Hegel – Chesterton. Idealismo tedesco e cristianesimo


Di Slavoj Žižek
Testo originariamente comparso in www.lacan.com
Traduzione dall’Inglese di Luigi Francesco Clemente
Litorale ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Secondo un luogo comune, l’ebraismo (e l’Islam) sarebbe un monoteismo “puro”, mentre il cristianesimo, per via della sua Trinità, rappresenterebbe un compromesso con il politeismo; persino Hegel designa l’Islam come LA «religione della sublimità» allo stato puro, come l’universalizzazione del monoteismo ebraico:

Nel maomettanesimo il principio limitato degli Ebrei è trasceso mediante un’estensione all’universalità. Qui, Dio non è più considerato, come tra gli abitanti dell’estremo Oriente, come esistente in maniera immediatamente sensibile, ma appreso come la potenza una ed infinita che s’eleva al disopra di tutta la molteplicità del mondo. Il maomettanesimo è perciò, nel senso più proprio dell’espressione, la religione della sublimità [1].

Questo, forse, spiega perché vi sia tanto antisemitismo nell’Islam: a causa dell’estrema prossimità tra le due religioni. Per dirla in hegelese, nell’ebraismo l’Islam incontra se stesso nella propria “determinazione opposta”, nel modo della particolarità. Contrariamente a una simile lettura, dovremmo sostenere che è l’ebraismo ad essere una negazione astratta del politeismo e, in quanto tale, ancora ossessionato da esso (non avrai altro dio ALL’INFUORI DI ME, ecc.), mentre il cristianesimo è l’unico VERO monoteismo, dal momento che include l’auto-differenziazione nell’Uno – la sua lezione è che, se vogliamo l’Uno, abbiamo bisogno del TRE. Sul punto, la logica hegeliana delle triadi cade in una sorta di cortocircuito inammissibile: quella che sembrerebbe emergere è la triade ebraismo-cristianesimo-Islam: innanzitutto l’astratto/immediato monoteismo che, come prezzo da pagare per il suo carattere immediato, deve incarnarsi in un particolare gruppo etnico (motivo per cui gli ebrei rinunciano a qualsiasi proselitismo); poi il cristianesimo; quindi l’Islam, l’unico VERO monoteismo universale. Ebbene, quale potrebbe essere un’alternativa?

Due aspetti, che non possono non apparire opposti, caratterizzano il soggetto moderno per come è stato concettualizzato dall’idealismo tedesco: 1) il soggetto è il potere di un’attività sintetica “spontanea” (vale a dire: autonoma, seponente, irriducibile ad una causalità antecedente), la forza dell’unificazione, del mettere insieme, del collegare in rappresentazioni unificate di oggetti il molteplice dei dati sensoriali, dai quali siamo bombardati; 2) il soggetto è il potere della negatività, il potere dell’introdurre un divario/taglio nell’unità sostanziale immediatamente data, il potere della differenziazione, dell’“astrazione”, del separare e del considerare come autoponentesi ciò che in realtà fa parte di una unità organica. Per comprendere davvero l’idealismo tedesco, è cruciale pensare questi due aspetti non solo insieme (come due versanti di una stessa attività – come se il soggetto prima si tenesse fuori dalla realtà, per poi mettere insieme queste membra disjecta in una nuova, sua propria, “soggettiva” unità spirituale), ma come stricto sensu identici: è esattamente l’attività sintetica a introdurre un divario/differenza nella realtà sostanziale, mentre proprio la differenziazione consiste nell’imporre un’unità. Come, esattamente, dobbiamo leggere tutto questo? La spontaneità del soggetto emerge come un TAGLIO disturbante nella realtà sostanziale, e questo perché l’unità che la sintesi trascendentale impone alla molteplicità naturale è precisamente ciò che questa parola significa nel linguaggio ordinario, non in quello di Kant: “sintetico”, artificiale, “innaturale”. Per evocare una comune esperienza politica: tutti i grandi unificatori hanno iniziato con un gesto di divisione – De Gaulle ha unificato i francesi introducendo una differenza inconciliabile tra quanti volevano la pace con la Germania e quanti non riconoscevano la capitolazione e volevano continuare a combattere.

Stesso discorso per il cristianesimo: non siamo PRIMA separati da Dio e POI miracolosamente uniti a Lui; il punto essenziale del cristianesimo sta nel fatto che è proprio la separazione a unirci – è in questa separazione che siamo “come Dio”, come Cristo sulla Croce; la separazione tra noi e Dio è trasposta in Dio stesso.

E non vanno diversamente le cose per quanto riguarda l’etica: un atto radicale di Bene DEVE apparire innanzitutto come “male”, come qualcosa che mette a soqquadro la stabilità sostanziale dei costumi tradizionali.

Ecco perché nel cristianesimo vengono attribuite a Cristo caratteristiche opposte: egli porta la pace, l’amore, ecc., E porta la spada, non la pace, egli spinge il figlio contro il padre, il fratello contro il fratello…

Ebbene, ci troviamo dinnanzi a un UNICO E MEDESIMO gesto, che non segue la logica del “prima dividere per poi unire”. E, di nuovo, è cruciale non confondere questa “identità degli opposti” con il classico motivo pagano di una divinità dalle due facce, una amorevole e l’altra distruttiva – stiamo parlando sempre e solo della stessa faccia. Ma, ancora una volta, tutto questo non significa che “la differenza sta unicamente in noi, non in Dio, il quale dimora nel suo beato Al di là” (come nella vecchia analogia tra la nostra realtà e un dipinto: se ci avviciniamo troppo alla realtà, vediamo solo macchie indistinte, ma se la osserviamo dalla giusta distanza, ne cogliamo l’armonia globale) – o, piuttosto, le cose stanno proprio così, ma non esternamente a Dio-in-Sé: questo slittamento è interno a Dio. La dialettica dell’apparenza sta qui: l’apparenza non è esterna a Dio, anche Dio è tanto profondo quanto appare, la sua profondità deve apparire come tale, ed è questa apparenza che introduce uno divario/taglio: Dio deve apparire “come tale” nel dominio dell’apparenza stessa, dividendola – egli non è NIENT’ALTRO che questa apparenza.

In Hegel sono presenti dei passi — non sono molto numerosi, ma bastano per considerarli sistematici — che smentiscono esplicitamente la nozione di “fine della storia”, e che dimostrano come egli non pensasse affatto che, nel suo momento storico, la storia si fosse conclusa. Infatti, alla fine del suo intero “sistema”, al termine delle Lezioni sulla storia della filosofia, Hegel riassume quale sia in sintesi lo stato presente del sapere: «Questo è il punto di vista dell’epoca moderna, e con esso la serie delle figure dello spirito è per ora conclusa» [2]. Nell’introduzione alle Lezioni sulla filosofia della storia universale, egli afferma inoltre che «l’America è un paese del divenire, del futuro, che pertanto ancora non ci riguarda»[3], e fa una dichiarazione simile relativamente alla Russia: sono entrambi paesi immaturi, che non hanno ancora realizzato la piena attualizzazione della loro forma storica. Anche nella sua tanto vituperata filosofia della natura, Hegel confessa la propria visione limitata e storicamente condizionata: «Si deve accontentarsi di quello che finora in effetti si può comprendere. C’è molto che non è ancora comprensibile» [4] . In tutti questi casi, «per un momento, Hegel può assumere un punto di vista esterno nei confronti della storia (universalmente comprensiva) che sta raccontando e annunciare che in una qualche fase successiva ci sarà una storia (universalmente comprensiva) più articolata — che egli confida ci sarà» [5] — Come, da quale posizione, può farlo? Da dove viene questo eccesso/resto di senso comune storicista, che relativizza le più alte intuizioni speculative? È chiaro che per un tale resto non c’è posto ALL’INTERNO della narrazione filosofica hegeliana.

È questo, allora, il compito di un autentico “rovesciamento materialistico di Hegel”: introdurre questa autorelativizzazione DENTRO il “sistema”? Riconoscere tracce che, per noi oggi, RIMANGONO tracce illeggibili; riconoscere lo scarto (di una parallasse irriducibile) tra molteplici narrazioni (dei dominanti, degli oppressi, ecc.), impossibili da conciliare? E se questa conclusione, in apparenza convincente, corresse un po’ troppo? E se invece non ci fosse nessuna opposizione tra l’“eterno” sistema del sapere e la sua (auto)relativizzazione storica? E se l’(auto)relativizzazione non venisse da fuori ma fosse inscritta nel cuore stesso del Sistema? Se le cose stanno così, allora il vero non-Tutto non andrebbe visto nella rinuncia alla sistematicità che caratterizza il progetto della “dialettica negativa”, nell’affermazione della finitudine, della dispersione, della contingenza, dell’ibridismo, della moltitudine, ecc., ma nell’assenza di qualsiasi limite esterno che dovrebbe guidarci nella costruzione e/o nella valutazione degli elementi in relazione ad una misura esterna. Letta in questo modo, la famigerata “chiusura del sistema hegeliano” è strettamente correlata alla (al rovescio della) sua (auto)relativizzazione: la chiusura del Sistema NON significa che non c’è nulla fuori dal Sistema (la nozione naïve di Hegel come individuo che ha sostenuto di aver raggiunto “il sapere assoluto di ogni cosa”); significa che non potremo mai “riflessivizzare” questo ESTERNO, inscriverlo in un INTERNO, neanche al modo meramente negativo (e ingannevolmente umile e autosvalutante) della consapevolezza che la realtà è un’assoluta Alterità che eternamente si sottrae alla presa concettuale.

Ecco perché coloro che tentano di dimostrare una qualche profonda affinità tra Heidegger e il pensiero orientale, in particolare il buddhismo, non colgono il punto: quando parla di “Evento- appropriante”, Ereignis, Heidegger introduce una dimensione che, precisamente, va persa nel buddhismo, la dimensione della fondamentale storicità dell’Essere. Nonostante l’“ontologia buddhista” — che solo erroneamente può essere detta tale — desostanzializzi la realtà in un puro flusso di eventi singolari, ciò che essa non può pensare è proprio l’“eventualità” del Vuoto dell’Essere. In altre parole: scopo del buddhismo è quello di rendere l’uomo capace di raggiungere l’Illuminazione tramite l’“attraversamento” dell’illusione del Sé e il ricongiungimento con il Vuoto – ad essere impensabile in questo spazio concettuale è la nozione heideggeriana dell’uomo come Da-Sein, come il Ci dell’Essere, come il sito dell’evento-avvento dell’Essere, dove l’Essere stesso necessita dell’Esserci – con il venir meno dell’Esserci, non c’è nemmeno l’Essere, nessun luogo dove l’Essere possa, letteralmente, aver luogo. Potremmo mai immaginare un buddhista che sostenga che il Vuoto, sunyata, necessita degli uomini come sito del suo avvento? Certo, è possibile, ma in un modo condizionale, in un senso totalmente differente da quello di Heidegger: nel senso che, tra tutti gli esseri senzienti, solo gli umani sono capaci di raggiungere l’Illuminazione e rompere il ciclo della sofferenza. Forse l’indicazione più chiara del divario del cristianesimo dal buddhismo è la differenza tra le loro rispettive triadi. Detto altrimenti, nella loro storia, sia il cristianesimo che il buddhismo si dividono in tre filoni. Nel caso del cristianesimo è, chiaramente, la triade Ortodossia-Cattolicesimo-Protestantesimo, che corrisponde per filo e per segno alla logica di Universale-Particolare-Individuale. Per quanto riguarda il buddhismo, al contrario, abbiamo il caso di quella che, in Hegel, interviene come “sintesi regressiva”: qui il terzo termine, la cui funzione consiste nel mediare tra i primi due, lo fa in maniera deludente e regressiva (nella Fenomenologia di Hegel, l’intera dialettica della Ragione osservativa culmina nella ridicola figura della frenologia). La divisione principale del buddhismo è quella tra la corrente Hinayana (Piccolo Veicolo) e la corrente Mahayana (Grande Veicolo). La prima corrente, “elitaria” e faticosa, cerca di rimanere fedele all’insegnamento del Buddha concentrandosi sullo sforzo individuale teso al superamento dell’illusione del Sé e al raggiungimento dell’Illuminazione. La seconda corrente, nata da una scissione dalla prima, sposta invece l’accento sulla compassione verso gli altri: la sua figura centrale è il bodhisattva, l’individuo che, dopo aver raggiunto l’Illuminazione, decide, mosso dalla compassione, di tornare nel mondo delle illusioni materiali per aiutare gli altri a raggiungere l’Illuminazione, impegnandosi a mettere fine alla sofferenza di tutti gli esseri senzienti. Qui la divisione tra le due correnti è irriducibile: l’impegno per la propria Illuminazione fa riaffiorare la centralità del Sé nello sforzo stesso del suo oltrepassamento, mentre il modo in cui il “Grande Veicolo” supera questa difficoltà non fa che ripeterne l’impasse, ma a termini invertiti: l’egoismo è superato, ma il prezzo da pagare sta nel fatto che proprio l’Illuminazione universale si rovescia in un oggetto dell’attività strumentale del Sé. Così, come si possono tenere insieme questi due orientamenti? La terza grande scuola, Vajrayana, prevalente in Tibet e in Mongolia, è chiaramente regressiva, una reinscrizione del buddhismo in pratiche magiche tradizionali e ritualistiche: qui l’opposizione tra il Sé e gli altri è superata, ma attraverso la sua “reificazione” in pratiche ritualizzate, indifferenti a questa distinzione. Ecco un interessante fatto di dialettica storica: il buddhismo — che in origine ha fatto a meno di rituali e dogmi istituzionali, concentrandosi esclusivamente sull’Illuminazione individuale e sulla fine della sofferenza a prescindere da qualsiasi struttura dogmatica e istituzionale — ha finito per aderire alla struttura gerarchica istituzionale più meccanica e più saldamente trincerata…

Ma, ecco il punto, non dobbiamo schernire gli elementi superstiziosi del buddhismo tibetano; piuttosto, dobbiamo essere consapevoli di come questa esternalizzazione faccia il suo lavoro, di come “porti a casa il risultato”: il fatto di affidarsi al mulino di preghiera — o, più in generale, all’efficienza del rituale — non è forse anche un modo per raggiungere il “distacco della mente”, per svuotare la mente e riposare in pace?

L’uomo che fu Giovedì, di G. K. Chesterton, racconta della storia di Gabriel Syme, un giovane inglese che fa l’ archetipica scoperta chestertoniana di come l’ordine sia il più grande dei miracoli e l’ortodossia la più grande di tutte le ribellioni. Il personaggio principale, tuttavia, non è Syme, ma il misterioso capo di un dipartimento super-segreto di Scotland Yard, convinto che «una cospirazione puramente intellettuale avrebbe presto minacciato l’esistenza stessa della civilizzazione»:

È sicuro che il mondo scientifico e artistico siano silenziosamente associati in una crociata contro la famiglia e lo Stato. Egli ha, perciò, formato un corpo speciale di poliziotti, che sono anche filosofi e hanno il compito d’osservare i principi di quella cospirazione, non soltanto sotto l’aspetto criminale ma anche settario. […] L’opera del poliziotto filosofo è al tempo stesso più ardita e più sottile di quella di un investigatore ordinario. Il consueto agente investigativo va nelle birrerie ad arrestare i ladri; noi andiamo alle artistiche partite di tè a scoprire i pessimisti. Il consueto investigante scopre da un libro mastro o da un diario che è stato commesso un delitto; noi scopriamo da un libro di sonetti che un delitto verrà commesso. Noi abbiamo da rintracciare l’origine di quegli spaventosi pensieri che spingono gli uomini da ultimo al fanatismo e al delitto cerebrale [6].

Per come oggi la metterebbero i conservatori culturali, i filosofi decostruzionisti sono molto più pericolosi dei terroristi:

Noi diciamo che il più pericoloso criminale è il moderno filosofo senza legge alcuna. In suo confronto i truffatori e i bigami sono essenzialmente uomini morali: il mio cuore palpita per loro. Essi accettano l’ideale essenziale dell’uomo; salvo che lo cercano in modo erroneo. I ladri rispettano la proprietà, soltanto desiderano che la proprietà diventi proprietà loro, per poterla rispettare più perfettamente. Ma i filosofi disprezzano la proprietà come proprietà: essi vogliono distruggere l’idea stessa del possesso personale. I bigami rispettano il matrimonio, altrimenti non accetterebbero l’alto cerimoniale e anche la formalità rituale della bigamia. Ma i filosofi disprezzano il matrimonio come matrimonio. Gli assassini rispettano la vita umana; soltanto, essi desiderano di raggiungere una maggiore pienezza di vita in se stessi mediante il sacrificio di quelle che ad essi sembrano vite di minor valore. Ma i filosofi odiano la vita stessa, la loro quanto quella degli altri. […] Il volgare assassino è un uomo cattivo, ma è, per dire così, buono almeno condizionalmente. Egli dice che, se soltanto un certo ostacolo fosse rimosso, – per esempio uno zio ricco, – sarebbe disposto ad accogliere l’universo e lodare Iddio. È un riformatore, ma non un anarchico; desidera purificare l’edificio, non distruggerlo. Ma il cattivo filosofo non mira a modificare le cose, bensì ad annichilirle [7].

Questa analisi provocatoria mostra chiaramente quale sia il limite di Chesterton, il fatto di non essere abbastanza hegeliano: ciò che gli sfugge è che il crimine universal(izzato) non è più un crimine – esso sublima (nega/oltrepassa) se stesso come crimine e rovescia la trasgressione in un nuovo ordine. Chesterton ha ragione quando afferma che — se equiparati al «filosofo senza legge alcuna» — ladri, bigami e assassini sono essenzialmente morali: un ladro è un uomo «buono almeno condizionalmente», giacché egli non nega la proprietà in quanto tale, semplicemente ne vuole di più per sé e solo allora è ben disposto a rispettarla. Comunque, la conclusione da trarre da tutto ciò è che il crimine in quanto tale è essenzialmente un atto morale, esso mira semplicemente a riordinare in maniera illegale un ordine morale globale, che deve rimanere. E, in uno spirito veramente hegeliano, dovremmo spingere questa proposizione (dell’“essenziale moralità” del crimine) fino al suo rovesciamento immanente: non solo il crimine è “essenzialmente morale” (in hegelese: un momento intrinseco del dispiegarsi degli antagonismi e delle contraddizioni della nozione stessa di ordine morale, non qualcosa che disturba l’ordine morale dall’esterno, come un’intrusione accidentale), ma la moralità stessa è essenzialmente criminale – ancora: non solo nel senso che l’ordine morale universale “si nega” necessariamente nei crimini particolari, ma, in maniera ben più radicale, nel senso che il modo in cui la moralità (nel caso del furto: la proprietà) afferma se stessa è già in se stesso un crimine – la proprietà è un furto, come si usava dire nel XIX secolo. Il che significa che dovremmo passare dal furto come crimine particolare che viola la forma universale della proprietà a questa forma stessa in quanto violazione criminale: ciò che Chesterton non vede è che il crimine universalizzato che egli imputa al «moderno filosofo senza legge» e al suo equivalente politico, il movimento anarchico volto a distruggere la vita civile nella sua totalità, esiste già sotto forma del governo della legge data. Sicché, l’antagonismo tra Legge e crimine risulta immanente al crimine, in quanto antagonismo tra crimine universale e crimine particolare. – E la nostra tesi è che il limite di Chesterton non riguarda solo la problematica sociale, ma anche la sua visione teologica globale, e questo sotto due aspetti: da una parte, questa visione gli impedisce di cogliere tutte le conseguenze dell’atto cristiano dell’amore che sublima il dominio della Legge e della sua trasgressione criminale; dall’altra, Chesterton è più coerente nei suoi ragionamenti teologici che nella sua visione sociale: nella sua teologia, egli pone esplicitamente l’identità tra Legge e crimine assoluto/universalizzato – ecco il clamoroso twist finale de L’uomo che fu Giovedì, quando scopriamo che il super-criminale Domenica, il potentissimo capo degli anarchici, altri non è che il misterioso capo della segretissima unità di polizia che ha ingaggiato Syme nella lotta contro gli anarchici (e quindi contro lo stesso Domenica). Così, andiamo avanti col nostro breve riassunto del romanzo, e osserviamo, in una scena degna di Mission Impossible, come Syme venga reclutato da questo misterioso capo — che si riduce a una voce nell’oscurità — per farne uno di questi
«poliziotti filosofi»:

Quasi prima ancora di sapere quel che stava facendo, si trovò a parlare con tre o quattro funzionari intermedi, e improvvisamente fu introdotto in una stanza, dove il buio era così fitto che lo colpì come un lampo di luce. Non era l’ordinaria oscurità, nella quale si possono debolmente intravedere le forme; era come diventare istantaneamente cieco assoluto.
“Siete voi la nuova recluta?” — domandò una voce potente.
E, in qualche modo indefinibile, sebbene non apparisse nel buio neppur l’ombra d’una forma, Syme riuscì a comprendere due cose: primo, che la voce veniva da un uomo di corporatura massiccia; secondo, che quell’uomo gli voltava il dorso.
“Siete voi la nuova recluta?” — domandò ancora l’invisibile capo, che sembrava conoscere già tutto quel che gli si riferiva: — “Benissimo. Siete accettato”.
Syme si sentiva quasi incapace d’alzarsi, e fece una debole lotta contro quella forza irrevocabile. “Veramente io non ho esperienza” – egli cominciò.
“Nessuno ha esperienza — disse l’altro — della battaglia di Armageddon”. “Ma io sono realmente inadatto…”
“Voi avete la buona volontà, e questo basta” — disse lo sconosciuto.
“Ebbene, ecco, —- ribattè Syme — io non conosco nessuna professione per la quale l’unica prova sia la buona volontà”.
“Io faccio … — disse l’altro –— dei martiri. Vi sto condannando a morte. Buon Giorno”[8].

La prima missione di Syme è quella di infiltrarsi tra i sette membri del “Consiglio Centrale Anarchico”, il vertice di una potentissima organizzazione segreta volta a distruggere la nostra civiltà. Allo scopo di mantenere segreta la propria identità, i membri del Consiglio si conoscono tra loro con il nome di un giorno della settimana; ricorrendo a qualche abile manovra, Syme riesce a farsi eleggere come “Giovedì”. Alla sua prima riunione del Consiglio, egli incontra Domenica, il presidente del Consiglio, un grande uomo dall’autorità incredibile, dall’ironia beffarda e dalla gioviale crudeltà. Nel corso delle sue avventure, Syme scopre che gli altri cinque membri del Consiglio sono tutti agenti segreti, membri della sua stessa unità operativa, ingaggiati dallo stesso capo invisibile e del quale hanno solamente udito la voce; è così che gli investigatori uniscono le proprie forze e, alla fine, nel corso di un fastoso ballo in maschera, affrontano Domenica. A questo punto, il romanzo si trasforma in una commedia metafisica: scopriamo due cose clamorose. Innanzitutto, Domenica, il presidente del Consiglio Anarchico, è la stessa persona del misterioso capo, mai visto, che ha assoldato Syme (e gli altri agenti speciali) per combattere gli anarchici; seconda rivelazione: egli non è altri che Dio stesso. Tali scoperte, ovviamente, innescano in Syme e negli altri agenti tutta una serie di riflessioni perplesse. La prima considerazione di Syme riguarda la strana dualità che egli ha riscontrato in Domenica durante il loro primo incontro: visto di spalle, Domenica sembrava un uomo brutale e malvagio, mentre, visto di fronte, faccia a faccia, era parso a Syme bellissimo e buono. Allora, come dobbiamo leggere questa natura duale di Dio, questa incomprensibile unità di Bene e Male in Dio? Possiamo forse spiegare il lato malvagio solo in base alla nostra prospettiva parziale e limitata, oppure – orribile visione teologica – la schiena è la sua vera faccia, «una terribile faccia senza occhi che mi guarda», rispetto alla quale il volto buono e cordiale è solo una maschera ingannevole?

Quando vidi Domenica per la prima volta ne vidi soltanto il dorso, ma pur vedendone il dorso io compresi che era l’uomo peggiore del mondo. Aveva il collo e le spalle brutali, come quelli di un qualche dio scimmiesco; una testa con una depressione non umana, simile ad una testa d’un bue. Ebbi tosto l’idea rivoltante che non fosse affatto un uomo ma una bestia rivestita d’abiti umani. E allora accadde la cosa strana. Avevo veduto il suo dorso dalla strada, mentr’egli stava seduto al balcone: poi, entrando nell’albergo e avvicinandomi a lui dalla parte opposta vidi il suo volto illuminato dal sole. La sua faccia mi atterrì, come atterrisce ognuno, ma non perché fosse brutale, non perché fosse cattiva: anzi, mi spaventò perché era così bella, così buona. […] Quando vedo il suo dorso, sono convinto che la sua nobile faccia non è che una maschera; e quando vedo la faccia, anche per un solo istante, comprendo che il dorso non è che uno scherzo. Il cattivo è tanto cattivo, che non possiamo pensare il buono che come un accidente; il buono è così buono, che ci sentiamo certi che il male potrebbe essere spiegato […] Mi sentii subitamente preso dall’idea che la sua nuca, cieca e bianca, fosse la sua vera faccia, una faccia spaventosa, senz’occhi, che mi fissasse! E immaginai che la figura che correva davanti a me fosse realmente una figura che corresse all’indietro, danzando nella corsa [9].

D’altronde, se la prima e più confortante versione è vera, allora «noi abbiamo conosciuto solo il dorso del mondo»: «Vediamo ogni cosa da dietro e ci sembra brutale. Quello non è un albero, ma la parte posteriore dell’albero. Quella non è una nube, ma la parte posteriore della nube. Non potete vedere come ogni cosa si abbassa e nasconde un volto? Se potessimo solo girarle di fronte…»[10].

Tuttavia, ecco che le cose si fanno molto più complicate: proprio la bontà essenziale di Dio gli si ritorce contro. Quando, alla domanda su chi Lui sia davvero, Domenica risponde di essere il Dio del Sabbath, della pace, uno degli investigatori infuriati lo attacca dicendogli che «è proprio per questo che non posso perdonarvi. So che siete la contentezza, l’ottimismo, o, come si suol dire, l’ultima riconciliazione. Ebbene, io non sono riconciliato. Se eravate l’uomo della stanza buia, perché eravate anche Domenica, insulto alla luce del sole? Se fino da principio eravate il nostro padre e il nostro amico, perché eravate anche il nostro nemico peggiore? Noi piangemmo, fuggimmo con terrore; il ferro entrò nelle anime nostre… e voi siete la pace di Dio? Oh, io posso perdonare a Dio la sua collera, sebbene essa distrugga le nazioni, ma non posso perdonargli la sua pace!»[11].

Come osserva un altro investigatore, col suo conciso stile inglese: «Mi pare così stupido che voi foste dalle due parti opposte e combatteste contro voi stesso»[12]. Se mai c’è stato un hegelismo inglese, eccolo qui – una trasposizione letterale della tesi chiave di Hegel, stando alla quale, nel combattere la sostanza alienata, il soggetto combatte contro la sua stessa essenza. L’eroe del romanzo, Syme, alla fine balza in piedi e, come rapito da un folle entusiasmo, spiega il mistero:

Vedo tutto, vedo tutto quel che è! Perché ciascuna cosa della terra guerreggia contro ciascun’altra? Perché ogni piccola cosa del mondo ha da combattere contro il mondo stesso? Perché una mosca ha da combattere contro l’intero universo? Perché il dente-di-leone deve lottare contro la terra? Per la stessa ragione per cui io dovetti star solo nel terribile Consiglio dei Giorni. Finché ogni cosa che ubbidisce alla legge può avere la gloria e l’isolamento dell’anarchico; finché ogni uomo che lotta per ordine ricevuto può essere un uomo coraggioso e buono come il dinamitardo; finché la vera menzogna di Satana può venir rigettata sul viso di questo bestemmiatore; finché con lacrime e torture noi possiamo guadagnarci il diritto di gridare a questo accusatore “Anche noi abbiamo sofferto”![13].

Ecco la formula: «ogni cosa che obbedisce alla legge può avere la gloria e l’isolamento dell’anarchico». È così che la Legge è la più grande delle trasgressioni, il difensore della Legge è il più grande dei ribelli. Eppure, dove sta il limite di questa dialettica? Vale anche per Dio? Egli, l’incarnazione dell’ordine cosmico e dell’armonia, è ANCHE l’ultimo ribelle, oppure è un’autorità benigna che, dal suo pacifico Al di là, osserva con perplessa saggezza le follie dei mortali che lottano gli uni contro gli altri? Questa è la replica di Dio quando Syme gli si rivolge chiedendogli:
«Voi, avete mai sofferto?»:

Com’egli [Syme] guardava intento con occhi spaventati, la grande faccia cresceva, cresceva, acquistando una mole spaventosa, più grande della testa colossale di Mammone, che l’aveva fatto piangere da bambino. Cresceva, cresceva, riempiendo di sé tutto il cielo; e tutto diveniva confuso e vuoto. Soltanto, in quel vuoto, prima ch’esso distruggesse interamente il suo cervello, Syme credette di udire una voce distante che ripeteva una frase ordinaria, ch’egli aveva udito in qualche luogo: “Potete voi bere nella coppa nella quale io bevo?”[14].

La rivelazione finale – che Dio soffre ben più di noi mortali – ci porta all’intuizione fondamentale di Ortodossia, il capolavoro teologico di Chesterton (che appartiene allo stesso periodo: Chesterton lo pubblica un anno dopo L’uomo che fu Giovedì), non solo all’intuizione secondo cui l’ortodossia sarebbe la più grande delle trasgressioni, la cosa più ribelle e avventurosa, ma a un’intuizione molto più oscura, interna al mistero che rappresenta il cuore stesso del cristianesimo:

Quando il mondo si commosse e il sole oscillò nel cielo, non fu al momento della crocifissione, ma al grido dall’alto della croce: il grido che confessò che Dio era abbandonato da Dio. Ed ora lasciate che i rivoluzionari scelgano un credo fra tutti i credi e un dio fra tutti gli dei del mondo, pesando con la massima cura tutti gli dei dal ritorno inevitabile dall’inalterabile potere. Essi non ne troveranno uno che sia stato in rivolta anche lui. Anzi (il tema si fa sempre più difficile per essere trattato in termini umani) lasciate che gli atei stessi si scelgano un dio. Essi non troveranno che una divinità che abbia manifestato il suo isolamento; non troveranno che una sola religione in cui Dio sia apparso per un istante ateo[15].

Ecco perché il cristianesimo è «terribilmente rivoluzionario. Che un uomo giusto possa esser ridotto alla disperazione lo sappiamo già, ma che possa esservi ridotto Dio, questo sarà il vanto di tutti i ribelli. Il cristianesimo è la sola religione che abbia sentito che la onnipotenza fa Dio incompleto; il cristianesimo solo ha sentito che Dio, per essere interamente Dio, deve essere stato un ribelle, non meno che un re»[16]. Chesterton è ben consapevole del fatto che in tal modo ci stiamo avvicinando ad «un argomento così oscuro e terribile […] un tema che i più grandi santi e pensatori hanno avuto paura di toccare. In quel terrificante racconto che è la Passione c’è una chiara e suggestiva allusione al fatto che l’autore di tutte le cose (in qualche impensabile maniera) passò non solo attraverso l’agonia, ma anche attraverso il dubbio»[16]. Nella forma classica dell’ateismo, Dio muore perché gli uomini smettono di credere in Lui; nel cristianesimo, Dio muore per se stesso. Nel suo “Padre, perché mi hai abbandonato?”, Cristo stesso commette quello che per un cristiano è un vero e proprio peccato mortale: vacilla nella propria fede. Questo «argomento così oscuro e terribile» è narrativamente rappresentato come l’identità del misterioso capo di Scotland Yard e del presidente degli anarchici ne L’uomo che fu Giovedì.

Il lettore attento avrà già capito che non abbiamo una semplice dualità, ma una trinità delle caratteristiche/facce di Dio: tutto il punto delle ultime pagine del romanzo è che, all’opposizione tra il Dio benigno della pace e dell’armonia cosmica e il Dio malvagio della furia omicida, si dovrebbe aggiungere una terza figura, quella del Dio sofferente. Ecco perché Chesterton aveva pienamente ragione nel ricusare L’uomo che fu Giovedì come un libro essenzialmente pre-cristiano: l’idea dell’identità speculativa del Bene e del Male, il concetto dei due volti di Dio, quello dell’armonia pacifica e quello della furia distruttiva, l’affermazione, per esempio, che, combattendo il Male, il buon Dio combatta se stesso (in una lotta interna), è ancora la (più alta) intuizione pagana. È solo il terzo aspetto — quello del Dio sofferente, la cui improvvisa comparsa risolve questa tensione tra i due volti di Dio — che ci porta al cristianesimo propriamente detto: ciò che il paganesimo non può concepire è l’idea di un simile Dio sofferente – cosa si fa quando si soffre? Si prega. Non stupisce che, nel suo Il senso delle Crociate, Chesterton confessi di condividere la descrizione che del Monte degli Olivi gli ha dato un bambino, a Gerusalemme: «Il bambino di un villaggio mi disse, nel suo inglese stentato, che quello era il luogo in cui Dio aveva recitato le preghiere. Io stesso non avrei potuto chiedere una dichiarazione migliore o più provocatoria su tutto ciò che separa i cristiani dai musulmani o dagli ebrei»[17]. Se nelle altre religioni noi preghiamo Iddio, solamente nel cristianesimo è Dio stesso a pregare.

Questa sofferenza, ovviamente, ci porta al Libro di Giobbe, che nella sua sorprendente Introduzione al Libro di Giobbe Chesterton ha definito come «il più interessante dei libri antichi. Potremmo addirittura parlarne come del più interessante tra i libri moderni». A costituirne la modernità è il fatto di risuonare come una nota dissonante all’interno dell’Antico Testamento:

Negli altri libri dell’Antico Testamento viene esaltato l’annullamento dell’uomo dinnanzi all’intenzione di Dio. Viceversa, il Libro di Giobbe se ne distingue in maniera radicale, dal momento che in ultima istanza si chiede: “Ma qual è l’intenzione divina? Vale la pena sacrificare ad essa la nostra pur misera natura? Certo, sarebbe facile immolare le nostre insignificanti volontà per amore di una volontà più grande e più buona. Ma sarà davvero più grande e più buona? Lasciamo che Dio faccia quel che vuole dei Suoi strumenti, lasciamo che Dio faccia a pezzi i Suoi strumenti. Ma cosa sta facendo esattamente Dio, e perché li sta facendo a pezzi?” È grazie a domande come queste che dobbiamo leggere l’enigma del Libro di Giobbe come un enigma filosofico.

Comunque, la cosa davvero sorprendente è che, alla fine, il Libro di Giobbe non ci dà una soluzione apprezzabile di questo enigma. «Non finisce in un modo convenzionalmente soddisfacente. A Giobbe non viene detto che le sue disgrazie rappresentano il castigo per i suoi peccati né che fanno parte di un qualche piano per il suo miglioramento».

«Alla fine Dio si manifesta non per risolvere gli enigmi ma per riproporli». E la «grande sorpresa» sta nel fatto che il Libro di Giobbe «rende Giobbe improvvisamente soddisfatto con il semplice presentarsi di qualcosa di impenetrabile. Gli enigmi verbalmente pronunciati da Dio sembrano più oscuri e più desolati degli enigmi di Giobbe; eppure Giobbe era sconsolato prima di parlare con Dio, e consolato dopo averci parlato. Non gli è stato detto nulla, ma egli sente l’atmosfera terribile e pungente di qualcosa di troppo bello per essere detto. Il rifiuto di Dio di esporre il Suo disegno è esso stesso un’allusione ardente al Suo disegno. Gli enigmi di Dio sono più soddisfacenti delle soluzioni degli uomini».

Ecco perché Dio deve ammonire i suoi stessi avvocati difensori, i «confortatori di Giobbe meccanicisti e superstiziosi»:

L’ottimista meccanicista finisce dichiaratamente per giustificare l’universo sul fondamento di un modello razionale e coerente. Egli sottolinea il fatto che la cosa bella del mondo è che può essere spiegato completamente. In realtà è proprio questo il punto, se posso metterla così, che Dio rigetta quasi con violenza. Dio, in effetti, dice che, se c’è una cosa bella del mondo, per quanto riguarda gli uomini, è che esso non può essere spiegato. Egli insiste sull’inspiegabilità di ogni cosa. “Chi è mai il padre della pioggia// chi ha generato le stille della rugiada” (38, 28). Egli si spinge ancora oltre, fino a insistere sulla concreta e tangibile irragionevolezza delle cose; “Chi ha segnato il corso della pioggia impetuosa, e la strada al nembo tonante, sì che piova su contrada ove l’uomo non è, sul deserto ove nessun mortale dimora?” (38, 25-26). Dio fa vedere all’uomo le cose solo sul nero sfondo della sua nullità. Dio mostrerà a Giobbe un universo sorprendente, costringendolo a vederne uno idiota. Per l’uomo sbigottito, Dio diviene, per un istante, un essere blasfemo; si potrebbe addirittura dire che Dio divenga, per un istante, un ateo. Egli dispiega davanti a Giobbe un lungo panorama di cose create, il cavallo, l’aquila, il corvo, l’asino, il pavone, lo struzzo, il coccodrillo. Descrive ciascuno di essi come se fosse un mostro che cammina sotto la luce del sole. L’intero discorso rappresenta una sorta di salmo o una rapsodia del senso della meraviglia. Il creatore di tutte le cose è stupito di fronte alle cose che Lui stesso ha creato.

Qui Dio attua quello che Lacan chiama “punto di capitone”: Egli risolve l’enigma soppiantandolo con un enigma ancora più radicale, raddoppiando l’enigma, trasponendo l’enigma dalla mente di Giobbe alla “cosa stessa” – Dio finisce per condividere lo stupore di Giobbe di fronte alla caotica follia della creazione.

Giobbe pone un punto interrogativo; Dio gli risponde con un punto esclamativo. Invece di dire a Giobbe che il mondo è comprensibile, Dio sottolinea che il mondo è molto più strano di quanto Giobbe abbia mai pensato.

Rispondere al punto interrogativo del soggetto con un punto esclamativo: non è forse questa la definizione più sintetica di ciò che dovrebbe fare un analista nel corso di un trattamento analitico? Così, invece di dare risposte a partire dalla sua onniscienza, Dio compie un intervento tipicamente analitico, aggiungendo un mero accento formale, una marca di articolazione.

C’è qui una stupida questione che andrebbe sollevata: perché Dio non reputa necessario dire a Giobbe la verità – che ha orchestrato tutto per metterne alla prova la fede, che Giobbe ha vinto e che il diavolo è stato sconfitto?

Ecco perché, secondo Chesterton, il Libro di Giobbe «ha salvato gli Ebrei da un enorme collasso e dalla decadenza».

Qui, in questo libro, viene sollevata la questione decisiva se Dio punisca invariabilmente il vizio con una punizione terrena e premi la virtù con una prosperità terrena. Se gli ebrei avessero sbagliato risposta, avrebbero perso tutta la loro influenza sulla storia umana successiva. Sarebbero affondati al livello della moderna società perbenista. Una volta che un popolo abbia iniziato a credere che la prosperità rappresenta la ricompensa per la virtù, diventa ovvia la loro prossima calamità. Se la prosperità è vista come ricompensa della virtù, finirà per essere considerata come un suo sintomo. Gli uomini abbandoneranno l’arduo compito portare al successo gli uomini buoni. Abbracceranno il compito molto più facile di rendere buoni gli uomini di successo.

Verso la fine de L’uomo che fu Giovedì, poco prima del confronto tra i sei agenti speciali con Domenica, tutti questi personaggi partecipano a un ballo in maschera, vestendo dei costumi che, lungi dal velarla, mostrano la loro natura autentica – sicché non vale più il detto “se vuoi mostrare chi sei veramente, getta la maschera”, ma al contrario: “Se vuoi mostrare la tua vera natura, mettiti la maschera giusta!”

Sebbene, per Chesterton, Hegel fosse il peggiore dei moderni e nichilisti “filosofi tedeschi”, non può non saltare agli occhi la prossimità dei suoi paradossi teologici con la dialettica hegeliana. Consideriamo questa prossimità da un altro lato (di Hegel), affrontando la questione centrale della cristologia hegeliana: perché l’idea della riconciliazione tra Dio e uomo (il contenuto fondamentale del cristianesimo) deve manifestarsi in un singolo individuo, nella forma di una persona esterna, contingente, in carne e ossa (Cristo, l’uomo-dio)? Hegel risponde in maniera alquanto concisa in questo passo tratto dalle sue lezioni sulla filosofia della religione:

Non può il soggetto portare a termine questa riconciliazione, rendendo il suo intimo adeguato all’idea divina, per mezzo della sua attività, devozione, pietà, ed esprimere questo per mezzo delle sue azioni? E possono inoltre realizzarla non solo un singolo soggetto individuale, ma tutti gli uomini che vogliono giustamente accogliere in sé la legge divina, così che il cielo sia in terra e lo spirito viva presente nella sua grazia? [18]

Si noti la precisione di Hegel: la sua questione è duplice. Innanzitutto, abbiamo la questione della divinizzazione dell’individuo, la perfezione spirituale; in secondo luogo, abbiamo la questione della realizzazione collettiva della comunità divina come «cielo in terra», una comunità che vive in totale accordo con la legge divina. In altre parole, l’ipotesi qui considerata da Hegel è quella tipica del marxismo classico: perché non possiamo concepire un passaggio diretto dall’In-sé al Per-sé, da Dio come sostanza piena ed esistente in se stessa, che sta al di là della storia umana, allo Spirito Santo come sostanza spirituale-virtuale, e cioè come sostanza che esiste nella misura in cui è tenuta in vita dall’instancabile attività degli individui? Perché non possiamo avere una disalienazione diretta, grazie alla quale gli individui arrivano a rendersi conto che Dio, in quanto sostanza trascendente, è il risultato “reificato” della loro stessa attività?

Ebbene, perché non è possibile? La risposta di Hegel si collega alla dialettica del porre e del presupporre: se il soggetto fosse capace di farlo da sé, di propria iniziativa, allora il prodotto di questa sua azione sarebbe solo un che di POSTO – dove il porre è in sé sempre unilaterale, basato su una qualche presupposizione: «L’unità della soggettività e dell’obiettività, questa unità divina, deve essere il mio porre come presupposizione»[19]. E Cristo come Dio-uomo è l’unità presupposta esternamente, la riconciliazione… prima immediata, poi mediata, lo Spirito Santo. Da Cristo, che ha come predicato l’amore, all’AMORE STESSO come soggetto, come Spirito Santo – “dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro…”.

Ma anche qui si potrebbe rispondere ad Hegel richiamandosi allo stesso Hegel: non è forse questo circolo del porre-presupporre l’autentico circolo della sostanza-soggetto, dello Spirito Santo come sostanza spirituale che è tenuta in vita, che esiste effettivamente e che giunge alla sua realtà esclusivamente nell’attività degli individui viventi? Lo stato della sostanza spirituale hegeliana è propriamente VIRTUALE: la sostanza esiste nella misura in cui i soggetti agiscono come se esistesse. La sua natura è analoga a quella di una causa ideologica, come il comunismo o la “Mia Nazione”: è la “sostanza spirituale” degli individui che vi si riconoscono, il fondamento della loro stessa esistenza, il punto di riferimento che fornisce alle loro vite un definitivo orizzonte di senso e per il quale essi sono disposti a sacrificarsi, anche se l’unica cosa che “esiste realmente” sono proprio questi individui con la loro attività. Motivo per cui tale sostanza è reale solo se, in quanto individui, “ci crediamo” e agiamo di conseguenza. Così, ancora una volta, perché non possiamo passare direttamente dalla sostanza spirituale come presupposta (la nozione naïve di Spirito o Dio come esistente in se stesso, a prescindere dall’umanità) alla sua mediazione soggettiva, alla presa d’atto che proprio la sua presupposizione è “posta” retroattivamente dall’attività degli individui?

È così che arriviamo all’intuizione fondamentale di Hegel: la riconciliazione non può essere diretta, essa deve PRIMA generare (apparire in) un MOSTRO – Hegel utilizza ben due volte nella stessa pagina questa parola inaspettatamente forte, “mostruosità”, per indicare la prima figura della riconciliazione, l’apparizione di Dio nella carne finita di un individuo umano: «È l’immenso [il mostruoso, das Ungeheure], di cui noi abbiamo visto la necessità»[20]. L’individuo umano finito e fragile è “inadeguato” per rappresentare Dio, esso è die Unangemessenheit ueberhaupt, l’inadeguatezza in generale, in quanto tale[21] – siamo o no consapevoli del paradosso propriamente dialettico di ciò che Hegel sostiene qui: il fatto che proprio il tentativo di riconciliazione, nel suo primo movimento, produce un mostro, una grottesca “inadeguatezza in quanto tale”? Così, di nuovo, perché questa strana intrusione, perché non un passaggio diretto dallo SCARTO (ebraico) tra Dio e l’uomo alla riconciliazione (cristiana), attraverso una semplice trasformazione di “Dio” dall’Al di là allo Spirito immanente della Comunità?

Il primo problema, qui, è che in un certo senso tutto questo gli ebrei lo hanno già fatto: se mai c’è stata una religione della comunità spirituale, questa è sicuramente l’ebraismo, una religione che non parla molto della vita dopo la morte o della fede “interiore” in Dio, ma che si concentra sul sistema di vita prescritto, sul fatto di obbedire alle regole comuni: Dio “è vivo” nella comunità dei credenti. Sicché, il Dio ebraico è allo stesso tempo: un Uno sostanziale e trascendente E l’Uno virtuale della sostanza spirituale. – Ma, allora, in cosa differisce la comunità ebraica dei credenti da quella cristiana, dallo Spirito Santo?

Osservando Napoleone a cavallo per le vie di Jena dopo la battaglia del 1807, Hegel rifletteva sul fatto che era come se avesse visto lo Spirito del Mondo andare a cavallo. Le implicazioni cristologiche di questa considerazione sono chiare: nel caso di Cristo ciò che è accaduto è che Dio stesso, il creatore del nostro intero universo, ha camminato tra noi, al pari di ogni altro individuo comune. Il mistero dell’incarnazione può essere colto a diversi livelli, fino al giudizio speculativo dei genitori rispetto al figlio — “Tra noi, là fuori, è il nostro stesso amore che sta camminando!”; un giudizio come questo rappresenta il rovesciamento hegeliano della riflessione determinata nella determinazione riflessiva – la stessa cosa accade nel caso di un re, quando i suoi sudditi lo vedono camminare: “Tra noi, là fuori, è lo Stato che sta camminando”. Qui, il richiamo al Marx della determinazione riflessiva (nella sua famosa nota nel primo capitolo del Capitale) non sembra del tutto pertinente: gli individui pensano di trattare una determinata persona come un re perché questa è, in se stessa, un re; mentre, effettivamente, è un re solo perché gli individui la trattano come tale. Ad ogni modo, il punto cruciale è che questa “reificazione” di una relazione sociale in una persona non può essere liquidata semplicemente come un “misconoscimento feticista”; tale liquidazione perde di vista quello che potremmo chiamare il “performativo hegeliano”: certo, il re è “in se stesso” un individuo miserabile; certo, egli è un re solo fintanto che i soggetti lo trattano come tale; tuttavia, resta il fatto che l’“illusione feticista” che sostiene la nostra venerazione nei riguardi del re ha in se stessa una dimensione performativa – l’unità propria dello Stato, ciò che il re “incarna”, si attualizza solamente nella persona del re. Ecco perché non basta insistere sulla necessità di evitare la “trappola feticista” distinguendo tra la persona contingente del re e ciò che essa rappresenta: ciò che il re rappresenta giunge all’esistenza solo nella sua persona, così come l’amore di una coppia (almeno secondo una certa prospettiva tradizionalista) diventa effettivo solo nella sua prole.

Una sola conclusione radicale: il problema non è “come superare la divisione”. La divisione è la soggettività: la soggettività è divisione, la scissione della negatività. QUESTA NEGATIVITÀ NON È UN PROBLEMA, MA LA SOLUZIONE, essa È già in se stessa DIVINA. Divina non è la sostanza/unità abissale e omniavvolgente che si cela dietro la moltitudine delle apparenze, divino è il potere negativo di mandare in frantumi l’unità organica…

Così la “morte” di Cristo non è superata, ma ELEVATA alla negatività dello Spirito.

Possiamo infine vedere l’omologia tra questa necessità di Cristo come incarnazione immediata della sostanza spirituale e la necessità dell’illusione sulla quale, tra gli altri, insiste Bourdieu nella sua critica alla spiegazione del potlatch fornita da Lévi-Strauss: non basta affermare che Cristo è un’immediata reificazione dello Spirito Santo, la vera questione riguarda il motivo per cui lo Spirito Santo debba prima apparire nell’immediata forma di un essere umano singolare.


Note

  1. G.W.F. Hegel, La filosofia dello Spirito, a cura di A. Bosi, UTET, Torino 2014, § 393.  []
  2. ID., Lezioni di storia della filosofia, Mondadori, Milano 2009, p. 554 [Dies ist nun der Standpunkt der jetzigen Zeit,
    und die Rehie der geistgen Gestaltungen ist fuer jetzt damit geschlossen
    ].  []
  3. ID., Filosofia della Storia universale, Einaudi, Torino 2001, p. 89.  []
  4. ID., Filosofia della natura, a cura di V. Verra, UTET, Torino 2006, § 268.  []
  5. E. Bencivenga, La logica dialettica di Hegel, Bruno Mondadori, Milano 2011, p. 104.  []
  6. G.K. Chesterton, L’uomo che fu Giovedì, Bompiani, Milano 2007, p. 46.  []
  7. Ivi, p. 47-48.  []
  8. Ivi, p. 51.  []
  9. Ivi, pp. 207-208  []
  10. Ivi, p. 209  []
  11. Ivi, p. 222  []
  12. Ibidem.  []
  13. Ivi, p. 225.  []
  14. Ivi, p. 226.  []
  15. ID., Ortodossia, Morcelliana, Brescia 2005, p. 189.  []
  16. Ibidem  []  []
  17. Id., La Nuova Gerusalemme. Viaggio in Terrasanta, Lindau, Torino 2011, p. 236.  []
  18. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione. Vol. III, Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 121-122.  []
  19. Ivi, p. 122.  []
  20. Ivi, p. 123.  []
  21. ID., Werke XVII, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1969, p. 272.  []