
Presentiamo un breve ma denso testo in cui il filosofo, storico delle scienze e psicoanalista Pierre-Henri Castel presenta il suo libro Le mal qui vient. Essai hãtif sur la fin des temps, tradotto in italiano da Queriniana Editrice (Il male che viene. Saggio incalzante sulla fine dei tempi).
Ringraziamo l’autore e la rivista AOC nella quale il testo è stato originariamente pubblicato.
Articolo originale di Pierre-Henri Castel, traduzione a cura di Luigi Francesco Clemente e Franco Lolli.
La fine del mondo e dell’umanità è certa, come pure inevitabilequalunquecosa oggifacciamo e, soprattutto, è vicina. Vicina, ma non imminente. Detto altrimenti, non bisogna semplicemente pensare alla fine dei tempi, ma al tempo della fine, il che esige di ricordarsene e di anticipare: di vederla arrivare e, vedendola arrivare, di prenderne coscienza.
Tranquilli: non è mia intenzione rovinarvi il rientro dalle vacanze citando le cifre davvero catastrofiche della canicola di quest’estate, o il devastante monsone che imperversa attualmente nell’India meridionale, né ho intenzione di fare la minima allusione allo scioglimento del permafrost (che credevo confinato alla lontana Siberia, ma che ha appena colpito le Alpi), e neppure di fare il raffronto con i numerosi passi indietro di politica ambientale negli Stati Uniti e – mi dicono – in Francia, e meno ancora, o proprio per niente, con la desertificazione, le carestie, le crisi economiche, le guerre civili e gli esodi di massa che presto ne deriveranno. Tutti noi abbiamo imparato a convivere con queste piccole vampate di ansia nelle quali, per salvaguardare la salute della nostra digestione psicologica, la superficie ancora liscia di una quotidianità senza accidenti di rilievo avvolge le previsioni di un’amarezza spaventosa – e la pillola va giù.
Il fatto è che ci sono cose di cui abbiamo talmente tanta paura che risulta «impossibile» (leggete: «impensabile») credere che stiano effettivamente per accadere. Tra queste, la fine dell’umanità occupa un posto di rilievo. Perché non ignoriamo in alcun modo i fattori di distruzione ecologica del pianeta, né i disastri geopolitici che ne seguiranno. Piuttosto, la comprensibile speranza in un lieto fine compromette l’adeguata comprensione dei processi. Eppure, in maniera del tutto bizzarra, questi processi sono assolutamente comprensibili. Infatti, la fine del mondo e dell’umanità di cui parliamo non deve nulla alla religione né ad alcunché di irrazionale: l’apocalisse materiale e non spirituale che ci aspetta è, per dirla con Günther Anders, una «apocalisse senza regno»: una fine secca, che non rivelerà niente e non giustificherà nessuno. Ma non è nemmeno il tipo di fine del mondo causata da grandi eventi astronomici, come l’esplosione del Sole, di cui parliamo con distacco perché i tempi coinvolti non ci riguardano. Quel che rende la fine dei tempi intelligibile e vicina (come il dritto e il rovescio della stessa medaglia) è che si svolgerà in un orizzonte storico. Cioè, nell’arco di pochi secoli, mille anni al massimo, causata e vissuta da persone che molto probabilmente ci assomiglieranno parecchio e che, ad ogni modo, avranno ereditato le conseguenze di quanto facciamo oggi.
Questa speranza in un lieto fine, anche se lo si nega, spiega perché la letteratura semi-erudita che descrive l’imminente collasso – la collassologia, come è stata definita – conserva una certa ambiguità. Il suo tracciare un quadro iper-realista della fine dei tempi non le impedisce di invocare un sussulto di salvezza, il che rende fittizia la stessa fine. Il fatto (la fine) rimane inseparabile dalla speranza (anche tenue) che non si realizzi mai, o non in maniera così catastrofica come si potrebbe temere. Non è che si ritenga possibile che la fine non avvenga, giacché la si considera certa; ad essere inconcepibile è piuttosto il fatto che tale fine abbia necessariamente luogo. Nella sua forma più raffinata, sviluppata in passato da Jean-Pierre Dupuy sotto il titolo di «catastrofismo illuminato», l’argomentazione cerca dunque di tenere insieme il fatto a) che la fine è certa, quindi ci sono ragioni oggettive per avere paura, ma b) che, allo stesso tempo, non è necessaria, il che giustifica un’azione di prevenzione.
Ne Il male che viene, propongo qualcosa di completamente diverso. Suggerisco che sia giunto il momento di porre come premessa che la fine del mondo e dell’umanità è certa, ma anche inevitabile, qualunque cosa facciamo ora e, soprattutto, che è vicina. Vicina, ma non imminente. Giacché se si deve pensarne qualcosa, allora occorre darle un po’ di tempo per arrivare, in modo che questa fine non sia una sorpresa totale. In altre parole, non si deve pensare semplicemente alla fine dei tempi, ma al tempo della fine, il che esige di ricordarsi e anticipare: di vederla arrivare e, nel vederla arrivare, di prenderne coscienza. Perché pensare significa comprendere i processi, anche se si accelerano, anche se convergono verso un Evento epocale che suonerà la campana a morto di tutti i processi. Inoltre, riflettere sul tempo della fine (quello prima della fine dei tempi) non meriterebbe un’ora di fatica se non ci permettesse di capire ciò che le persone fanno e che faranno in fretta man mano che la fine si avvicina, avendo, per questo motivo, bisogno di un po’ di tempo prima che tutto finisca: il tempo in cui ciò che era solo probabile, e previsto da poche persone, diventi l’evidenza comune.
A me, non più che a voi, non piace sventolare una simile idea. Esplorarla non richiede solo di sguazzare nei paradossi inestricabili delle situazioni-limite. Spinge a saltare troppo velocemente dalla ragione al mito. Insomma, la chiarezza amata dal filosofo deve fare delle concessioni a un’oscurità sgradevole, un’oscurità che non si limita a colorare oggettivamente l’idea della fine, ma ottenebra anche la mente che la pensa.
La scrittura dotta ne risente. Le grandi utopie del Rinascimento (quelle di Moro o di Campanella, la grande affermazione del diritto degli individui a vivere liberi in una società armoniosa) prefigurarono ciò che, due secoli dopo, avrebbe preso la forma razionale del «diritto delle nazioni» e successivamente delle varie versioni del «contratto sociale», delle istituzioni repubblicane, cioè democratiche: allo stesso modo, una certa sensibilità letteraria che ha cominciato a sfornare autentici capolavori (la fantascienza post-apocalittica) richiede oggi una riflessione di vasta portata, di cui, ahimè, abbiamo solo dei balbettii. Ecco perché la collassologia parla ancora il linguaggio della fantascienza, e non riesce a svilupparsi in maniera riflessiva, cioè a sfociare in una filosofia politica dell’autodistruzione o in una scienza della fine della società. Vediamo l’imbarazzo nel quale ci fa sprofondare lo sforzo di prendere sul serio la fine (in un orizzonte storico) del mondo e dell’umanità. Perché è il senso dell’attività razionale che essa porta al suo limite estremo. Se tale fine è reale, allora la ragione che la concepisce deve certamente mutare. Ma cosa controllerà la sua mutazione? Cosa consentirà alla ragione di ragionare? Come sapere se si ragiona bene sulla fine di tutto, o se si delira?
A meno che non siamo ciechi di fronte a quanto sta accadendo. Sotto la sorda pressione degli uragani e delle guerre, dell’inquinamento e delle migrazioni, dovremmo vedere l’interdipendenza vertiginosa delle cose fisiche e degli esseri sociali, tutto ciò che fa delle prime le ragioni d’essere dei secondi, e basta già questo a cambiare, senza prenderne le misure, il contenuto e il senso di ciò che chiamiamo ragione e scienza. Guardate la recente evoluzione del lavoro di Bruno Latour. Per molto tempo, ci dice, abbiamo resistito all’idea che niente esista se non perché lo facciamo durare. Non vediamo che non bastano le attività umane a far esistere le cose, ma che le cose, lungi dall’essere passive e senza voce, sostengono reciprocamente l’attività umana. È così che i veri componenti del mondo sono tutti questi «ibridi» naturali et culturali che ci accaniamo costantemente a separare a colpi di dualismi vani – respingendo gli uni nel «mondo materiale» e gli altri nel «mondo sociale». Ma la nostra situazione, con tutte queste crisi indissolubilmente ecologiche e politiche, prova senza il minimo dubbio che esiste continuità ontologica tra la biofisica e la geopolitica – ecco ciò che «rivela» l’apocalisse in corso.
Così, rianimando l’«ipotesi Gaia» di James Lovelock, Bruno Latour ha forse trovato l’oggetto totale che cercava da sempre. Gaia, questo sistema geologico, chimico, biologico e umano più o meno autoregolante, e che noi sconvolgiamo, è l’orizzonte finalmente trovato del suo empirismo radicale, del suo acuto senso della fragilità e della contingenza, delle ristrutturazioni permanenti, quindi della vitalità e della mortalità degli «ibridi» in cui tutto consiste. Gaia: è dunque questa la scena in cui dispiegare un pragmatismo e un costruttivismo serio, liberato dal sogno di una Natura là «per sempre», e che si pone la questione pratica di cosa si può far durare, come e a quale prezzo.
È qui che interviene un fattore costantemente sottovalutato. La certezza della fine prossima è spesso considerata come un fattore di mobilitazione, che dovrebbe spingerci a correggere la traiettoria che ci precipita verso l’abisso. Al punto che ci chiediamo perché diavolo persone così ben informate come noi alla fine non facciano nulla, o facciano così poco. Ma, da un lato, è tutt’altro che scontato che un’angoscia così «totale» dovrebbe innescare un sussulto salvifico. E se fosse vero il contrario? E se ci paralizzasse ancora di più? Dall’altro lato, più pericolosamente, la certezza della fine potrebbe alimentare, alimenterà e probabilmente sta già alimentando opzioni morali e politiche che affrettano la fine. Perché se tutto è perduto (e questa certezza aumenterà man mano che la fine si avvicina, radicalizzando il processo al quale sto pensando), allora cosa ci impedirebbe di godere nel modo più sfrenato, più devastante, di tutto ciò che rimane finché c’è ancora tempo?
E non dobbiamo fermarci qui. Il male che viene, come lo chiamo io, si rivela in tutta la sua ampiezza solo se si accetta di guardare in faccia la tentazione del peggio che ecciterà follemente gli ultimi uomini, consapevoli di essere gli ultimi. Sappiamo davvero quale vertigine morale potrebbe causare la percezione che l’intera storia si sia ficcata in un vicolo cieco, e che l’idea di «destinazione morale» dell’umanità sia un vuoto sogno la cui data di scadenza è inscritta nell’ultima riserva delle ultime risorse vitali? La fine sempre più certa dell’umanità, col passare del tempo, potrebbe dar luogo allo scatenarsi delle voluttà più crudeli e, spingendo a fondo le cose, rendere molto ragionevole ciò che oggi giudichiamo assurdo. Meno si crederà all’«essenza eterna dell’uomo» – o al Bene che «per natura» l’uomo deve volere per se stesso -, e più delle possibilità oggi considerate marginali diventeranno centrali – o addirittura forniranno l’ultimo sapore ricavabile da una vita morente. Sì, Sade ci aspetta alla fine delle fini.
Senza negare la stupidità e l’ignoranza di tutti, forse bisogna anche far posto, almeno tra i ricchi e i potenti, meglio informati, a uno sfacciato cinismo. Con questo intendo dire che non ci sono solo persone informate che si affretteranno a saccheggiare gli ultimi tesori del mondo. Ci saranno (ci sono?) persone per le quali le disuguaglianze e le ingiustizie inestricabilmente legate alla catastrofe globale in atto costituiscono non un problema, ma uno strumento per i loro godimenti. Sto speculando, in altre parole, su quando l’unico fuoco col quale potremo riscaldare il sentimento della vita sarà quello del crimine su larga scala. Non importa che un simile punto di inversione morale avvenga un giorno preciso nel futuro (quando i tempi della fine diventeranno per sempre la fine dei tempi). Non perdere di vista la possibilità astratta di questo Male illumina il nostro prossimo futuro di una luce oscura che viene da più lontano e che, credo, rivela fin d’ora ombre minacciose, che non si vedrebbero così bene senza un’ipotesi azzardata.
Si obietterà che un tale Male è difficile da immaginare se nessun Bene vi si oppone. Quale Bene può esserci in un mondo «senza domani» (un mondo che è, penso, già il nostro)? Con un pizzico di umorismo nero, considereremo che questa è la vera questione morale da chiarire. E ho la mia idea su cosa un simile Bene potrebbe essere. Ma vorrei concludere su un altro registro.
In altri lavori ho difeso un’idea sicuramente più seria di questa, in ogni caso più scientifica, affrontando lo sviluppo degli ideali collettivi di autonomia nelle società moderne. Il rovescio della medaglia di questa autonomia è un’autocostrizione sempre più intensa, che si manifesta contemporaneamente attraverso un’inibizione raddoppiata degli impulsi, una responsabilizzazione esponenziale di tutti e una sensibilità esacerbata al Male, anche nelle sue forme minori. Abbiamo orrore della violenza. Ora, vorrei suggerire qualcosa di un po’ sovversivo.
È evidente, visto il grado di formazione sociale cui oggi siamo giunti, che dinnanzi al Male che viene dobbiamo assolutamente rifuggire dalla violenza? Dobbiamo credere ancora che la vita civile abbia come criterio la sua abolizione? E che dobbiamo ancora delegarne il legittimo esercizio a entità distanti come lo Stato? O dovremmo invece inventare nuove forme di violenza, anch’esse altamente civilizzate (e basate proprio su una più profonda responsabilità personale), senza lasciarci intimidire dai processi e dagli individui malvagi il cui godimento cinico consiste nell’affrettare la fine per il proprio profitto? In effetti, per noi, il pericolo di comportarci come bestie feroci immaginando di difendere la giustizia (come temono i nostri cani da guardia) è minimo. Non quello, invece, di lasciarsi ingannare dagli interessi dei potenti che si divertono nel gioco della corsa verso l’abisso, in anticipo sui tempi. Ultimo paradosso: la certezza dell’inevitabile fine del mondo e dell’umanità in un orizzonte prossimo significa anche che abbiamo poco tempo, pochissimo, per essere felici. Ma, nel complesso, credo che abbiate capito a cosa punta il mio cuore.
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