Il trauma: ripetizione o distruzione?


Malati di Alzheimer e persone colpite da danni cerebrali irreversibili, ma anche individui segnati dalla guerra e vittime di abusi sessuali o di catastrofi naturali: vicende soggettive che sembrerebbero smentire il classico paradigma psicoanalitico, stando al quale è identificabile come traumatico l’evento capace di riattivare la memoria di esperienze rimaste in attesa di significazione.

Ne discutono Slavoj Žižek, e Catherine Malabou negli interventi raccolti nel volume Il trauma: ripetizione o distruzione? Un dibattito tra filosofia, psicoanalisi e neuroscienze. Il libro, a cura di Luigi Francesco Clemente e Franco Lolli, inaugura la Collana editoriale di Litorale Nova Humana Materia, per Galaad Edizioni.


Qui di seguito, pubblichiamo due estratti dal testo: il primo è tratto da Descartes e il soggetto post-traumatico, di Žižek; il secondo è tratto da “Padre, non vedi che brucio?”. Žižek, la Psicoanalisi e l’Apocalisse, di Malabou.

Slavoj Žižek

Per noi, nel nostro Occidente sviluppato, il trauma è solitamente vissuto come un’intrusione temporanea che perturba con estrema violenza la nostra normale vita quotidiana (un attacco terroristico, una rapina o uno stupro, un terremoto o un tornado…); ma che dire di coloro per i quali il trauma è uno stato di cose permanente, uno “stile di vita”, per così dire? Che dire di coloro che vivono in un paese dilaniato dalla guerra come, ad esempio, il Sudan o il Congo? Queste persone non hanno un posto dove rifugiarsi rispetto alla loro esperienza traumatica, motivo per cui non possono nemmeno affermare che, ancora molto tempo dopo il trauma, sono perseguitate dal suo spettro: ciò che rimane non è lo spettro del trauma, ma il trauma stesso.

La critica di fondo che Malabou muove a Freud è che, dinnanzi a casi del genere, egli cede alla tentazione del senso: non è disposto ad accettare il diretto potere distruttivo degli shock esterni – il fatto che questi distruggono la psiche della vittima (o, almeno, possono ferirla in modo irreversibile) senza che in essi risuoni alcuna verità traumatica interiore. In effetti, sarebbe piuttosto osceno collegare, per esempio, la devastazione psichica di un “musulmano” in un campo nazista al suo masochismo, o alla pulsione di morte o al senso di colpa: un musulmano (o una vittima di stupri ripetuti, o di torture brutali…) non è devastato da angosce inconsce, ma direttamente da uno shock esterno “senza senso”, che non può in alcun modo venire appropriato/integrato ermeneuticamente.

Per Freud, se la violenza esterna diventa troppo forte, usciamo semplicemente dal dominio psichico vero e proprio; la scelta cade sulla seguente alternativa: “o lo shock viene reintegrato all’interno di una cornice libidica preesistente, oppure distrugge la psiche senza che di essa rimanga nulla”. Quello che Freud non può immaginare è che la vittima sopravviva, per così dire, alla propria morte: tutte le varie forme di incontri traumatici, indipendentemente dalla loro natura specifica (sociale, naturale, biologica, simbolica…), portano allo stesso risultato: all’emergenza di un nuovo soggetto che sopravvive alla sua stessa morte, alla morte (cancellazione) della sua stessa identità simbolica. Non si dà alcuna continuità tra questo nuovo soggetto “post-traumatico” (la vittima della sindrome di Alzheimer o di altre malattie cerebrali, ecc.) e la sua vecchia identità: dopo lo shock, quello che emerge è letteralmente un nuovo soggetto. Le sue caratteristiche sono ben note, come risulta da numerose descrizioni: mancanza di coinvolgimento emotivo, profonda indifferenza e distacco – ecco un soggetto che non è più “nel-mondo”, nel senso heideggeriano di un’esistenza incarnata e impegnata. Un simile soggetto vive la morte come una forma di vita – la sua vita è pulsione di morte incarnata, una vita privata di coinvolgimento erotico; e questo vale per il boia non meno che per le sue vittime. Se il XX secolo è stato il secolo freudiano, il secolo della libido — tanto che anche i peggiori incubi venivano letti come vicissitudini (sado-masochistiche) della libido — possiamo chiederci se il XXI non sia invece il secolo dei soggetti post-traumatici, la cui prima figura emblematica, quella del musulmano nei campi di concentramento nazisti, ha finito per moltiplicarsi sotto forma di profughi, vittime del terrore, sopravvissuti a catastrofi naturali e violenze familiari… Il tratto comune a tutte queste figure è che la causa della catastrofe rimane libidicamente priva di senso e resiste a qualsiasi interpretazione.

Malabou ha ragione nel sottolineare la dimensione filosofica del nuovo soggetto autistico: in esso, abbiamo a che fare col livello-zero della soggettività, con la conversione formale della pura esteriorità del reale insensato (la sua brutale irruzione distruttiva) nella pura interiorità del soggetto “autistico” separato dalla realtà esterna, disinteressato, ridotto al nucleo persistente deprivato della sua sostanza. Qui la logica è quella del giudizio infinito hegeliano: l’identità speculativa tra l’insensata intrusione esterna e la pura interiorità separata – è come se solo un brutale shock esterno potesse dare origine alla pura interiorità del soggetto, del vuoto che non può essere identificato con nessun determinato contenuto positivo.

La dimensione propriamente filosofica dello studio del soggetto post-traumatico sta nel riconoscimento del fatto che ciò che appare come la brutale distruzione dell’autentica identità sostanziale (narrativa) del soggetto è il momento della sua nascita. Il soggetto autistico post-traumatico è la “prova vivente” che il soggetto non può essere identificato (non è pienamente sovrapponibile) con le “storie che racconta a se stesso”, con la trama simbolica narrativa della sua vita: quando togliamo via tutto questo, rimane qualcosa (o meglio: niente, ma una forma di niente), e questo qualcosa è il puro soggetto della pulsione di morte. In quanto tale, il soggetto nella sua forma più elementare è effettivamente “al di là dell’inconscio”: una forma vuota, privata addirittura delle formazioni inconsce incapsulanti una varietà di investimenti libidici. Ecco perché, quando si sottopone un soggetto umano a un’intrusione traumatica, il risultato è la forma vuota del soggetto “morto-vivente”; mentre, se si fa la stessa cosa con un animale, quella che ne risulta è semplicemente una totale devastazione: dopo che su un soggetto umano si è prodotta una violenta intrusione traumatica che ne ha cancellato tutto il contenuto sostanziale, ciò che di esso rimane è la pura forma della soggettività, forma che doveva già esserci.

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Catherine Malabou

Nel suo articolo Descartes e il soggetto post-traumatico, Slavoj Žižek sviluppa una critica davvero illuminante dell’attuale ridefinizione neurobiologica e neuropsicoanalitica dell’inconscio, così come del nuovo approccio alla nozione di “evento psichico” che ne è seguito. In effetti, già ne La visione di parallasse egli aveva evidenziato l’importanza dei più recenti contributi neuroscientifici alla comprensione della psiche e delle sue ferite. Tuttavia, Žižek rimane decisamente scettico sul fatto che queste nuove elaborazioni possano sostituire le definizioni freudiane e lacaniane dei traumi.

Secondo Žižek, gli approcci contemporanei al trauma ignorerebbero quella che è la tesi in assoluto più importante di Lacan: il trauma ha già da sempre avuto luogo, vale a dire: prima di qualsiasi shock o di qualsiasi ferita empirica o materiale. Uno specifico trauma può accadere solo perché il trauma originario è già da sempre avvenuto. Eccola, la struttura apocalittica del trauma. Come è noto, apocalyptô, in greco, significa letteralmente “rivelare” e “svelare”. Questa parola rinvia inoltre alla distruzione e alla catastrofe. Motivo per cui l’apocalisse è un annientamento veritativo, un crollo di tutte le cose che veicola una qualche pienezza di senso. La struttura apocalittica della rivelazione è la struttura trascendentale della distruzione. Se qualcosa come un evento esterno o contingente può accadere ed essere vissuto come tale, la ragione sta nel fatto che l’inconscio è strutturato dall’archeo-trauma. L’accidente esterno è sempre una rivelazione di ciò che esso distrugge internamente. È, questa, l’economia apocalittica del Reale. L’approccio neuroscientifico e neuropsicoanalitico al trauma non intaccherebbe minimamente la legge del già da sempre. Non sarebbe altro, in altre parole, che una ripetizione di ciò che è già avvenuto e che è stato detto.

Sostenere che il trauma ha già avuto luogo significa sostenere che esso non può accadere per puro caso e che ogni accidente o shock empirico danneggia un soggetto già in precedenza ferito. In Freud e Lacan è evidente il rigetto del caso. Ecco qual è la tesi che qui intendo difendere, come a far da eco al mio libro Les nouveaux blessés, libro che — tra l’altro — viene discusso in maniera approfondita nell’articolo di Žižek. Intendo rimarcare il fatto che esiste un “al di là del principio del già da sempre”: un trauma può verificarsi senza dover fare riferimento ad alcun “già da sempre”, un accidente puramente contingente, come sostengono i neurobiologi. Si tratta di qualcosa che Lacan non avrebbe mai detto, qualcosa che sfugge all’autorità del già da sempre e che dà una chance al caso.

A mio avviso, la distinzione lacaniana tra Reale e Simbolico deriva da una rielaborazione della concezione freudiana dell’evento psichico come punto di incontro tra due significati dell’evento: l’evento inteso come interna determinazione immanente (Erlebnis) e l’evento come incontro con qualcosa che proviene dall’esterno (Ereignis). Perché divenga un evento psichico vero e proprio, un accidente deve attivare la storia psichica e il determinismo del soggetto. L’ Ereignis deve unirsi all’Erlebnis. L’esempio più evidente di una simile definizione dell’evento psichico è quello, spesso riferito da Freud, della ferita di guerra. Quando un soldato, al fronte, viene traumatizzato da una ferita — o dallo spavento subito —, sembrerebbe proprio che il conflitto reale che lo vede coinvolto nel presente sia la ripetizione di un conflitto interno. Lo shock è sempre un “promemoria” di uno shock anteriore. Freud avrebbe quindi considerato il disturbo da stress post-traumatico come l’espressione dell’essere già da sempre presente del conflitto o del trauma.

I neurobiologi, al contrario, sostengono che un trauma grave (1) è fondamentalmente un Ereignis, e cioè qualcosa che accade per puro caso dall’esterno, e così (2) demolisce la distinzione Ereignis/Erlebnis nella misura in cui recide il soggetto dalle sue riserve di memoria e dalla presenza del passato. Dopo un grave danno cerebrale — che produce sempre una serie di disconnessioni e buchi all’interno della rete neurale — quello che emerge è un nuovo soggetto: un soggetto senza alcun riferimento al passato o alla sua identità precedente. Una disconnessione neurale non riattiva nessun conflitto anteriore. Il soggetto post-traumatizzato, infatti, disconnette la struttura del già da sempre. Il soggetto post-traumatizzato è il “mai più” del già-da-sempre. In questo senso, la neurobiologia rompe il loop apocalittico.

Possiamo pertanto sostenere che una disconnessione neurale non può rientrare all’interno di nessuno dei tre termini che formano la triade lacaniana dell’Immaginario, del Simbolico e del Reale. E questo perché una simile triade è radicata nel principio trascendentale del già da sempre. Propongo di introdurre una quarta dimensione, una dimensione che potrebbe essere chiamata “materiale”. Da un punto di vista neurobiologico, il trauma andrebbe considerato come un’interruzione materiale, empirica, biologica e priva di senso del trascendentale stesso. Ecco perché i soggetti post-traumatici sono esempi viventi della pulsione di morte e della dimensione al di là del principio di piacere, dimensione che né Freud né Lacan sono riusciti a localizzare e a illustrare. Al di là del principio del già da sempre: ecco dove sta l’autentico al di là del principio del piacere.