È appena stato pubblicato da Ombre Corte l’ultimo libro di Daniela Angelucci, Là fuori. La filosofia e il reale. Abbiamo deciso di presentarlo alla comunità di Litorale ponendo all’autrice tre domande su alcune delle questioni fondamentali che il libro indaga, questioni particolarmente rilevanti nella teoria psicoanalitica lacaniana.
Ringraziamo Daniela Angelucci per la disponibilità e per l’attenzione che ci ha riservato e per la ricchezza concettuale delle risposte che di seguito pubblichiamo.
Franco Lolli
Professoressa Angelucci, le proporrei di iniziare la nostra conversazione partendo dal titolo del suo libro: Là fuori. La filosofia e il reale. Un titolo che non può non catturare l’attenzione di chiunque si interessi alla teoria lacaniana, perché in esso è contenuta e segnalata una delle questioni centrali dell’insegnamento di Jacques Lacan, questione che proverei a riassumere così: per quanto la realtà nella quale l’essere umano è da sempre immerso sia una realtà significante, una realtà, cioè, fatta di parole che avvolgono il vivente sin dal suo venire alla luce, alienandolo in un sistema di senso di cui diventerà presto inconsapevole prigioniero, è pur vero che non tutta l’esperienza umana si consuma in quei registri che Lacan definisce simbolico e immaginario. C’è qualcosa che sfugge alla presa del Linguaggio, qualcosa che non può esser detto, che è, per l’appunto, fuori dalle possibilità della parola: il reale. La domanda che le pongo è questa: questo fuori del reale lacaniano è, secondo Lei, lo stesso fuori al quale la filosofia – come l’arte, del resto – deve ‘attingere’ per non chiudersi in formule rigide e stereotipate?
Daniela Angelucci
Intanto inizio ringraziando per questa occasione di confronto.
Il “fuori” di cui parlo nel titolo del libro è il termine con cui tento di descrivere una dimensione fatta di forze vitali in sé, al di là di ogni rappresentazione, dunque letteralmente impossibile da dire. Una dimensione rischiosa ma vitalizzante, necessaria per ogni pensiero che non sia ripetizione convenzionale, ma anche da un punto di vista esistenziale. Il lavoro filosofico di Deleuze a cui faccio riferimento, nonostante la straordinaria proliferazione di concetti e di linee di fuga, ha alla fine una certa unitarietà, che è appunto quella di porsi questo compito quasi impossibile: trovare la possibilità di un contatto con questo elemento che appunto, come lei dice, sfugge al linguaggio. Questa possibilità nel pensiero di Deleuze si presenta sotto varie forme, come l’immanenza, l’intensivo, o il “corpo senza organi”. Ma possiamo intravederla anche in momenti inaspettati della storia del pensiero, per esempio nel sublime kantiano. Oppure, naturalmente, nel Reale di Lacan.
A questo riguardo la filosofia prende di solito una di queste due vie: l’affermazione della impossibilità radicale per l’essere umano di uscire dalla sua struttura rappresentativa, oppure l’idea che il contatto con la dimensione della vita, delle forze vitali in sé, avvenga come una regressione verso l’istintivo, verso il biologico. Frequentare l’insegnamento di Lacan è stato molto importante per il mio lavoro perché permette di pensare a questa dimensione non come a qualcosa di originario, ma come a uno scarto, un residuo, qualcosa che resiste e che si produce come un al di là e non un al di qua dei due registri dell’immaginario e del simbolico. E questo “al di là del simbolico” si caratterizza ovviamente non come una uscita e una postura definitiva, ma come una torsione del simbolico stesso che produce esperienze magari puntuali ma gravide di conseguenze, in grado di lasciare tracce nelle nostre vite.
Come dicevo, questo compito quasi impossibile – di pensare l’immanenza, avrebbe detto Deleuze, di contattare il reale, potremmo dire – è il compito rischioso ma necessario di ogni pensiero, che sia filosofico o artistico. Ciò non significa però che queste due pratiche siano identiche: ognuna ha i propri strumenti e le proprie strategie, che tentano di rispondere però alle stesse domande.
Franco Lolli
Nel suo lavoro è ripreso e ribadito più volte un tema teorico che trovo determinante: il pensiero nasce dall’incontro con il fuori, dal contatto con l’esterno, dall’impatto con un evento potenzialmente destabilizzante poiché non catalogabile, traumatico nella misura in cui eccede la possibilità di essere classificato e compreso. I numerosi riferimenti a Deleuze e Guattari mi sembra vadano in questa direzione: il concetto si deposita in quanto tale grazie ad un’operazione di estrazione dal Caos, di taglio. Non crede che tale processo di costituzione del pensiero (fondamentale – come Lei più volte afferma – per il lavoro del filosofo) possa essere ritenuto sovrapponibile al processo di soggettivazione dell’umano tout court, in particolare all’acquisizione della facoltà del vivente di sentirsi vivo, alla possibilità di autopercepirsi, di essere presente a sé stesso? In altri termini, una riflessione rigorosa sul processo di antropogenesi non pensa che debba necessariamente tenere in conto il prezioso materiale speculativo che l’Estetica ci consegna, ben oltre le sue applicazioni al mondo dell’arte?
Daniela Angelucci
Grazie per questa domanda, che mi permette di dire come intendo l’Estetica, disciplina che insegno all’Università, ma che per me è più una prospettiva filosofica che una disciplina a parte che individua un insieme di oggetti separati. Sulla scorta degli autori che ha nominato, e di altri come Lyotard, Baudrillard, nel libro descrivo l’inizio di ogni pensiero, in qualunque campo, come l’esito di un incontro a volte anche violento con un’alterità, con un fuori sensibile che produce un’urgenza, una domanda scottante e un po’ tormentosa. Solo a partire da una sollecitazione di questo tipo è possibile dare inizio a una pratica di pensiero che non sia meramente convenzionale. Ciò che scaturisce da questo incontro con il sensibile assume poi eventualmente, solo successivamente, il carattere metodico del lavoro concettuale della filosofia.
In questo quadro, l’estetica non è, o non è soltanto, teoria delle arti, ma prospettiva filosofica che privilegia lo studio di quell’elemento sensibile alla radice di questo incontro a volte traumatico (aisthesis, termine greco da cui deriva il neologismo settecentesco Estetica, significa appunto sensibilità). E soprattutto, come giustamente sottolineava nella sua questione, in questo quadro il soggetto è descritto come un processo, un movimento di soggettivazione che è esito dell’incontro con il fuori, con l’altro, con il suo sguardo e le sue aspettative. Su questa soggettività “patica” avviene l’alleanza con una certa psicoanalisi.
Franco Lolli
Un’ultima domanda. Ho trovato molto interessanti le sue considerazioni sul rapporto soggetto-oggetto e sul rovesciamento del paradigma tradizionale che ha da sempre attribuito al soggetto il ruolo di agente del dominio sull’oggetto. In tale ribaltamento – assolutamente in sintonia con la teorizzazione di Lacan sull’oggetto a – l’oggetto risulta venir prima del soggetto, costituirlo, fondarlo. Ma, simultaneamente a tale operazione fondativa, lo spossessa, lo disorienta, lo spinge a cercare nuovi concatenamenti per potersi definire, sempre però in maniera provvisoria, transitoria e destinata a nuove riconfigurazioni. Se all’interno di un percorso psicoanalitico, la scoperta dell‘oggettualità del soggetto (che la formula lacaniana del fantasma fondamentale – $<>a – esprime chiaramente) rappresenta il modo più efficace per liberarsi dalle patologiche esigenze narcisistiche di un io che vuole a tutti i costi credersi io, in ambito filosofico, verso quale orizzonte conduce una simile destituzione del soggetto? E come pensa sia possibile sollecitare e favorire la ricerca del proprio ‘punto di disorientamento’, in un’epoca in cui le identità (nazionali, culturali, di genere, di appartenenza sociale, di condizione esistenziale) sono sempre più riaffermate?
Daniela Angelucci
Intanto vorrei subito dire che l’estetica, anche intesa in senso stretto come teoria delle arti, è molto importante per capire questo rovesciamento dei rapporti tra soggetto e oggetto: se pensiamo alla nostra esperienza dell’arte, è evidente a chiunque che siamo presi, catturati dall’opera, che agisce su di noi provocando un’attenzione che almeno all’inizio ha un tratto fortemente involontario. La formula lacaniana del fantasma è molto utile per cogliere questo spossessamento e questo depotenziamento del soggetto: l’oggetto a attiva il desiderio ma è anche irraggiungibile e dunque mette il soggetto in rapporto con la sua impossibilità di padronanza.
In ambito filosofico tutto ciò ha conseguenze molto radicali, dato che la filosofia occidentale ha avuto al suo centro prevalentemente un soggetto stabile e padrone di sé, al di là delle critiche poste a questa idea da autori come Nietzsche, Freud, e appunto il contesto francese a cui faccio riferimento. In questo depotenziamento del soggetto viene meno per esempio l’idea di libertà tradizionalmente intesa, quella che immagina l’essere umano come colui che prende una decisione in una sorta di scena vuota, esplicando un’idea o un progetto dall’interiorità verso l’esterno. Parlerei invece, con Deleuze e Guattari, di via di fuga, di uscita da un territorio chiuso verso uno spazio aperto, di movimenti di scarto rispetto a una situazione data. O anche di quello che lei nel suo libro chiama ‘vivere le pulsioni’, e che si potrebbe descrivere come un fare qualcosa di creativo con il proprio sintomo, appropriarsene e “deterritorializzarlo”. La creatività stessa dipende in fondo dalla capacità di fare un uso non proprietario del linguaggio, di attivare uno sguardo laterale, di disfarci di ciò che crediamo di conoscere.
L’idea di cercare il proprio “punto di disorientamento” ha una sua forte attualità e rilevanza politica proprio perché oggi domina al contrario la spinta alla realizzazione individuale, alla ricerca del “vero sé”, all’affermazione della propria identità in ogni ambito. Mi sembra che questo non possa che produrre molta insoddisfazione, perché propone un’idea di pienezza e anche di autonomia impossibili da raggiungere, e forse nemmeno così desiderabili. Credo che sia importante costruire sempre nuove occasioni di pensiero collettivo, in cui far proliferare gli scambi, seguire il desiderio e trovare sempre nuove aperture nei sistemi chiusi che frequentiamo, per esempio le istituzioni in cui lavoriamo. Si tratta di una sorta di micropolitica, che implica un lavoro faticoso e anche frustrante perché occorre iniziare sempre da capo, ricominciare ogni volta evitando rigidità e chiusure. Sembra necessaria, insomma, una energia che solo il contatto vitalizzante con il fuori può offrire.