Le due Malinconie


Riceviamo da Darian Leader – psicoanalista britannico, membro fondatore del Centre for Freudian Analysis and Research e past-president del College of Psychoanalysts – questo importante intervento sulla metapsicologia del lutto e sulla melanconia. Lo pubblichiamo ringraziando l’autore per aver voluto contribuire allo sviluppo del nostro dibattito.
Traduzione di Franco Lolli e Cristian Muscelli


Nella raccolta di saggi L’écriture melancolique, Franz Kaltenbeck si interroga su quale sia il punto a partire dal quale il lavoro di scrittura smette di funzionare come strumento positivo per alcuni soggetti melanconici e si trasforma in uno strumento di tortura o in un abisso[1]. Dobbiamo riconoscere l’originalità delle sue riflessioni, che mettono in questione il fatto che, nella letteratura psicoanalitica, lo scrivere in quanto tale sia quasi sempre considerato uno strumento terapeutico, mai controindicato e mai visto come, in sé, un possibile canale verso la distruzione e persino verso il suicidio.

Negli esempi che discute, Franz sottolinea la distinzione tra l’oggetto, l’io e l’altro, non di rado confusi nei resoconti analitici sulla malinconia, e specifica come la famosa ‘ombra dell’oggetto’ possa cadere sull’io e sull’altro, facendo collassare quel che spesso costituisce una triangolazione accuratamente conservata. Vorrei sottolineare un altro aspetto del processo melanconico, prendendo ispirazione da una notazione che Franz ha fatto molti anni fa in uno scritto su Joyce. Il contesto riguarda la distinzione tra lutto e melanconia: cominciamo da questo punto.

Freud ha distinto la metapsicologia del lutto da quella della melanconia, innanzitutto nei termini di una diversa dinamica delle rappresentazioni di parola e di cosa. Nel lavoro del lutto, si assiste a un passaggio dalle rappresentazioni di cosa alle rappresentazioni di parola, facilitato dal sistema preconscio, il che comporta un processo di frazionamento – processo che Freud ha chiamato ‘lavoro sui dettagli’ dei ricordi, sulle speranze e sulle aspettative legate all’oggetto perduto. Per il soggetto melanconico non è possibile accedere alle rappresentazioni di cosa attraverso le rappresentazioni di parola, poiché il passaggio attraverso il sistema preconscio è bloccato. È possibile ipotizzare, pertanto, che il soggetto malinconico rimanga bloccato su un problema che riguarda il riferimento: come riuscire a connettere le rappresentazioni di cosa con le rappresentazioni di parola o come passare dalle une alle altre? Ecco perché nella malinconia è frequente la creazione linguistica, così come è cruciale il problema di come far sì che una parola tocchi una cosa.

Lo scrittore Daniel Defoe ha magistralmente affermato qualcosa del genere nel 1705, nel suo pamphlet The Cogitator, quando ideò una macchina per curare la malinconia collegando la mente direttamente con gli oggetti del pensiero: ‘Mantenere il pensiero in diretto collegamento con gli oggetti’. Come Freud, egli aveva intuito che al centro della malinconia c’è un problema di linguaggio e di riferimento all’oggetto.

Notiamo tutto ciò, ad esempio, non tanto nelle creazioni letterarie quanto nel modo in cui, nei soggetti malinconici, ritorna continuamente una piccola manciata di ricordi, come per cercare di afferrare qualcosa, per appuntare qualcosa, per rendere possibile un riferimento. L’esempio che Franz dà di quel che egli chiama ‘atto deittico’ di Stifter, che indica una spiga di grano ma sua madre non reagisce e non dice niente, potrebbe rappresentarne una buona illustrazione. Questo sforzo di indicare – che può implicare la massima violenza – a volte è stato forse confuso dai post-freudiani con il sadismo orale.

Per sviluppare questo punto, ripercorriamo quattro degli elementi chiave del processo del lutto. Innanzitutto, la cornice. Una cornice mette in evidenza la natura artificiale di ciò che stiamo guardando. È ben noto che un segnale di avvio del lavoro del lutto consiste nella comparsa di motivi e figure che indicizzano una certa artificialità legata all’oggetto perduto. Possono comparire su di un palcoscenico, oppure essere abbigliati in maniera strana o con colori artificiali. La trasformazione è la cifra di una simbolizzazione, o, più precisamente, del fatto che un lavoro di significazione ha preso piede, un po’ come la giraffa sgualcita del piccolo Hans, e questo comporta un rimescolamento simbolico e una nuova articolazione.

A questo punto, le rappresentazioni d’oggetto sono viste esattamente come tali, come rappresentazioni: il loro statuto è cambiato, e questo spiega anche il loro tratto di artificialità. Per citare il classico esempio proustiano, si penserà alla persona perduta e si sentirà il dolore della perdita camminando sulla pietra incrinata del pavimento o inzuppando la madeleine nel tè, piuttosto che in ogni momento della vita da svegli.

Di conseguenza, ora i morti abitano uno spazio diverso, che non è più lo spazio della vita ma lo spazio simbolico dei segni. La costruzione di una scena ha riposizionato i morti, come chiaramente illustrano alcuni sogni, nei quali lo spazio empirico della persona amata perduta è stato letteralmente trasformato.

Secondo elemento: può esserci del materiale – di solito, un sogno – in cui qualcuno uccide il morto. Questo atto va compiuto, poiché i morti devono morire due volte, come i rituali religiosi e la cultura popolare insegnano. In diversi film thriller o horror, proprio quando ormai pensiamo che sia stato ucciso, il cattivo ritorna e deve essere ucciso di nuovo! La violenza delle regole del lutto e della sepoltura, con atti di aggressione intrecciati a parole di amore, ha sorpreso più di un antropologo. Una volta che i morti sono stati uccisi, bisogna impedir loro di fare ritorno: da qui, l’uso di bare e persino il correre a zigzag lontano da una tomba, per non essere inseguiti.

In terzo luogo, come ha sottolineato Lacan, deve esserci separazione tra l’oggetto e il posto dell’oggetto, o tra la questione del chi è stato perduto e la questione del cosa si è perso in chi è stato perduto. È solo dopo aver realizzata questa separazione che un nuovo oggetto può iniziare a funzionare, e la fantasia, in un certo senso, può essere ripristinata nella sua efficacia. Un segno clinico di tutto ciò può essere considerato il modo in cui la persona che fa il lutto, ad un certo punto, viene colpita dalla stranezza del suo amore perduto, non riconoscendo una foto o sentendo che è come se in realtà non avesse mai conosciuto colui che ha perduto. Un’intera produzione televisiva è costruita intorno a questo argomento: uno dei partner della coppia realizza improvvisamente che non conosce veramente l’altro – che sia vivo o morto – il quale potrebbe essere un assassino o avere un qualche segreto inconfessabile. Nel lutto questo processo può svilupparsi ma senza uno specifico contenuto: non c’è alcun terribile segreto, solo una disgiunzione rispetto a ciò che si pensava di sapere.

Questa separazione è resa possibile dall’instaurazione di una corrispondenza: una perdita deve essere messa in relazione con un’altra perdita – il che spiega perché una persona che ha subito un lutto recente deve parlare di una perdita avvenuta molto prima di quella più vicina nel tempo e anche perché un bambino molto piccolo è incapace di fare il lavoro del lutto. Freud, Klein e Lacan sembrano essere d’accordo su questo punto: per fare il lutto, occorre avere già perso qualcosa, e stabilire corrispondenze tra le due differenti perdite.

Quarto aspetto: la differenziazione tra il chi e il cosa si era per l’oggetto perduto, questione affrontata da Erikson e successivamente da Lacan. Il processo di elaborazione del lutto comporta un coinvolgimento a questo livello, che può certamente mettere in dubbio l’identità di chiunque. Dopo la morte di suo marito, Joan Didion descrive la perdita del senso di sé, come se avesse realizzato di essersi da sempre vista attraverso gli occhi di lui. Oppure, la regina Vittoria, che aveva sempre ipotizzato di non aver contato nulla per sua madre, dopo la morte di quest’ultima troverà tutti i ricordi e gli appunti che la madre aveva accuratamente salvato a dimostrazione del suo amore per la figlia. Fu solo allora che le fu possibile vedersi come la devota e amabile figlia di suo marito Albert, che lei descrisse come una ‘madre’. Tali riconfigurazioni possono danneggiare profondamente l’identità di colui che è in lutto.

Consideriamo ora come questi quattro processi si svolgono nella melanconia. Primo elemento: la cornice. Il punto più evidente da rilevare è che c’è un problema nella costituzione della cornice, nel senso che le rappresentazioni dell’oggetto perduto non sono vincolate in un insieme. Come affermava Franz: «Nella parte finale di Lutto e melanconia, Freud pone la questione – della quale i clinici ammettono la rilevanza – del perché la libido della persona melanconica è incapace di ritirarsi dall’oggetto perduto. Risposta: la rappresentazione inconscia dell’oggetto è ridotta: è “rappresentata da innumerevoli impressioni individuali (tracce inconsce dell’oggetto)”. È come se il soggetto non fosse in grado di raccogliere queste “innumerevoli impressioni individuali”, come se mancasse il significante per riunirle insieme e farne una rappresentazione. E quindi il soggetto non può separarsi dall’oggetto»[2].

‘Riunire rappresentazioni’ può essere inteso come il raccoglierle in un insieme, indicizzato da alcune rappresentazioni elettive. In assenza di tutto ciò, quando ci si trova a calpestare la lastra di pietra incrinata, non è possibile sperimentare il dolore della perdita e della memoria, poiché ogni pietra è una lastra di pietra incrinata. Senza questo processo teorico di raccoglimento, il soggetto continua a essere perseguitato dall’oggetto perduto. Possiamo illustrarlo con le parole di un soggetto malinconico, che – nell’evocare quanto per lui sia stato decisivo il momento della perdita – dice: “Da quella sera il passato è anche il presente”; oppure, un altro soggetto che afferma: “Non posso dire la verità perché ci sono dentro”.

Possiamo notare l’omologia con il concetto di Lacan della metafora paterna, nella quale i significanti del desiderio della madre sono riuniti in un insieme, con una significazione ad esso collegata e un significante per designarlo. Senza questo processo, si riscontra la difficoltà di contenere la soggettività materna, ben nota in particolare nelle schizofrenie.

In secondo luogo, uccidere i morti. Bene, anche questo è un problema, poiché il soggetto malinconico non può uccidere i morti in quanto è già morto con loro. Ed è tale condizione a creare quel che viene spesso vissuto come un terribile senso di impossibilità: il soggetto si trova in due luoghi contemporaneamente, il mondo dell’interazione e del commercio umani e il mondo dei morti. Ci può essere un terribile auto-rimprovero di non saper far coincidere questi mondi, un’auto-accusa che può anche essere intesa come il rimprovero di non essersi completamente riuniti con l’oggetto. Le parole falliscono in questo momento lancinante.

In terzo luogo, separare l’oggetto e il luogo vuoto dell’oggetto. Anche questo non è affatto semplice, poiché una delle caratteristiche della malinconia è proprio l’equivalenza dell’oggetto e del luogo dell’oggetto. Ecco perché una certa situazione empirica può essere identificata con il buco o con il vortice che inghiotte la vita del soggetto. Diversamente da quanto accade nel processo di costituzione dell’oggetto descritto da Lacan, che comporta l’istituzione del suo posto vuoto, l’oggetto e il luogo vuoto sono la stessa cosa.

Infine, la questione di cosa siamo per l’Altro. Si tratta, per il soggetto malinconico, del problema nella costruzione dell’ideale dell’io. Quel che risulta complicato è l’iscrizione del punto da cui egli possa essere visto come amabile. Come ha detto un soggetto, “cerco il punto da cui potrei essere conosciuto”, uno sforzo reso ancor più difficile dallo scambio di cure così frequentemente descritto da persone malinconiche nella loro infanzia. Nelle parole di un altro soggetto malinconico: “non ero il riflesso di nessuno”.

Ora, questo è forse il punto di biforcazione in base al quale possiamo distinguere due forme di malinconia. Nella prima forma – che è la più nota – il soggetto è colpevole e comunica questo senso di colpa ripetutamente. In questo caso – è importante notare – il senso di colpa è più una messa in giudizio che un sentimento.

La persona può parlare all’infinito della sua colpa, del suo peccato, della cosa terribile che ha fatto. In tal senso, il verdetto è stato emesso. Cercare di persuadere il soggetto che non è colpevole, come a volte tentano di fare i clinici ben intenzionati, è un’operazione destinata al fallimento, in quanto può portare a tentativi di dimostrare il contrario. Si tratta, in effetti, di un senso di colpa che in qualche caso può essere spostato un po’, riconfigurato, ma non sradicato.

La seconda forma di malinconia è diversa. È la malinconia in cui il soggetto è sul banco degli imputati ma non è stato emesso il verdetto di colpevolezza. La vita della persona si svolge nell’incubo insopportabile dell’attesa della sentenza: una sentenza che non arriva mai, che è sempre all’orizzonte, sempre in procinto di condannarlo.

Si noti come entrambe queste situazioni ruotino attorno a un punto ideale. Nella prima forma di malinconia, il soggetto è designato come colpevole, mentre nella seconda forma la sentenza è in sospeso, motivo per cui l’ansia è più rilevante in questo quadro clinico.

Facciamo un esempio clinico, illustrato bene in un sogno. Il paziente è in piedi al centro della scena, e da qualche parte dietro di lui, nell’ombra, c’è una figura costretta a letto, l’uomo la cui perdita ne ha segnato irreparabilmente la vita. Un terzo uomo in costume teatrale entra con uno sguardo accusatorio: il paziente si alza e dice ‘questo è lui’, ma non è chiaro se il ‘lui’ si riferisca al paziente stesso, all’accusatore o all’uomo costretto a letto.

Il sogno si collega a una scena di cui il paziente aveva parlato quasi ogni settimana per diversi anni. Incontrando per la prima volta i genitori della sua futura moglie, aveva sentito la madre dire a sua figlia “non è un uomo cattivo, vero?”, frase a cui la sua fidanzata non aveva risposto. La mancata risposta faceva pensare a una conferma, sebbene non articolata e, secondo lui, non del tutto certa.

In un’altra scena, collegata alla sua infanzia, egli era stato responsabile di alcune piccole infrazioni compiute in classe. L’insegnante aveva chiesto chi ne fosse l’artefice e lui aveva risposto: “Sono stato me, signore”. L’insegnante, arrabbiato, lo ammonì per la sua grammatica – che in realtà non era errata – dicendogli che avrebbe dovuto dire “sono stato io, signore”.

Mentre parlava del sogno, ad essere davvero sorprendente era l’indeterminazione del referente in ‘questo è lui’ (un’espressione che egli definiva “espressione criptica”): l’ombra di una colpa ma senza un verdetto, senza una risposta. A chi riferiva il “lui”? Si riferiva forse all’accusatore, che gli ricordava uno zio che lo aveva rimproverato dopo la morte della madre di non aver “interpretato” il ruolo del figlio buono? Si riferiva all’uomo morente, che sentiva che lo aveva abbandonato? Oppure si riferiva a se stesso, come se avesse voluto usurpare il posto dell’uomo morente, una “vittoria da sogno che divenne reale”?

Potremmo pensare qui al famoso esempio lacaniano “sono stata dal salumiere”. In questa versione malinconica è da intendersi più come “è appena tornato dal tribunale”, con un’analoga mancanza di determinazione a livello del soggetto (shifter).

E, per dirla con il soggetto, “chi era la vittima qui e chi era l’accusato?” – come a svelare per un momento il meccanismo freudiano di auto-rimprovero, in cui l’accusa contro l’altro diventa un’accusa contro l’io. Senza risposta a queste domande, il paziente si è trovato in un limbo, sospeso sul banco degli imputati, con il verdetto di colpevolezza all’orizzonte.

Questa indeterminatezza era in netto contrasto con la madre stessa del paziente, che castigava suo figlio e lo incolpava della sua stessa esistenza: per lei, era “inevitabilmente cattivo” o semplicemente inesistente. Quando la donna usava la parola ‘noi’ – spiegava il paziente – “questo pronome non significava ‘io e te’, ma ‘io e il mio peccato'”. Al contrario, l’uomo morente nel sogno, in realtà, era stato per lui un salvatore, gli aveva offerto riconoscimento e amore, e dopo la sua morte il paziente si era sentito “visto” dai beni di quest’ultimo, come se gli strumenti del suo mestiere potessero restituirgli quell’immagine di se stesso che la madre gli negava. Descriveva la sua vita come un tentativo di cercare questi momenti in cui poteva riappropriarsi del riflesso che gli era stato strappato.

Occorre notare anche come la mancata risposta della fidanzata si sia fissata nella memoria: possiamo collegare questo fatto alla ricerca, presente in tanti casi di malinconia, di tribunali che possano ratificare la colpevolezza del soggetto. Come se alla domanda ‘Non è un uomo cattivo, vero?’, il coro rispondesse ‘Oh, certo che lo è’. Senza una simile risposta, il soggetto rimarrebbe sospeso tra l’accusa e il verdetto, proprio come mostra l’esperienza di questo paziente.

Anche l’auto-rimprovero era interrogativo. Nella sua infanzia si era infuriato contro l’uomo che lo aveva lasciato morendo – la figura costretta a letto nel sogno –, gridandogli “Perché mi hai abbandonato?”; ed ecco che ora poneva questa stessa domanda a se stesso – e con una certa ferocia – dopo che proprio lui aveva abbandonato i figli. Questo è stato l’auto-rimprovero più amplificato e insistente.

Cosa può dirci questa vignetta sulla seconda forma di malinconia? È difficile non vedere in essa la massiccia identificazione con l’oggetto perduto – l’uomo costretto a letto nel sogno – come una difesa contro la persecuzione di base della madre. Ma tutto ciò, naturalmente, complica il modello di Freud, nel quale è il meccanismo dell’identificazione stessa ad essere patologico, piuttosto che stabilizzante. Se ricordiamo qui l’enfasi di Franz sulla triangolazione, non è semplicemente perché l’oggetto perduto sommerge il piccolo altro, ma per il fatto che la persecuzione iniziale invade l’oggetto perduto: sicché, nel caso in questione, l’uomo morto diventa un altro rappresentante dell’accusa della madre e non un punto ideale. L’oggetto perduto, in senso stretto, perde la sua qualità di essere perduto.

Quel che distingue la prima dalla seconda forma di malinconia forse sta proprio qui: che l’oggetto perduto e l’ideale a volte coincidono – possiamo ricordare il modello di ipnosi di Lacan – e questo di per sé ha una funzione protettiva. Quando la dimensione dell’ideale dell’io risulta collassata o inesistente, ci troviamo nella prima forma di malinconia, in cui non c’è ambiguità sulla colpa e sulla dannazione del soggetto. Quando questa, invece, può costituirsi, per quanto temporaneamente o in misura episodica, ci troviamo nella seconda forma.

Passando ora alla questione del suicidio malinconico e della trasformazione di un’opera letteraria in un abisso, possiamo distinguere diverse forme di colpa e fallimento. A proposito dell’accusa di plagio nei confronti di Celan fatta da Claire Goll e commentata da Franz, possiamo ipotizzare che il problema non fu tanto l’accusa in quanto tale, quanto come questa abbia influenzato lo status del suo lavoro: come, cioè, l’opera è stata vista. E sebbene ci siano ovviamente grandi differenze tra lui e Foster Wallace, il senso di fallimento provato da quest’ultimo per quanto riguarda la struttura del Re pallido è forse legato a questo punto.

Un soggetto malinconico spiegava che, per lui, il momento di catastrofe soggettiva si è realizzato quando, ad un certo punto nella stesura del suo ultimo romanzo, “non sapevo più attraverso quali occhi avrei dovuto raccontare la storia”. Qui, sia il problema del trovare una struttura che quello del “avrei dovuto” sono ugualmente pertinenti. I cambiamenti della voce narrante possono essere intesi come cambiamenti nella struttura, nel senso del “di chi sono gli occhi attraverso cui” viene raccontata una storia. Senza voler generalizzare troppo su tale questione, questo mette a fuoco il problema nella costruzione dell’io ideale nella malinconia.

Il “dovrei” nella malinconia è un’aggiunta alla punizione, ma anche alla questione del di chi sono gli occhi o la voce attraverso cui il soggetto deve vedere o parlare. Ne deriva che la faccenda della voce narrante o poetica nella pratica della scrittura non è affatto periferica. C’è anche un ‘dovrei’ in questo caso, che a volte troviamo nella melanconia e che concerne il come si debba parlare dei morti. Il soggetto può descrivere un senso di dovere, di obbligo, di riconoscimento e di debito contratto con la persona morta, e questa è essenzialmente una questione di come si dovrebbe e si possa parlarne.

Un soggetto melanconico può rimproverarsi senza fine per non essere in grado di dire con esattezza qualcosa, una scena del passato, un momento di separazione, un’azione. Possiamo vedere tutto questo come un esempio dello sbarramento al passaggio tra rappresentazione di parola e rappresentazione di cosa ipotizzata da Freud, ma possiamo anche vedere come implichi questo dovere – e quindi il debito – nel parlare dei morti.

Il senso del debito, in questo caso, prende spesso la forma della colpa, e possiamo notare che alle forme di impossibilità descritte da Freud – che comprendevano sesso, riproduzione e mortalità – generative delle teorie sessuali infantili dei bambini, dobbiamo aggiungere quella del debito, altrettanto impossibile da pensare e inscrivere. A volte, il debito può essere interpretato nei termini di un dono; oppure i due termini possono essere differenziati, il che può essere utile in alcuni casi di malinconia.

Se tale questione esce dal discorso, il rischio di suicidio aumenta; come se fosse necessaria una dimostrazione, che non passa attraverso le parole, tanto orali quanto scritte. E quindi, uno dei compiti del lavoro analitico è quello di rimettere al centro il parlare della perdita piuttosto che il dimostrare nel reale l’impossibilità della referenza. Come diceva un soggetto malinconico: “Più e più volte sono spinto verso parole che sono come un ponte che non porta mai da un’altra parte”.

Ora, per concludere, un ultimo punto sulla trasformazione del lavoro. Ricordiamo l’osservazione di Franz sulla formazione di una scena nel lutto e nella malinconia e il problema del tenere insieme le rappresentazioni. Può esserci una differenza tra la pratica della scrittura e il libro in quanto oggetto costituito, come creazione, in un certo senso, di un insieme. Una volta che il processo di raccolta è stato compiuto (o, come più spesso accade, allorché si avvicina al suo completamento), il lavoro di scrittura può diventare qualcos’altro: qualcosa che non si è riusciti a fare. Come lo scrittore aveva detto in precedenza, “un altro progetto che non sono riuscito a completare”. Questo significa che il fallimento avviene a livello del tenere insieme le rappresentazioni.

Ciò che, a un certo livello, potrebbe essere visto come un progresso, rivela, su un altro, il suo rischio implicito: la potenziale creazione di una nuova incarnazione di un verdetto. Pertanto, la cosa auspicabile nel lavoro del lutto – la costruzione di una scena di rappresentazioni – forse è proprio quel che potremmo non augurarci in caso di malinconia, o almeno in certi casi, in certi momenti e in certe forme.

Senza voler semplificare eccessivamente, o essere troppo riduttivi, potremmo dire che clinicamente nella prima e classica forma di malinconia, nella quale un giudizio è stato emesso, i nostri interventi potrebbero eccedere in significazione – per cambiare il significato di una decisione o di un’azione, per esempio – mentre nella seconda forma, nella quale, al contrario, il giudizio rimane in sospeso, i nostri interventi dovrebbero, più che proporre un significato, puntare a mantenere la questione aperta, anche se questa postura comporta una implicazione dell’ansia.


Note

  1. Franz Kaltenbeck, L’écriture melancolique, Kleist, Stifter, Nerval, Foster Wallace’, Toulouse, Eres, 2020.  []
  2. Franz Kaltenbeck, Ce que Joyce était pour Lacan, Acheronta, 15, 2002, www.acheronta.org  []