I destini della pulsione di morte1
Emanuela Mundo
[1] Con questo testo vorrei condividere alcune mie riflessioni e aprire una possibilità di studio su di una questione molto complessa per la psicoanalisi: la pulsione di morte.
In particolare, vorrei mettere in tensione dialogica i destini della pulsione di morte (al di là della ripetizione), la sua declinazione nel vivere sociale, il trauma del godimento e la funzione della castrazione.
In Al di là del principio di piacere [2] dopo la svolta teorica e rivoluzionaria della seconda topica, Freud afferma che: “Non è esatto parlare di un’egemonia del principio di piacere sul flusso dei processi psichici”.
Inizierei, con il sottolineare che la pulsione non è il piacere. I due significanti indicano questioni discrete, ben distinte tra loro. Oso affermare che la pulsione ha più a che fare con il dispiacere, piuttosto.
La pulsione è tradotta in inglese con “drive”, che significa letteralmente “spinta”, ma questa non è, di fatto, una buona parola. Perché la “spinta” è ciò che deriva dalla pulsione, è l’effetto della pulsione. L’effetto della pulsione non è spingere verso il piacere ma piuttosto verso il godimento, che è altro dal piacere. Questo si vede molto bene nella clinica: il godimento fa da barriera al piacere stesso. Con questa affermazione io rovescio l’affermazione di Lacan che sarebbe, correttamente, che il piacere fa da barriera al godimento, e rovesciandola intendo sottolineare la circolarità propria del godimento vs la ritmicità propria del piacere. Il godimento è al di là del principio di piacere, letteralmente. Il godimento è un eccesso, un di più che va oltre il limite (e limite è proprio un significante) del piacere e verso il dolore. Ogni sintomo che incontriamo nella clinica porta questa marca, già evidenziata da Freud nel caso dell’uomo dei topi [3]: il soggetto della cura soffre ma è invaso da un godimento ripetitivo di cui non può fare a meno. Nella clinica di oggi la declinazione del godimento è piuttosto evidente, per esempio, nelle dipendenze da sostanze di abuso così come nelle cosiddette dipendenze affettive.
La pulsione, di cui parlava anche Freud, è, cito Lacan: “qualcosa che esce da un bordo, che ne raddoppia la struttura chiusa, seguendo un tragitto che fa ritorno” [4]. La pulsione è, quindi, circolare, gira intorno all’oggetto senza mai raggiungerlo.
Spesso, in alcuni tesi psicoanalitici, capita di leggere di una certa sovrapposizione tra libido e pulsione. Anche qui, va fatta una distinzione chiara sulla quale molte cornici teoriche si sono incontrate o scontrate. Secondo Freud, la pulsione si situa al limite tra lo psichico e il somatico (la pulsione comporta sempre un fenomeno di corpo, lo implica), mentre la libido ne designa propriamente il suo equivalente psichico. Essa sarebbe l’espressione dinamica, nella vita psichica, della pulsione sessuale e prevede un investimento oggettuale (Freud, 1922)[5]. Pertanto, libido e pulsione possono essere certamente in qualche modo connesse, ma non sovrapposte e né distinte solo facendo riferimento all’oggetto del presupposto investimento libidico.
Miller chiarisce la distinzione fra i concetti di libido e pulsione. La pulsione è un “incavo creato dall’annullamento significante e viene a trovarsi colmato, sempre in modo inadeguato da qualunque oggetto” [6] dato che l’oggetto è la parte meno importante e più variabile della quadripartizione pulsionale. I vari oggetti sono equivalenti, di pari dignità e l’oggetto diventa la componente più facilmente intercambiabile della pulsione stessa. La quadripartizione freudiana della pulsione (fonte, spinta, meta e oggetto) pone quest’ultima (l’oggetto) come la componente libidica (espressione psichica della pulsione) maggiormente variabile, soggettiva direi. Gli oggetti costituiscono delle “sostanze episodiche” [7] dell’oggetto a che rinviano, in fondo, all’oggetto sempre mancante. E l’oggetto sempre mancante rinvia alla pulsione (di morte).
Dice Freud in Al di là del principio di piacere (1920-21) “Ognuno dei cambiamenti imposti a un organismo nel corso della vita è stato accolto dalle pulsioni conservatrici e preservato per essere successivamente ripetuto; queste pulsioni suscitano così necessariamente la falsa impressione di essere forze inclini al mutamento (…) mentre invece cercano semplicemente di raggiungere una meta antica (…). Sarebbe in contraddizione con la natura conservatrice delle pulsioni se il fine dell’esistenza fosse il raggiungimento di uno stato mai raggiunto prima” e ancora “ogni essere vivente muore per motivi interni (…) allora possiamo dire che la meta di tutto ciò che è vivo è la morte e, considerando le cose a ritroso, che gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi” [8].
Sembrerebbe che il destino unico e possibile delle pulsioni sia quello di arrivare all’irriducibilità (anche e, soprattutto, semantica) della pulsione di morte.
Pertanto, la questione diventa: c’è, nel vivente, qualcosa di più vivo che la spinta alla morte? Con più vivo intendo più forte, contenente più energia psicobiologica, pulsionale, in altri termini, non certo di piacere ma di godimento, appunto. Se così è, questa vitalità deve avere la possibilità di un destino accettabile per ciascun soggetto.
Andando un po’ più in profondità scopriamo che la questione della pulsione di morte viene articolata in maniera unica da Lacan, così come è unica la prospettiva lacaniana nell’accezione di non prefiggersi di curare i pazienti in un’ottica d’integrazione sociale [9]. Di fatto noi non ci occupiamo mai di fare aderire i nostri soggetti della cura a un certo funzionamento conformato, ma piuttosto di cercare e mettere in forma una certa difformità accettabile, per il soggetto. Così un delirio o un fantasma [10] che sono modi diversi di avere a che fare con il reale, possono essere (e sono) completamente difformi da quanto la “norma” (statistica, epidemiologica o nosografica) prevede, ma sono una forma particolare di quel soggetto della cura.
L’unicità della cornice teorica lacaniana, secondo il mio parere, è evidente in molti ambiti ma soprattutto nell’articolazione particolare tra la pulsione di morte e il significante.
È principalmente nel Seminario VII (L’etica della psicoanalisi)che Lacan tratta della pulsione di morte. Pulsione di morte ed etica della psicoanalisi, un intreccio apparentemente scabroso e invece molto preciso. Preciso perché il discorso sull’etica della psicoanalisi è il discorso sui fini, sulle direzioni della psicoanalisi, discorso che non può essere separato da quello sui fini e sulle direzioni delle pulsioni del vivente, al di là della cura.
Quello che Lacan dice sull’etica e sulla pulsione di morte precipita sulla questione fondamentale del taglio del significante, delle radicali implicazioni che l’impatto (traumatico) del significante determina sull’organizzazione psichica. “Il simbolo si manifesta in primo luogo come uccisione della cosa”,dice Lacan [11] e comporta, pertanto, una sorta di eternizzazione del desiderio.
In questo modo viene resa quella che è la fondamentale trasmutazione che il significante impone al vivente in quanto tale, al vivente “prima di essere io” come direbbe Franco Lolli [12], all’esperienza umana in quanto sottratta al funzionamento puramente biologico, sensoriale, l’attimo in cui il vivente incontra il significante ancora non agganciato al senso.
Il fatto che in questa esperienza di vivente si inserisca un sistema di significanti apporta questo di nuovo: l’esperienza umana viene immersa nell’universo (nell’universale, per meglio dire) del simbolico. Questo, per Lacan, ha quindi effetti “rivoluzionari”: avviene un taglio, che imprime una svolta radicale, una frattura irreversibile, traumatica, che ristruttura dalle fondamenta l’esperienza vitale umana. Niente è più come prima, un “prima” che non è mai stato (dicibile). E’un’esperienza di uccisione, di morte. “Il significante come tale, sbarrando il Soggetto per prima intenzione, ha fatto entrare in lui il senso della morte. (La lettera uccide, ma è dalla lettera che l’apprendiamo).
Ecco perché ogni pulsione è virtualmente pulsione di morte” [13]. Ecco perché, ribadisco, nonostante possiamo abbagliarci, anche ideologicamente, e tendere a una certa “libertà pulsionale”, potremmo dire che ogni pulsione è irriducibile in quanto riducibile alla pulsione di morte.
L’universo del simbolico s’imporrà, da quel momento di taglio in poi, come un elemento determinante dell’esperienza, agente in modo autonomo e incisivo con le proprie leggi sull’organizzazione psichica. Il significante, con le sue proprie leggi e la sua autonomia, letteralmente ci fa suoi.
In che modo? Sostanzialmente agendo come un filtro: il reale, il magma, il nocciolo dell’esperienza di vita, viene ridotto in fili che si intrecciano e formano un ordito; fili fatti di significante, cioè di un niente di particolare, di non-cosa. È l’oggetto che con ciò viene perduto, l’oggetto in quanto tale, l’oggetto di cui non si può dire. L’oggetto del significante è il vuoto; è del vuoto che il significanteparla.
Questo è il segno della doppia radice dell’umano, della radicale divisione dell’uomo fra materia e parola, e della insanabilità di questa scissione.
Torniamo un attimo a Freud, in particolare al Progetto di una psicologia: egli afferma che nell’esperienza infantile della realtà, questa viene divisa in due parti; tutto ciò che è qualità, e come tale è simbolizzabile, passa nel sistema delle Vorstellungen (rappresentazioni) primitive e andrà a costituire la struttura dell’inconscio soggetta all’investimento del principio di piacere (e alla rimozione, aggiungo io); tutto ciò che non può essere riassorbito nel significante si imporrà per il suo apparato costante, che resta insieme come cosa [14]. Questa parte della realtà è tutto ciò che non può essere formulato come attributo, è il fuori-senso, il non-simbolizzabile e, come tale, andrà a collocarsi al cuore della struttura inconscia come l’estraneità assoluta, come “non assimilabile” [15]. Riprendo l’affermazione di Lacan ne gli Scritti “il nome uccide la cosa” (sottolineo “la cosa” non “una cosa”). La cosa è Das Ding, un oggetto particolare e non qualcosa di generico, un oggetto perduto e mai posseduto. “…questa Cosa è quel che del reale – intendete qui un reale tale che non abbiamo ancora da limitarlo, il reale nella sua totalità, tanto il reale che è del soggetto che il reale con cui egli ha a che fare come esterno a sé – è quel che, del reale primordiale, diciamo, patisce delsignificante.” [16]
L’azione del significante introduce un buco nel reale proprio per questo motivo: che il reale non è totalmente riassumibile nel significante; c’è un resto che non si lascia simbolizzare; l’organizzazione del significante nell’inconscio sarà dunque costituita da una trama, una rete di collegamenti di significante in significante strutturata attorno a un buco che non può essere ripreso nella trama stessa; questo buco è Das Ding.
Un significante si riferisce sempre a qualcosa, che però è sempre dell’ordine del significante e non degli oggetti; per questo parla sempre del vuoto, della perdita che ha inaugurato.
Vediamo così delinearsi un movimento fondamentale dello psichismo umano: il continuo investimento del reale a opera del simbolico, l’anelito a cogliere il reale attraverso la produzione inarrestabile di forme, di categorie, che lo contengano, attraverso, cioè, la sua simbolizzazione, la sua universalizzazione.
La questione piuttosto seria è che il reale non può essere ripreso in toto dal simbolico, qualcosa del reale è destinato a restare irrimediabilmente fuori, fuori-discorso, fuori-senso (fuori dal simbolico), fuori dal gioco (anche delle parole e di parole). C’è dunque un resto; di questo resto non si può dire assolutamente nulla perché, per farlo, dovrebbe poter essere, appunto, detto, cioè simbolizzato, che è proprio ciò che non è possibile. Esso rimane pertanto fuori dall’essere, in quanto l’essere appartiene all’universale, all’universo di tutto ciò che il pensiero può pensare, all’universo del simbolico. Questo, che è un resto, è il segno del limite della parola, del simbolico che è universale, e del reale che è uno e particolare. Il resto è, appunto, uno (unico) e particolare.
Il soggetto ripete, quindi, ciò che è più particolare, unico, per esso stesso, unicamente perduto e, come tale, impossibile da raggiungere (o recuperare).
Se c’è è per la sua irrimediabile assenza, il che rende eterno il desiderio, e la ricerca, a vuoto. Dunque, questo reale è irrappresentabile, non si può dire quindi non rimane che ripetere. Uno dei destini (non l’unico ma quello più eclatante) della pulsione di morte: la ripetizione.
Si è molto parlato della ripetizione nel soggetto del trauma, il trauma come impatto con un’eccedenza di realtà -non di reale- (un abuso, una violenza, un maltrattamento, un evento singolo o collettivo, puntuale o cumulativo) e abbiamo visto che questo porta alla coazione a ripetere per cause che sono anche psicobiologiche. Ne porta molti esempi Van der Kolk [17] che, in particolare, ha studiato come la coazione a ripetere post-traumatica implica un rilascio di oppioidi endogeni che inducono uno stato di analgesia piacevole, un effetto di corpo di segno opposto rispetto all’impatto violento dell’atto traumatico in quanto tale. Un effetto di godimento, traumatico esso stesso in quanto tale, in quanto godimento, in quanto eccedenza, in quanto è “un di più”.
Ma ora vorrei concentrarmi sul trauma in quanto trauma della parola (sempre di un evento di corpo si tratta, ovviamente), dell’uccisione della cosa, e provare a legare la questione della pulsione di morte alla ripetizione e al godimento. Un godimento traumatico.
Rileggendo Žižek [18] mi è tornato in mente Fight Club (film del 1999 diretto da David Fincher) e la messa in scena di picchiare sé stessi. Il film inizia mettendo in scena una vera alienazione del protagonista (interpretato da Edward Norton), che lavora per un’agenzia di assicurazioni e che è insonne (secondo Žižek l’insonnia è la metafora precisa dell’alienazione). Per “curare” la sua insonnia il protagonista si introduce in gruppi di auto-aiuto per malati di patologie incurabili, in maniera direi “compulsiva”, attività che gli procura un certo godimento (non piacere, ribadisco) finché non incontra una donna, un’altra “infiltrata” nei gruppi, questione che “rompe l’incantesimo” per cui l’andare ai gruppi non è più sufficiente. Avviene un incontro casuale con un uomo (interpretato da Brad Pitt) che gli dice (la voce narrante nel film è quella del protagonista) che lui è vittima del consumismo e di una società che lo consuma tenendolo in trappola, in una perfetta trappola capitalista. In questa società trappola rinveniamo facilmente tutti gli oggetti di consumo, intercambiabili, “sostanze episodiche” che non portano mai a un soddisfacimento ma, piuttosto, a un dis-facimento. A un certo punto questo uomo chiede al protagonista di picchiarlo, di avere uno scontro fisico, da cui una serie di eventi in cui gli scontri fisici sono organizzati, strutturati, e coinvolgono un numero sempre maggiore di persone. Si costituisce così il “Fight Club” con le sue regole, piuttosto interessanti da ripercorrere brevemente: “Prima regola del Fight Club: non parlate mai del Fight Club. Seconda regola del Fight Club: non dovete parlare mai del Fight Club. Terza regola del Fight Club: se qualcuno si accascia, è spompato, grida basta, fine del combattimento. Quarta regola del Fight Club: si combatte solo due per volta”. [19]
Non vado oltre nella narrazione della trama, che ha molti aspetti anche sociologici [20] piuttosto interessanti, ma l’uomo che il protagonista narrante incontra è sé stesso, una sua proiezione, il suo immaginario, che gli permette d’incontrare il reale. Nel film, a mio parere, il trauma del dolore non causa tanto disadattamento sociale ma piuttosto una certa, approssimativa ma prossima, riconnessione con il reale e il trauma del reale [21] . Che noi potremmo ridefinire come un certo godimento. “Con l’insonnia nulla è reale”, “Perdere ogni speranza è la libertà”, “Ogni sera morivo e ogni sera nascevo di nuovo”. Queste alcune delle affermazioni del protagonista del film che rimandano all’alienazione, all’immaginario (l’uomo in cui proietta sé stesso e con cui si batte la prima volta), e alla pulsione di morte, circolare: perché per nascere di nuovo bisogna morire ogni sera, e in questo si gode.
Non c’è dubbio che la ripetizione, marca della pulsione di morte, abbia a che fare con il godimento e che il godimento porti con sé i resti del trauma originario. E che faccia trauma esso stesso. In accordo con alcuni autori sento di affermare che il godimento è uno dei nomi della pulsione di morte.
Come sfuggiamo alla ripetizione e come possiamo volgere il destino della pulsione di morte da ripetizione a novità? Non certo con il vitalismo (che non è la vitalità), in altri termini non certo con l’inflazione dell’immaginario che ha il sentore di un atteggiamento “controfobico” e può portare a derive negazioniste, rispetto all’operatività della pulsione di morte. Come dice bene Franco Lolli nel suo articolo “L’incantesimo pulsionale del capo”, [22], l’inflazione dell’immaginario porta, in una qualunque forma di vita aggregativa, a un incantesimo che assoggetta all’amore per il capo. Perché c’è sempre un capo su cui proiettare la falsa pretesa che la pulsione di morte sia vincibile. Ma sappiamo bene che così non è. Piuttosto, per riprendere un’affermazione precedente, la forza psicobiologica della pulsione di morte, in tutte le sue forme, e in tutte le sue maschere, è senza pari. Originariamente lo è. E lo è perché nasciamo nel mondo del simbolico portando questa marca.
Indelebile, innegabile, irriducibile, ma trasformabile.
La pulsione di morte è all’origine dell’atto reale, e come tale ha a che fare con il reale, non può essere rimossa né repressa ci dice Lacan. Inoltre, “La pulsione di morte è il reale in quanto non può essere pensato se non come impossibile. Vale a dire che ogni volta che fa capolino è impensabile (…) Accostarsi a questo impossibile non può costituire una speranza [23] poiché l’impensabile in questione è la morte, e il fatto che non possa essere pensata è fondamento del reale” [24].
Dice Žižek “facciamo la cosa Reale, l’atto libero, ma lo troviamo troppo traumatico per accettarlo; perciò, ci piace razionalizzarlo in termini simbolici. Ma gli atti Reali accadono” [25]. Sempre Žižek ci indica una via, ci dice che di fronte a questo dobbiamo “rischiare e decidere” (pag. 135) assumendoci pienamente la responsabilità della nostra azione.
Questa è una prima possibilità di trasformazione. La decisione, l’atto, perimetra (limita, vorrei sottolineare io, poiché il limite è il significante fondamentale che ci approssima senza farci invadere dalla pulsione di morte, e rappresenta uno dei suoi possibili destini) l’area dell’evento in cui si inscrive il trauma dell’incontro col reale. Su questo sfondo si inscrive l’importanza della ripresa lacaniana di Freud. La scoperta della pulsione di morte che “trascende” il principio di piacere e il principio di realtà, mostra una direzione differente che supera l’ordine simbolico e permette al soggetto di eludere il “grande Altro” (il Re, il Capo) e di liberarsi del fantasma che determina la sua auto-identità sociale. Tutto ciò conduce Žižek a rivalutare il ruolo dell’analista: “(…) l’obiettivo ultimo dell’analista è di privare il soggetto proprio del fantasma fondamentale che regola l’universo della sua (auto)esperienza. Il soggetto freudiano dell’inconscio emerge soltanto quando un aspetto- chiave dell’(auto)esperienza del soggetto (il suo fantasma fondamentale) gli diviene inaccessibile, rimosso a un livello primordiale. (…) ciò che caratterizza la soggettività umana (…) è (…) la breccia che separa i due, ossia il fatto che il fantasma, al suo livello più elementare, diviene inaccessibile al soggetto. (…) In altre parole, la psicoanalisi ci consente di formulare una paradossale fenomenologia senza un soggetto; sorgono fenomeni che non sono fenomeni di un soggetto, che appaiono a un soggetto. Questo non significa che il soggetto non sia qui coinvolto: lo è, ma precisamente nella maniera dell’esclusione, in quanto diviso, in quanto agire (agency) [26] che non è in grado di assumere il nocciolo della sua esperienza interiore”[27].
Io ho trovato, infine, diversi spunti nel testo di Rossella Valdré La morte dentro la vita e la vitasenza Eros: attualità della pulsione di morte freudiana (2019)[28]. Innanzitutto, ci dice che dobbiamo ricordarci che la morte è attivamente all’opera nell’essere vivente, quindi che dobbiamo come “stare in guardia” e non scandalizzarci né aderire all’esistenza della pulsione di morte (in tutte le sue forme quali ripetizione, vitalismo e abbaglio immaginario compresi). La pulsione di morte è operativa nella vita perché la vita (inconscia) è stata per tutti noi sbarrata “per prima intenzione dal significante” come afferma Lacan in una delle citazioni che ho riportato in questo testo. Ci dice anche che dobbiamo poterci legare e slegare continuamente senza aderire alla pulsione di morte, senza farci incantare, “andarci a letto” ma potere “dire la nostra” in faccia alla pulsione di morte (l’atto di cui si diceva prima, la decisione), dire che l’abbiamo riconosciuta, anche se non ne possiamo dire. Sapendo che ci sarà sempre qualcosa che non sappiamo dire, che è letteralmente impossibile da dire e che possiamo avvicinare attraverso il nostro oggetto a. E questo avviene in tutte le forme della nostra vita personale e sociale, compresa quella associativa, dove la vita, e la pulsione di morte a essa intrinseca, si manifesta sempre in un modo o nell’altro. Compare al soggetto come fenomeno che non è parte del soggetto, ma che lo implica.
Questo impossibile da dire è stato la marca di questo mio lavoro, appena iniziato, su uno dei temi più scabrosi della psicoanalisi. E, al momento, il lavoro, che ha uno o più limiti, deve fermarsi qui. Proprio su questo punto dell’impossibilità, al momento, di dire oltre, per non ripetere, o girare intorno a un vuoto. Per non girare a vuoto bisogna riconoscere una certa castrazione. E ringraziarla. La castrazione è uno dei destini, ancora da studiare in maniera approfondita, della pulsione di morte. Un destino piuttosto interessante e vitale.
Note
- Ove non indicato diversamente i corsivi e i grassetti sono dell’autrice. [⇡]
- Freud S., Al di là del principio di piacere, in Opere, vol 9, pag. 125; Bollati Boringhieri, Torino, 1977. [⇡]
- 3 Freud S., Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (caso clinico dell’uomo dei topi), in Opere, vol 6, pag. 7-55; Bollati Boringhieri, Torino 1989. [⇡]
- Lacan J., Il Seminario, Libro XI, pag. 165; Einaudi, Torino, 2003. [⇡]
- Freud S., Teoria della libido, in Opere, vol. 9, pag. 458-461; Bollati Boringhieri, Torino, 1977. [⇡]
- Miller J.A., I paradigmi del godimento, pag. 22; Astrolabio, Roma 2001. [⇡]
- Lacan J. Nota italiana, in Altri Scritti, pag. 306; Einaudi, Torino 2013. [⇡]
- Freud S., op. cit., pag. 224. [⇡]
- Žižek S., Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo; Bollati Boringhieri, Torino, 2006. [⇡]
- Ricordo qui un testo molto interessante di Miller in cui afferma che “delirante e analizzante parlano entrambi di qualcosa che non esiste”, in Clinique ironique, La cause freudienne n. 23, L’énigme de la psychose, 1993. [⇡]
- Lacan J., Scritti, Volume I, pag. 313; Einaudi, Torino 1974. [⇡]
- Lolli F., Prima di essere io. Il vivente, il linguaggio, la soggettivazione. Orthoses, Napoli-Salerno 2017. [⇡]
- Lacan J, Posizionedell’inconscio, in Scritti,volII, pag. 852; Einaudi, Torino 1974. [⇡]
- Freud S, Progetto di una psicologia, in Opere, vol2, pag. 232, 235, 264, Bollati Boringhieri, Torino [⇡]
- ibidem,pag.236. [⇡]
- Lacan J, Ilseminario,LibroVII, pag. 150-151; Einaudi, Torino 2008. [⇡]
- Van der Kolk B., Ilcorpoaccusailcolpo; Raffaello Cortina, Milano 2015. [⇡]
- Žižek S, Daly G., Psicoanalisi e mondo contemporaneo. Conversazioni con Žižek; Edizioni Dedalo, Bari 2004. [⇡]
- Fight Club di David Fincher, 1999, Fox 2000 Pictures. [⇡]
- Approfondire questi aspetti sociologici forse ci avvicinerebbe a uno dei destini della pulsione di morte, ovvero alla sublimazione che però non è l’argomento di principale interesse in questo testo. [⇡]
- Ricordiamoci che per Lacan “Il trauma è il vero nome del reale” (Il Seminario, Libro XXIII, pag. 117; Astrolabio Ubaldini, Roma 2006). [⇡]
- Lolli F., L’incantesimo pulsionale del capo, in European Journal of Psychoanalysis, Marzo 2021. [⇡]
- “Perdere ogni speranza è la libertà” dice il protagonista di Fight Club. [⇡]
- Lacan J., IlSeminario,LibroXXIII, op. cit. pag. 121. [⇡]
- Žižek S, Psicoanalisiemondocontemporaneo, op. cit. [⇡]
- Parola che in inglese significa propriamente “competenza ad agire”. [⇡]
- Žižek S, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, pag. 73; Bollati Boringhieri, Torino 2006. [⇡]
- Valdré R, La morte dentro la vita e la vita senza Eros: attualità della pulsione di morte freudiana; Franco Angeli, Milano, 2019. [⇡]