Kant in Ljubljana


Intervista comparsa in A. Zupančič, Etica del Reale. Kant, Lacan, Orthotes, Napoli-Salerno 2012, pp.11-19. Litorale ringrazia la casa editrice Orthotes per la gentile concessione.


L.F.C.: In Logiques des Mondes Alain Badiou sostiene che, grazie alla Scuola psicoanalitica di Ljubljana, è stato possibile scoprire un «autre Kant, dramatisé, modernisé, tiré vers la politique contemporaine et les enseignements de Lacan» [1]. Così, si può dire che, insieme a Lacan e Hegel, Kant rappresenti uno dei pensatori di riferimento della Scuola di Ljubljana.

A.Z.: Sì, assolutamente. E si tratta di un Kant molto diverso da quello cui sostenevano di “ritornare” gli avversari politici e filosofici di Badiou (i cosiddetti Nouveaux Philosophes) – e che hanno giocato un ruolo importante nello stesso rifiuto di Kant da parte di Badiou. In larga misura, posso comprendere la sua decisione. Questo tipo di questioni non sono mai puramente accademiche, non si tratta solamente della questione di differenti interpretazioni di Kant, ma anche, e semplicemente, di questo: Per quale motivo filosofico e politico si riscopre questo o quel filosofo classico? Da questo punto di vista, la situazione in Francia era differente da quella in Slovenia, dove il riferimento a Kant stava senza dubbio dalla parte delle “forze progressiste”, per così dire, e non dalla parte delle “forze della reazione”. Per semplificare al massimo le cose, si potrebbe dire che in Francia il “ritorno a Kant” era parte di un abbandono del pensiero radicale – l’ “abbandono” che accompagnò e seguì alla caduta del Comunismo –, mentre in Slovenia esso era parte della non compromissione. Kant, insieme a Hegel, è stato un importante punto di riferimento per coloro che, per quanto convinti sostenitori di cambiamenti democratici, non hanno mai abbracciato l’ideologia del “Nessuna Alternativa” [No Alternative]. Vale a dire, l’ideologia che celebra la democrazia capitalista occidentale esistente come l’unico sistema politico possibile, e che denuncia ogni tentativo di pensare un’alternativa come qualcosa di necessariamente votato al terrore.

Questo, non per dire che il “nostro” Kant non sia stato letto criticamente, al contrario. Ma egli è stato letto, e lo è ancora, come un filosofo capace di pensare con radicalità e rigore, contro il principio ideologico egemone del “giusto mezzo”. Kant ha saputo pensare gli estremi, senza bollarli semplicemente come male radicale. Da parte mia, ma non sono sola in questo, il background teoretico lacaniano ha rivestito la massima importanza nel riconoscere tutto ciò in Kant. E non sto parlando solo dei riferimenti diretti di Lacan a Kant, ma all’intera sua prospettiva teoretica che ha reso visibili alcuni elementi in Kant che sono sfuggiti anche ai migliori classici tra i commentatori filosofici. E, come ha recentemente e giustamente sottolineato Jean-Claude Milner: il famoso Kant con Sade di Lacan è non tanto una critica a Kant quanto a Sade, rilevando il profondo moralismo che ne attraversa l’opera. Il punto non è che l’etica kantiana è, in realtà, immorale, ma che l’eccesso sadiano nella dissolutezza in realtà è governato da princìpi così severi e incontaminati con l’empirico da avvicinarsi stranamente alla legge morale kantiana. Che è il motivo per cui, in un certo senso, Kant è più radicale di Sade, più disturbante. Il vero scandalo non è l’immoralità e la dissolutezza, ma proprio la moralità. Questa dimensione disturbante è precisamente ciò che solleva Kant e la sua etica dal deplorevole ritorno contemporaneo all’etica come alibi e sostituto di ogni politica (radicale). L’ imponente spostamento dalla politica all’etica, e la crescente popolarità di quest’ultima, fa capo a ciò che prima ho chiamato “il movimento della reazione”, che è parte di un certo consolidamento politico basato sull’esclusione della politica nel senso forte del termine. L’etica kantiana, se presa sul serio, non può essere usata in questo modo. Al contrario, è mia convinzione che essa possa essere utilizzata al meglio proprio per combattere l’idea dell’etica come strumento atto a mantenere questo dato status quo politico, economico e giuridico.

L.F.C.: Nel 2009 Lei ha pubblicato in francese L’éthique du réel, «une version amplement retravaillée» [2] di Ethics of Real, di nove anni prima. Perché questa scelta?

A.Z.: In Francia Ethics of Real esiste in forma di due pubblicazioni separate e indipendenti: L’esthetique du désir, l’éthique de la jouissance, e quella che ha citato Lei, L’ethique du réel. Al centro del primo libro è la parte “letteraria” di Ethics of the Real, che riguarda i commenti a Sofocle (Antigone e Edipo a Colono), Claudel (la trilogia dei Coûfontaine), Laclos (Le relazioni pericolose) e Molière (Don Giovanni). L’éthique du réel invece si concentra esclusivamente sulla sezione dedicata a Kant e Lacan, sempre di Ethics of Real. Non andrò alla preistoria di questa disposizione; non ha molto interesse in sé, poiché non è motivata filosoficamente, ma pragmaticamente (tramite la discussione con diversi editori). Ma per trarre due libri indipendenti da uno scritto unitariamente, ho dovuto riscrivere entrambe le parti, non potevo tagliare semplicemente l’originale in due. Questo mi ha dato l’opportunità di porre le cose in una prospettiva leggermente diversa, di ripensare alcune parti, e riformulare alcuni punti in un modo più chiaro e, probabilmente, più preciso. Perciò, rispetto a Ethics of Real, L’éthique du réel non contiene la parte letteraria; la parte strettamente filosofico-psicoanalitica non differisce in maniera fondamentale, ma segue, per così dire, una drammaturgia leggermente differente. Si tratta di una sorta di “matema” del mio lavoro su Kant/Lacan, in relazione all’etica. La novità principale sta in una maggiore attenzione al concetto (lacaniano) di Reale. Quest’ultimo si è evoluto ed è anche cambiato nel corso dell’insegnamento di Lacan, motivo per cui ho pensato fosse importante specificare che cosa intendessi con “Reale” nel mio impiego di questo concetto. In breve: non qualche realtà, nascosta e vera, oltre la realtà comune sempre fantasmatica; non una Cosa insimbolizzabile esistente da qualche parte al di là della realtà, ma il Reale in quanto esistente nella forma degli scarti, delle contraddizioni e delle inconsistenze della realtà stessa. È cruciale sostenere, con Lacan, che il Reale non è l’Essere (o il suo predicato), ma la sua contraddizione e la sua negatività strutturale.

L.F.C.: In L’éthique du réel Leidefinisce il Suo progetto filosofico in termini di retour à Kant. Un Kant, le cui idee «ne correspondent à rien dans notre actualité». [3] A Suo parere, nel contesto ideologico attuale, quali sono le principali distorsioni del discorso etico kantiano?

A.Z.: Questa domanda ci riporta alla prima questione. C’è stato un certo retour à Kant cui ho voluto oppormi e che, volenti o nolenti, è servito da strumento della restaurazione ideologica dell’esistente, propria del post-guerra fredda. Per metterla in una singola formula, si trattava di un “Kant” utile a dare un sostegno e una dignità filosofica all’idea secondo cui era scientificamente, moralmente e politicamente necessario abbandonare l’idea di una possibile realizzazione dell’“impossibile” (“sapere assoluto”, “progetti politici utopici”…). Perciò, i temi kantiani più sfruttati sono stati: i limiti e la finitudine costitutivi del soggetto umano, la filosofia del diritto di Kant, la sua “estetica”, la sua teoria delle idee regolative e dei postulati della ragione pura pratica. Si può mostrare, punto per punto, come, in ognuno di questi temi, quello che ho chiamato il “Kant reale” vada perduto o, quantomeno, offuscato. In relazione al tema della finitudine e della mortalità, già Heidegger ha sottolineato come la rivoluzione trascendentale kantiana, lungi dall’escluderci semplicemente dall’infinito e dall’immortalità, consista nel mostrare come il modo proprio dell’immortalità umana si basi su un modo specifico della finitezza, che la rende possibile, non impossibile. Il tema kantiano della finitudine è, perciò, quanto di più lontano ci sia dall’includerci in quello che Badiou chiama l’orizzonte dell’“animale umano”.

L’accento posto sulla filosofia del diritto è chiaramente in tono con il significato ideologico ed economico della Legge, del sistema legale dei “diritti umani”, che tende a rimpiazzare i “diritti politici” e i diritti per le battaglie politiche (ovvero, i diritti a rivendicazioni politiche alternative che sarebbero immediatamente criminalizzate ed etichettate come terroristiche). L’estetica di Kant (la sua Kritik der Urteilskraft) è un territorio davvero interessante del retour à Kant, poiché ha prodotto alcune delle più potenti e radicali letture di Kant, come delle più noiose, “vendendo” l’estetica come un modo per superare le impasses della ragione scientifica, morale e politica.

Il fascino ideologico per la teoria delle idee regolative e per quella dei postulati, che io considero entrambi come i concetti più deboli di Kant, è anch’esso piuttosto ovvio. La sua matrice di base consiste nel dire: “Sappiamo bene che in realtà non possiamo mai realizzare l’ideale (della nostra conoscenza, della nostra moralità, della società, ecc.), ma dobbiamo agire come se potessimo farlo, così da avvicinarci all’ideale ad infinitum”. Ma – domando – come “sappiamo” esattamente questo? Qual è lo statuto di questo “sappiamo bene che…”? È solo il segno del fatto che abbiamo ipostatizzato l’incompletezza, la contraddizione, e l’instabilità strutturali delle cose in una differenza esterna che le separa dal loro ideale. In tal senso, penso che lo stesso Kant abbia sbagliato nel vedere come l’ideale così concepito assolva un gesto di totalizzazione della realtà che è, stando proprio a Kant, non totalizzabile. Esso reintroduce la nozione pre-critica di un Intero dell’Essere, sebbene ne escluda la piena realizzazione. Funziona come un coperchio, come un limite superiore, come il tetto che traspone e fissa la negatività che funge da possibile spazio di manovra (di cambiare ciò che è), nella negatività come differenza che separa per sempre ciò che è dal suo (impossibile) ideale. L’avvicinamento infinito all’ideale è segnato dalla logica del cattivo infinito, ovvero del movimento infinito del finito entro parametri interamente già dati. Penso che la risposta propriamente hegeliana e lacaniana a questa logica dovrebbe essere: l’Ideale non esiste al di fuori della sua realizzazione, che è il motivo per cui non possiamo sapere o dire che non lo raggiungeremo mai. Proprio perché la realtà è inconsistente e attraversata da contraddizioni, le nostre azioni possono anche creare le condizioni in cui realizzare i propri “ideali”, invece di posporli sempre più o meno in avanti. L’incompletezza costitutiva della realtà non è la descrizione di uno stato di cose fisso, che manchi di qualcosa, ma si riferisce alla sua non-interezza in quanto mobilità, in linea di principio, di ciò che è. L’opposizione non è tra l’umile accettazione dei nostri limiti e una sorta di insistenza, “pazza” e fanatica, sulla realizzazione dell’impossibile – queste sono, piuttosto, due figure della stessa logica. Il punto è che i parametri fondamentali che definiscono l’impossibile qualche volta finiscono per cambiare con le nostre azioni “finite”.

L.F.C.: Ne L’etica della psicoanalisi Lacan teorizza un’etica del desiderio. Lei, di etica del Reale. Cosa risponde a chi, come Marc De Kesel, [4] sostiene che da un punto di vista psicoanalitico non esiste un’etica del Reale?

A.Z.: Come già accennato, molto dipende da quello che intendiamo con “Reale” e con “etica del Reale”. Il concetto lacaniano di Reale ne L’etica della psicoanalisi non rappresenta l’ultima parola sull’argomento, e cambia notevolmente negli ultimi seminari, sebbene una cosa rimanga la stessa: l’etica è definita dal suo necessario legame con il Reale. Nel Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Lacan dice, per esempio, che lo statuto dell’inconscio (psicoanalitico) non è ontico, ma «etico». Cosa significa questo? Si tratta di collegare l’etica della psicoanalisi all’ etica del Reale, nel senso che il reale non si riferisce all’essere, ma a qualcosa che, sebbene non esista alla maniera dell’essere, ha delle conseguenze significative proprio per l’essere. L’inconscio non è una specie di magazzino o di riserva di pensieri “repressi” e inconsci, ma è una fenditura nell’essere che genera repressione, e non solo il contenuto del represso. E, facendo un balzo in avanti, in Televisione Lacan sostiene che non c’è alcuna etica in aggiunta all’ «etica del ben dire». Ancora, questo ha molto a che fare col Reale per come concepito in quel momento, come l’impossibile che detta la struttura logica fondamentale (del discorso). Il Reale non è “al di là del discorso (o del linguaggio)”, piuttosto ne è intrappolato, e ne curva la struttura e la logica – che è il motivo per cui può essere formulato, o formalizzato, solamente a partire da questa stessa struttura. Non in maniera immediata, ma forzando, per così dire, la struttura a presentarsi (e articolarsi). Quando cerchiamo di articolare ciò che è stato detto, per parafrasare il Seminario XIX, «la struttura che viene alla luce rappresenta qualche difficoltà, e il reale va cercato lungo questa via».

Molto rimane ancora da dire sulla nozione lacaniana di Reale, specialmente nel contesto del presente revival del dibattito ontologico, e, nel nuovo libro che sto scrivendo, mi occupo proprio di questo tema. Ma, ad ogni modo, l’ «etica del Reale» non andrebbe compresa, come qualche volta è avvenuto, come una sorta di jusqu’au-boutisme sacrificale. Il punto di partenza non è che il Reale è un qualche orizzonte estremo/impossibile che dobbiamo sforzarci di raggiungere, per poi perderci nel suo abisso; il punto è piuttosto che il Reale è già sempre qui, dietro di noi, in noi, ad articolare proprio quella struttura con la quale cerchiamo di avvicinarlo. Tutto ciò non rende questo approccio necessariamente soggettivo, ma, al contrario, apre a una nuova dimensione dell’oggettivo.

L.F.C.: Nelle pagine conclusive de L’éthique du rèel Lei parla di un «réel d’une illusion». Cosa intende con questa espressione?

A.Z.: Il termine «illusione» è usato in un senso ben preciso: ponete di essere impegnati, con passione e a lungo, in un “progetto” d’amore, o in un progetto politico, e poi questo progetto fallisce, collassa, perde il suo terreno. C’è una reazione psicologica piuttosto comune a tutto ciò (di solito fortemente incoraggiata dal nostro ambiente): improvvisamente “realizziamo”, “vediamo” quanto questo impegno fosse fondato su un’illusione, la nostra passione basata su nulla (di tangibile), e qualche volta ci congratuliamo anche con noi stessi per esserci finalmente fatti passare la sbornia e aver iniziato a vedere come stanno “realmente” le cose. Questo per dire che qualcosa che ha avuto luogo viene retroattivamente bollato come irreale, come qualcosa che in realtà non è mai esistito. L’espressione «le réel d’une illusion» è intesa in contrasto a questa logica della disillusione retroattiva, in quanto quest’ultima perde un punto cruciale: insieme all’illusione (le idee e le speranze che abbiamo nutrito al tempo del nostro impegno), essa perde anche il Reale – sociale o intersoggettivo – che sosteneva questa «illusione» lì per lì e che non era esso stesso un’illusione. Il punto è che l’«illusione» (nel senso del credere in qualcosa e combattere in suo nome) non può essere separata così nettamente dal «Reale». E, ancora, il Reale va compreso non semplicemente come un essere (reale): il Reale non è ciò in cui si crede e per cui si combatte, ma ciò che spinge e guida questa credenza e questa lotta. È ciò che, in un’“illusione”, costituisce la sua forza movente, la quale non è essa stessa un’illusione, né è basata semplicemente su un’errata percezione delle cose.

Questo, ovviamente, non per dire che quando un progetto politico fallisce, dobbiamo negare che sia fallito e continuare a difenderlo ostinatamente, come se nulla fosse avvenuto. Al contrario, riconoscere il Reale di un’illusione significa anche riconoscerne le interruzioni, come anche i motivi, gli errori, e i presupposti erronei che hanno contribuito al suo fallimento. Ma questa è altra cosa dal pretendere che in realtà tale progetto non sia mai accaduto.

L.F.C.: Ne L’etica del Reale Lei mette in relazione etica e tragedia. Nei Suoi ultimi libri, The One odd in e Why psychoanalysis?, centrale diviene la questione della commedia. Che relazione c’è tra etica e commedia?

A.Z.: Vorrei sottolineare come alla fine de L’etica della psicoanalisi proprio Lacan introduca la “dimensione comica” come egualmente pertinente per la discussione dell’etica: «È nella dimensione tragica che si inscrivono le azioni, e che veniamo sollecitati a orientarci in relazione ai valori. Ma d’altronde, anche nella dimensione comica […]. Per quel poco che ho potuto fino ad ora affrontare davanti a voi sul comico, avete potuto vedere come si tratti anche del rapporto dell’azione con il desiderio, e del suo scacco fondamentale nel collegarsi ad esso». [5]

In breve, e schematicamente, potremmo dire che ciò che la tragedia e la commedia hanno in comune è il fatto che sono entrambe basate su, e giranti attorno a, una qualche discrepanza, incongruità, imperfezione, discordanza fondamentale – qui formulata da Lacan nella relazione tra azione e desiderio. Ma un’importante differenza tra i due generi può essere rilevata nel modo in cui essi vanno a strutturare proprio questo campo di incongruità.

In gioco, nella differenza tra la prospettiva tragica e la prospettiva comica, non sono due modi di guardare alla stessa configurazione, uno più negativo e doloroso, e l’altro più positivo e comunicativo. Piuttosto, la prospettiva tragica e quella comica muovono da due differenti punti propri della stessa configurazione. Non solo sono entrambe vere – sono entrambe vere, perché entrambe “parziali” e “partigiane”. Non sono due punti di vista o prospettive lanciati sulla stessa configurazione, sono due punti di vista o prospettive a partire dalla stessa configurazione. Tragedia e commedia non guardano alla configurazione della discrepanza, dell’antagonismo, dei conflitti e delle difficoltà implicate nella relazione tra la domanda e la soddisfazione di questa domanda, esse guardano a partire da questa configurazione, sono parte del suo antagonismo. E non è il loro atteggiamento a determinare ciò che vedono o, piuttosto, ciò che ci mostrano, è il luogo in cui si trovano a determinarne l’atteggiamento.

La tragedia si trova al livello della domanda, indirizzata all’Altro; e da qui c’è solo un modo in cui la discrepanza tra questa domanda e la sua soddisfazione è articolata: come desiderio, con la sua non-soddisfazione strutturale. Dobbiamo fare attenzione a comprendere tutto ciò in maniera corretta. La dimensione fondamentalmente negativa del desiderio non deriva dal fatto che la soddisfazione è sempre inferiore al desiderato, dal momento che potrebbe benissimo esserne più grande, eccessiva. Il punto è che anche l’eccesso risulta negativo a causa della differenza che esso implica in relazione alla domanda. Il desiderio è la figura soggettiva di questa differenza in quanto irriducibile e irreparabile. È il dolore della differenza.

La commedia, da parte sua, si trova al livello della soddisfazione; e anche da qui c’è solo un modo in cui la discrepanza tra questa soddisfazione e la domanda che dovrebbe corrisponderle può essere articolata: come jouissance, godimento o “più di soddisfazione”. Nella commedia è quest’ultima a interrompere la contemporaneità tra domanda e soddisfazione.

Questa differenza di punti di vista interni a una certa discrepanza strutturale implica anche uno spostamento nella temporalità, legato alla questione di come la dialettica della domanda e della soddisfazione è affetta da ciò che viene prima. La commedia rovescia la loro supposta sequenza naturale, in cui cominciamo con la domanda e finiamo con una soddisfazione sempre più o meno inadeguata. La discrepanza che costituisce il motore della commedia non consiste nel fatto che la soddisfazione non può mai davvero esaudire la domanda, ma piuttosto nel fatto che la domanda non può mai esaudire una soddisfazione (in eccesso e prodotta inaspettatamente). In altre parole, nella commedia la risposta precede strutturalmente la domanda, o anche: l’azione precede il desiderio. Non è la soddisfazione a seguire alla domanda, senza che possa mai esaudirla pienamente, è piuttosto la soddisfazione a scavalcare la domanda, cosicché quest’ultima deve ora inciampare a seguito di una soddisfazione già esistente. La commedia o, più precisamente, la sequenza comica è sempre inaugurata da una qualche realizzazione inattesa. Questo più-di-realizzazione può essere prodotto da un fallimento, un errore, uno sbaglio, da malintesi (e di solito lo è), ma nel momento in cui si produce, cambia la vera struttura del campo. Il campo della commedia è essenzialmente un campo in cui la soluzione precede il problema, la soddisfazione precede la domanda. Non solo noi (o i personaggi comici) non ci appropriamo di quanto richiesto, come se non bastasse (e non al suo posto) riceviamo qualcosa che non abbiamo mai richiesto in alcun modo. E dobbiamo cavarcela con questo surplus sorprendente, essergli all’altezza (questo è l’essenziale del genere comico). È questa discrepanza di un qualcosa en plus che mette in moto e fa funzionare la commedia.


Note

  1. A. Badiou, Logiques des Mondes. L’être et l’événement, 2, Seuil, Paris 2006, p. 562.  []
  2. A. Zupančič, L’éthique du réel. Kant avec Lacan, Nous, Caen 2009, p. 149.  []
  3. Ivi, p. 3.  []
  4. M. De Kesel, Eros and Ethics. Reading Jacques Lacan’s Seminar VII, State University of New York Press, New York 2010.  []
  5. J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre VII. L’éthique de la psychanalyse (1959-1960), Seuil, Paris 1986; tr. it. di M. D. Contri, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960, Einaudi, Torino, 1994, pp. 393-394.  []