di Catherine Malabou
traduzione dall’inglese di Luigi Francesco Clemente
Testo originariamente comparso in www.critinq.wordpress.com il 23 marzo 2020
Litorale ringrazia l’Autrice per la gentile concessione
Nel maggio del 1743 salpa a Messina una nave proveniente da Corfù che trasporta le salme dei membri dell’equipaggio, morti per una misteriosa malattia. La nave e il carico vengono bruciati, ma poco tempo dopo nell’ospedale e nei quartieri più poveri della città si riscontrano dei casi di una strana e nuova malattia; e in estate si sviluppa una spaventosa epidemia di peste, che uccide da quaranta a cinquantamila persone, per poi scomparire prima di diffondersi in altre parti della Sicilia. Rousseau è in viaggio da Parigi a Venezia ed è costretto a fermarsi a Genova a causa dell’epidemia. Egli racconta della sua quarantena nelle Confessioni (1782):
Era il tempo della peste di Messina. La flotta inglese vi era all’àncora e visitò la feluca sulla quale mi trovavo. Questo ci assoggettò arrivando a Genova dopo una lunga e faticosa traversata a una quarantena di ventun giorni. Ai passeggeri offrirono la scelta di trascorrerla a bordo o al lazzaretto dove, ci prevennero, avremmo trovato solo le quattro mura, perché non avevano ancora avuto il tempo di arredarlo. Tutti scelsero la feluca. Il caldo insopportabile, la mancanza di spazio, l’impossibilità di camminarvi, gli insetti mi fecero preferire il lazzaretto a tutto mio rischio. Fui condotto in un grande edificio a due piani assolutamente spoglio, dove non trovai né finestra né letto né tavola né sedia, neppure uno sgabello per sedermi né un fascio di paglia per coricarmi. Mi portarono il mio mantello, il mio sacco da notte, i miei due bauli; chiusero alle mie spalle grosse porte con solide serrature, e restai lì, padrone di passeggiare a piacer mio di stanza in stanza e da un piano all’altro, trovando dappertutto la stessa solitudine e lo stesso squallore.
Tutto questo non mi fece pentire di avere scelto il lazzaretto piuttosto che la feluca e, come un novello Robinson, mi accinsi a sistemarmi per i miei ventun giorni come avrei fatto per tutta la mia vita. Dapprima mi divertii a dar la caccia ai pidocchi che avevo buscato sulla feluca. Quando a furia di cambiare biancheria e vestiti mi fui finalmente ripulito, procedetti all’arredamento della camera che mi ero scelta. Mi feci un buon materasso con le mie vesti e le mie camicie, delle lenzuola con parecchi asciugamani cuciti insieme, una coperta con la veste da camera, un guanciale con il mantello arrotolato. Mi feci un sedile con un baule poggiato di piatto e una tavola con l’altro poggiato sul lato stretto. Da un po’ di carta trassi una scrivania; disposi a mo’ di biblioteca una dozzina di libri che avevo. Insomma mi sistemai così bene che, se si eccettuano le tende e le finestre, mi trovavo quasi altrettanto comodamente in quale lazzaretto assolutamente spoglio quanto al mio Giuoco della Palla di rue Verdelet. I pasti mi erano serviti in gran pompa; due granatieri con la baionetta in canna li scortavano; la scala era la mia sala da pranzo, il pianerottolo mi serviva da tavola, il gradino inferiore mi serviva da sedile e, quando il mio pranzo era servito, ritirandosi donavano una campanella per avvertirmi di mettermi a tavola. Fra i pasti, quando non leggevo né scrivevo o non lavoravo al mio arredamento, andavo a passeggio nel cimitero dei protestanti che mi serviva da cortile, oppure salivo su un lucernario che dava sul porto e da cui potevo vedere entrare e uscire le navi. Trascorsi in questo modo quattordici giorni [1].
Quando mi è stato detto, come al resto dell’umanità, di restare in casa a causa della pandemia, mi è subito tornato alla mente questo passo delle Confessioni. Mentre i suoi compagni di sventura scelgono di farsi confinare tutti insieme su una barca, Rousseau decide di essere rinchiuso nel lazzaretto. Un lazzaretto è un ospedale per chi è affetto da malattie contagiose. Una feluca — vale a dire, un piccolo veliero mediterraneo — potrebbe anche essere alloggiata a scopo di quarantena. Ovviamente, le due possibilità sono offerte ai viaggiatori di Genova, e Rousseau pensa che la cosa migliore sarebbe lasciare la barca e starsene per conto proprio nell’edificio.
Possiamo leggere questo episodio concentrandoci unicamente sull’idea di scelta: cosa è meglio in un periodo di reclusione? Essere messi in quarantena con altre persone? O essere messi in quarantena da soli? Devo dire che ho passato un po’ di tempo interrogandomi su una simile alternativa. Se avessi potuto scegliere tra le due opzioni, cosa avrei fatto? (Tra parentesi, sto da sola, riparata in un isolamento quasi totale a Irvine, in California.)
In questo passo di Rousseau c’è qualcos’altro, forse di più profondo, ed è il fatto che la quarantena è tollerabile solo se ci si mette in quarantena da essa — se ci si mette in quarantena all’interno della quarantena e, allo stesso tempo, dalla quarantena, per così dire. Il lazzaretto rappresenta questa quarantena raddoppiata che esprime il bisogno di Rousseau di isolarsi dall’isolamento collettivo, creare un’isola (insula) all’interno dell’isolamento.
Ecco quella che è probabilmente la sfida più difficile in una situazione di lockdown: liberare uno spazio dove stare soli quando si è già separati dalla comunità. Essere rinchiusi su una barca con poche altre persone certamente genera una sensazione di estraniazione, ma estraniazione non significa solitudine, e proprio la solitudine è, in realtà, ciò che rende sopportabile la reclusione. E questo è vero anche se uno è già solo. Mi sono accorta che a rendere il mio isolamento estremamente angosciante è stata, in effetti, la mia incapacità di ritirarmi in me stessa. Trovare questo punto insulare in cui poter essere my self (in due parole: il mio sé — me stessa). Non sto parlando di autenticità, ma semplicemente di quella radicale nudità dell’anima che consente di costruire un’abitazione all’interno della propria casa, di rendere la casa abitabile individuando lo spazio psichico dove sia possibile fare qualcosa: cioè, nel mio caso, scrivere. Ho notato che la scrittura è diventata possibile solo quando ho trovato una simile reclusione nella reclusione, un luogo nel luogo in cui nessuno sarebbe potuto entrare e che, al tempo stesso, funge da condizione per i miei scambi con gli altri. Quando sono riuscita a immergermi nella scrittura, le conversazioni tramite Skype, ad esempio, sono diventate qualcos’altro. Erano dialoghi, non monologhi velati. Scrivere è diventato possibile solo quando la solitudine ha iniziato a proteggermi dall’isolamento. Ci si deve spogliare da tutti i rivestimenti, gli indumenti, i veli, le maschere e le chiacchiere insignificanti attaccate al proprio essere anche quando si è separati dagli altri. Il distanziamento sociale non è mai potente al punto da strappare ciò che resta del sociale nella distanza. Quello dello shelter in place, l’obbligo di restare nella propria abitazione, deve essere un’esperienza radicale alla Robinson Crusoe, un’esperienza che permette di costruire una casa dal nulla. Per ricominciare daccapo. O per ricordare.
Mi chiedo se Foucault, alla fine della sua vita, non si sia rivolto all’etica del sé — cura di sé, tecnologie del sé, governo di sé — per la stessa necessità. Il bisogno di ritagliarsi uno spazio suo all’interno dell’isolamento sociale con cui l’AIDS lo stava minacciando insidiosamente. È probabile che Foucault stesse cercando la propria isola, la propria terra assoluta (ab-solutus), dove avrebbe trovato il coraggio di parlare e scrivere prima di morire. Coloro che hanno visto nei suoi ultimi seminari una ritirata individualista e nichilista dalla politica hanno totalmente mancato il punto.
Sappiamo che Karl Marx ha ironizzato sulle robinsonate alla Rousseau, tipiche del XVIII secolo. Marx sosteneva che l’origine del sociale non può essere in alcun modo lo stato di natura, dove uomini isolati tra loro finiscono per incontrarsi e formare una comunità. La solitudine non può essere l’origine della società [2].
Il che può essere vero, ma io credo che sia necessario sapere come trovare la società dentro se stessi se si vuol comprendere cosa significa la politica. Ammiro coloro che sono capaci di analizzare l’attuale crisi causata dalla pandemia COVID-19 in termini di politica globale, capitalismo, stato di eccezione, crisi ecologica, relazioni strategiche Cina-USA-Russia, e così via. Per quanto mi riguarda, in questo momento sto invece cercando di essere un “individuo”. Questo, lo ripeto, non in ragione di una scelta individualista, ma perché, al contrario, penso che un’epochè, una sospensione, una messa tra parentesi della socialità sia, talvolta, l’unico accesso all’alterità, un modo per sentirsi vicini a tutte le persone isolate della Terra. Ecco perché cerco di essere quanto più solitaria nella mia solitudine. È per questo motivo che avrei anche scelto il lazzaretto.
Note
- J.-J. Rousseau, Le confessioni, tr. it. di V. Valente, Mondadori, Milano 2006, pp. 363-365. [⇡]
- K. Marx, Il Capitale. Libro Primo, in K.Marx – F. Engels, Opere Complete. Vol. XXXI, a c. di R.Fineschi, La Città del Sole, Napoli 2011, cap. 24. [⇡]
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