi ragguagli in merito al problema del soggetto in formazione. E ciò al di là della dicotomia tra Νόμος e Δίκη, ovvero al di là dello iato prodotto dall’opposizione tra la legge degli uomini e la giustizia degli dèi (o tra parentela e diritto positivo): prima di ogni cosa, lo scontro dialettico riguarda la lotta di un soggetto con la sua alterità, alla costante ricerca di un’autenticità sempre da conquistare.
Si forniscono sintetiche coordinate di riferimento nella lettura del mito: Antigone è la protagonista dell’omonima tragedia messa in scena per la prima volta da Sofocle nel 442 a.C., e precede l’Edipo Re (420-430 a.C.). Ambientata a Tebe, la vicenda ruota intorno al divieto di sepoltura emanato da Creonte nei confronti del caduto Polinice, fratello di Antigone, il quale, dopo aver duellato a morte con il fratello Eteocle, diventa il perno della disputa tra Antigone e il tiranno della polis Creonte, fratello del defunto Edipo. Antigone, contro ogni tentativo della sorella Ismene di dissuaderla a “compiere l’atto”, tenta di rendere degna sepoltura al fratello, sottraendolo allo sciacallaggio degli animali selvatici. La sepoltura è proibita da Creonte in quanto Polinice si era precedentemente fatto capo di una rivolta contro la polis. Scoperta, Antigone non nega quanto commesso, ed è condannata a morte da Creonte, affermando di aver obbedito alle leggi degli déi e, quindi, affermando di sottrarsi a un presunto diritto positivo personificato da Creonte. Sulla questione tentenna il Coro; il compagno di Antigone, Emone, si schiera apertamente contro il padre; Tiresia preannuncia a Creonte di ritirare la sua sentenza di morte, dal momento che genererebbe ulteriori sciagure. Ma è troppo tardi: Antigone è già murata viva, e nella sua stessa tomba consumerà il suicidio.
Con buona pace dell’ortodossia esegetica invocata dai filologi, il dramma di Antigone ha prodotto una quantità considerevole di interpretazioni e continua, ancora oggi, a essere un testo da interrogare da più discipline, soprattutto in merito alla struttura antropologica della parentela.
A Hegel Lacan rimprovera, ma ciò era avvenuto anche da suoi eminenti predecessori (tra cui lo stesso Goethe), la riduzione del conflitto Antigone-Creonte a due principi opposti di legge: ciò è smentito dalla palese fuoriuscita di Creonte dal suo ruolo di esecutore della legge, tentando di infliggere a Polinice una “seconda morte” che non gli compete. È davvero per il fratello, per sottrarlo da una “seconda morte”, che Antigone si fa portatrice dello scontro tra diritto positivo e legge degli dèi?
In poche parole, Lacan ammonisce sull’errore di Creonte, ovvero sulla sua pretesa di definire in maniera fondativa il “bene universale”, ossia una legge oggettivamente giusta per tutti. È qui che risiede l’annosa palinodia (da Platone a Kant) sul rapporto tra deontologia e teleologia: l’etica pubblica deve salvare la norma o garantire la felicità? Antigone è la figura della soglia, tanto che viene definita ‘inflessibile’, ‘inumana’: il suo desiderio mira al di là dell’Ate (sventura, rovina) e punta dritto al desiderio di morte [6]. L’Ate è dunque, per sua natura, ineluttabile e irredimibile, come ci sembra di capire dalla tragedia? La risposta suonerebbe affermativa, visto il lamento di Antigone una volta ‘murata viva’ nella tomba in cui si impiccherà. Questa azione è infatti necessaria affinché il gesto tragico di Antigone sia reso immortale, il sacrificio impresso da un’Ate familiare già inscritta nel suo destino; dall’altra parte, una comunità complice dell’errore di Creonte assiste alle brutali conseguenze di una ἁμαρτία (errore) anch’essa necessaria allo svolgimento e allo scopo catartico della tragedia. Non si tratta, quindi, di una ‘semplice’ trattazione che riguarda lo scontro tra diritto naturale e diritto divino, perché essa ha a che fare con lo scabroso desiderio: e il desiderio è quello di Creonte di infliggere una seconda morte a Polinice (sbagliando), e quello di Antigone di procedere, ‘fredda’, verso la morte.
A nostro giudizio non si tratta di farsi ammaliare dalle fosche tinte della tragedia, né tantomeno dal farsi tentare dalla considerazione secondo la quale ogni soggetto sia destinato a un finale tragico; l’esempio di Antigone è portato da Lacan per ravvisare che «retrospettivamente (…) anche se non lo sospettavate, questa immagine di Antigone, latente, fondamentale, fa parte della vostra morale, che lo vogliate o meno» (Lacan 2008, p. 331). Si tratta di interrogarne ancora e ancora il senso, al di fuori delle interpretazioni edulcorate che vedono nel gesto eroico di Antigone una radicale resistenza verso il tiranno, o il dissenso femminista, lettura criticata dalla stessa Judith Butler (cfr. par. 3). Il dissenso di Antigone è sintomo del suo stesso desiderio, e il desiderio è elemento disvelatore del processo di soggettivazione, in quanto conduce alla verità (Eigentlichkeit) dell’individuo.
Se Lacan utilizza un termine forte come quello di Ate, però, non è per inchiodare definitivamente ognuno alla propria storia, come un destino inscritto che debba svolgersi necessariamente in un determinato modo. A ciascuno il proprio sintomo, e il proprio desiderio, pare suggerire: la rettificazione soggettiva è l’atteggiamento di assunzione e la presa in carico, da parte del soggetto, della propria verità; l’equipaggiamento (παρασκευὴ) foulcaultiano, è quel dispositivo (cfr. Foucault 1988, 2001) di cui un soggetto si fornisce per far fronte al suo percorso di autenticità. Ma il desiderio è forse invivibile al di fuori della sua intelligibilità culturale?
- La lettura di Butler per una riconsiderazione della parentela. Strutture forti o deboli?
Uno dei lavori che tenta una raccolta scelta delle interpretazioni del mito è rappresentato da Le Antigoni di Georges Steiner (1984): la grandezza filologica del lavoro risiede proprio nell’individuazione del limite posto anche al filologo più intransigente. Steiner afferma che, probabilmente, più che l’Antigone “in sé” (se ne esiste una soltanto) è la somma delle interpretazioni accumulate dalla nostra cultura a produrne un senso complessivo, e lo studioso ravvisa l’impossibilità di un lavoro che sia in grado di tracciarne tutte le interpretazioni possibili, dal campo letterario a quello filosofico. L’autore concentra la sua attenzione soprattutto sulla produzione romantica, sul rinnovato e germinativo interesse nei riguardi della tragedia che si riscontra tra fine Settecento e metà Ottocento, senza tralasciare l’accenno ad alcune produzioni del Novecento. Steiner però interroga soprattutto la Mitologica di Lévi-Strauss per verificare come Antigone sia alla base di tutta la nostra cultura. Il rapporto tra Lévi-Strauss e Lacan parte da lontano, come ricorda la stessa Butler nel suo Antigone’s Claim: l’antropologo francese pubblicava Le strutture elementari della parentela nel 1947, e sei anni dopo Lacan tracciava la sua nozione di Simbolico. Già nel secondo Seminario (Lacan 1978), Lacan riconosceva il suo debito nei confronti dell’antropologo, ponendo l’accento sulla mancanza di causalità naturale di parentela e famiglia, così come il tabù dell’incesto non avrebbe matrice biologica. Sono anni in cui la linguistica strutturalista incide fortemente sulle scienze sociali, come testimoniato dai riferimenti qui introdotti; una delle nozioni maggiormente porose per l’interdisciplinarità è proprio quella di “struttura”, individuale e sociale. Il Simbolico, per Lacan, non coincide con la legge sociale; si tratta, piuttosto, di un insieme di regole (e posizioni linguistiche) che rendono intelligibile la cultura:
C’è un circuito simbolico, esterno al soggetto e legato a un certo gruppo di supporti, di agenti umani, in cui il soggetto, il piccolo cerchio che si chiama il suo destino, è indefinitamente incluso (Lacan 2006, p. 128)
«Il discorso dell’altro è il discorso del circuito nel quale sono integrato», per cui l’io è sempre altro, essendo il Simbolico al tempo stesso universale e contingente. È proprio in questo senso che si vede attuarsi la dialettica singolare/plurale insita nella Soggettivazione, come precedentemente chiarito.
La questione, interpellando la matrice mitica, sarebbe questa: il simbolico e la legge sociale sono concetti sovrapponibili? Sono proprio la questione della parentela e la proibizione dell’incesto, che per Lévi-Strauss giacciono alla base della produzione di civiltà in senso universale, le questioni dalle quali Butler muove i suoi passi per tentare una nuova lettura di Antigone, funzionale a un nuovo paradigma di famiglia che differisca dai connotati biologica sin dalla propria universale struttura. In questo senso è proprio il tabù dell’incesto, per Butler, a confermarsi come l’eccezione che garantisce l’ordine della struttura, e ciò nella misura in cui il tabù contenga in sé la propria infrazione, “coltivandolo come uno spettro necessario”:
Può esserci famiglia senza l’appoggio e la mediazione dello Stato, e può esserci lo Stato senza la famiglia che funga da sostegno e mediazione? E ancora, quando la famiglia giunge a rappresentare una minaccia per l’autorità dello Stato e quest’ultimo ingaggia una lotta violenta con la parentela questi stessi termini possono sostenere la loro reciproca indipendenza? (Butler 2020, p.17)
È in questa accezione che Butler definisce la “trappola strutturalista”, richiamando quei vincoli del simbolico entro i quali si garantisca la vivibilità del soggetto ma che, al tempo stesso, garantiscono la sopravvivenza dell’ortodossia di una struttura ancora tutta da interrogare. La figura di Antigone, per Butler, potrebbe essere letta non tanto sulla scia delle istanze femministe (p.es. Irigaray) che vedono nel suo dissenso l’anti-madre, l’anti-legge, quanto piuttosto come una sfida alla struttura simbolica della parentela, senza alcun risarcimento finale della legge; per Butler lo scontro tra Antigone e Creonte rimane statico, in quanto non produce nulla di nuovo: la figura femminile assume gli imperativi maschili per affermare la propria volontà, adeguandosi a essi; la novità, per la studiosa, potrebbe essere al massimo il rifiuto del fondamento biologico della parentela: rifiutando di essere madre e moglie, dissentendo tramite il suo genere oscillante (si ricordi che nella tragedia assume il linguaggio maschile, ed è lo scontro maschile-femminile ad aver generato le letture femministe del secolo scorso) e abbracciando, infine, la propria morte come un’autentica “casa”, per Butler Antigone sarebbe il punto dal quale partire per la riconsiderazione della famiglia:
Non soltanto il simbolico di per sé è la sedimentazione delle pratiche sociali, ma le alterazioni radicali della parentela impongono una ri-articolazione dei presupposti strutturalisti della psicoanalisi e, di conseguenza, della teoria contemporanea del genere e della sessualità. (ivi, p. 35)
Con Antigone sopravvive, anzi si moltiplica, una serie di interrogativi che riguarda da vicino la strutturale polarità io/altro che costituisce l’essere umano; nella Soggettivazione, come si è visto, tale dialettica riguarda tanto l’ambito simbolico (e dunque sociale), quanto tutto ciò che coinvolge le dimensioni pre-politiche dell’individuo, a livello di Immaginario (le identificazioni sociali) e del Reale (il corpo nella sua nuda immediatezza). Come ricordato, la sfera simbolica non è separabile dalle istanze prelinguistiche, inconsce, che permeano la soggettività in ogni momento della sua esistenza.
Antigone è uno di quei miti utilizzato a più riprese anche da Slavoj Žižek (da The Sublime Object of Ideology del 1989 a Enjoy your Symptom del 1992), per culminare con una riscrittura del mito fortemente critica nei confronti di un’immagine che la vede paladina del femminismo: per il filosofo sloveno l’atto di Antigone non produrrebbe giovamento nei termini dell’evoluzione democratica della polis (Žižek 2016).
Questo scontro dialettico forse opera ai fini del mantenimento della legge e del tabù, in quanto la maledizione è già proferita, come vorrebbe Butler? E, anche qui, la lettura è tutta a posteriori, per après-coup, in quanto l’Edipo funge da prequel di Antigone, e viene messo in scena da Sofocle soltanto successivamente.
Proprio da questi interrogativi che nasce la necessità di guardare alle strutture della parentela seguendo un percorso che, dal terreno del simbolico, inevitabilmente conduce a piani “emozionali”, composti di istanze pre-simboliche e pre-politiche, dunque riguardanti il ‘corpo godente’ del soggetto e/o le sue proiezioni immaginarie, assumendo dunque che il discorso sociale non sia dominato esclusivamente da istanze simboliche (quindi anche educative) ma, anche, da pulsioni attinenti alla sfera più prettamente inconscia del soggetto.
Per chi scrive, quindi, la tragedia e le interpretazioni sedimentate nel corso dei secoli obbligano a muovere in una direzione interrogativa, senza mai cedere a una rapida risoluzione esegetica, giacché gli ambiti pre-politici e simbolici convivono in un nodo inestricabile e complesso. Se Butler afferma, da un lato, che le strutture simboliche siano “troppo strette” per i potenziali sviluppi della società contemporanea, d’altro canto bisogna fare i conti con l’interpretazione che sia proprio l’indebolimento delle strutture simboliche a generare nuove forme di dissenso rispetto alle strutture tradizionali: è il caso delle interpretazioni, tra le altre, di Melman o Bollas (2018) che leggono nelle manifestazioni del soggetto contemporaneo il prevalere di istanze pulsionali. Che sia in un senso o nell’altro, o in entrambe le linee d’indagine, le manifestazioni delle soggettività contemporanea obbligano a un ripensamento critico delle strutture simboliche entro cui il soggetto è inevitabilmente immerso, e alle quali reagisce, nella infaticabile composizione del proprio romanzo di formazione.
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Wulf C., (2002). Cosmo, corpo, cultura, Milano: Bruno Mondadori.
Note
- Ne Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io (composto nel 1936 e riscritto nel 1949), si accosta la riflessione fenomenologica agli studi etologici nell’ambito del meccanismo di identificazione del sé nel primo incontro autoscopico. Lo stage du miroir rappresenta, quindi, la prima identificazione del sé attraverso un’alterità e, secondo la trattazione lacaniana, avviene tra i 6 e i 18 mesi di vita del bambino, precisamente nell’incontro giubilatorio del soggetto con la propria immagine speculare; allo stesso tempo, si fa ceppo di tutte le identificazioni tra il sé e l’altro che verranno. [⇡]
- I tre Registri, ossia le tre categorie psichiche che strutturano il soggetto, secondo la psicoanalisi lacaniana, sono l’Immaginario (rapporto con “il Due” dell’alterità e dell’intersoggettività), il Simbolico (rapporto con “il Tre” degli elementi trans-individuali della cultura e della Legge) e il Reale (rapporto con “l’Uno” del proprio corpo fisiologico e istintuale); essi agiscono contemporaneamente e non sono considerabili separatamente nella struttura del soggetto, tanto da essere raffigurati da Lacan per mezzo della figura topologica inscindibile del nodo Borromeo. [⇡]
- L’espressione “catena dei significanti” è tratta dal modello euristico del Grafo del desiderio lacaniano e, all’interno dello schema, rappresenta il vettore ellittico dei significanti socio-culturali che interseca il vettore di vita del soggetto, producendo soggettivazione a livello simbolico (cfr. Pesare, 2020, pp. 169-184). [⇡]
- “Causalità psichica” è un termine che Lacan introduce nel 1946 (Lacan 1966), e si riferisce ad una relazione di tipo causa-effetto nell’ambito della nevrosi e della psicosi, assumendo che l’origine di tali fenomeni risieda nel linguaggio. In un discorso psicopedagogico di orientamento lacaniano, con “causalità psichica” si intendono indicare le produzioni di soggettività legate alle identificazioni, con un nesso causale e non casuale. [⇡]
- Si fa qui riferimento agli studi della “Clinica della formazione” avviati da Riccardo Massa e proseguiti dall’omonimo gruppo di ricerca (cfr. Massa 1992, Riva 2000). [⇡]
- Si fa necessario un inciso: benché Freud non tratti direttamente di Antigone, tutta la produzione che segue la formulazione di Al di là del principio di piacere (Freud 1920) implica una riflessione attorno alla natura del soggetto e al suo disagio dello stare nella civiltà. Assunto che il soggetto non necessariamente persegue il principio di piacere, il desiderio autentico può configurarsi come desiderio di morte. È questo lo scandalo aperto da Freud sulla soglia degli anni Venti con la pubblicazione del Disagio nella Civiltà, che scardina ogni principio di ottimismo storico per consegnare ai posteri una verità non felice, giustificata certo dal dramma degli eventi storici coevi, ma mai più smentita: l’analisi del corpo sociale non può prescindere dall’assunzione che il soggetto dell’inconscio possa muoversi in direzione opposta al suo benessere. [⇡]
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