«Già già già»: la plasticità al di là del trauma trascendentale?


Francesco Di Maio, PhD candidate in architetture e culture del progetto Università di Bologna – École des Hautes Études en Sciences Sociales ci ha inviato questa preziosa recensione al libro di Catherine Malabou e Slavoj Žižek, Il trauma: ripetizione o distruzione? Un confronto tra psicoanalisi, filosofia e neuroscienze (a cura di Luigi Francesco Clemente e Franco Lolli, Giulianova, Galaad 2022). Lo ringraziamo per aver voluto collaborare alla discussione su questo tema, proponendo spunti di riflessione davvero originali.


2007-2017: 10 anni intercorrono tra le due edizioni di Les Nouveaux blessés di Catherine Malabou [1]. Tra le due versioni non ci sono evoluzioni di tesi, per quanto il tono e lo stile dell’intero testo è stato ripensato dall’autrice. Cosa è accaduto? Ne ripercorre le vicende il recente libro curato da Luigi Francesco Clemente e Franco Lolli, Il trauma: ripetizione o distruzione? Un confronto tra psicoanalisi, filosofia e neuroscienze, edito dalle edizioni Galaad (14€, 107 pp.). Si tratta del volume che inaugura Nova Humana Materia, collana dell’associazione Litorale — Cultura, Ricerca e Formazione in Psicoanalisi, diretta, oltre ai due curatori del volume, da Samuele Cognigni, Cristian Muscelli e Antonio Tricomi.

Autore del libro, oltre alla filosofa francese, è Slavoj Žižek, di cui viene riportata la traduzione della recensione alla prima edizione di Les Nouveaux blessés e la serie dei testi di reazione di Malabou, da ultimo la prefazione alla seconda edizione del libro, che il testo dello psicoanalista sloveno ha suscitato. Per quanto quest’ultimo abbia ripreso il suo testo in libri successivi [2], non sembra ci sia stata poi un’ulteriore evoluzione da parte di questo. I temi e gli spunti riportati nei testi sono talmente vasti che né la curatela italiana del dibattito, tantomeno la recente recensione, può esaurire. Si spiega la dichiarazione programmatica della Presentazione dei due curatori di come «[q]uel che ne risulta non è un duello (che […] si conclude sempre con un morto) ma un duetto, un canto a due voci, l’intreccio di due melodie che, come in un pezzo contrappuntistico, si rincorrono» (p. 16). Dialogo i cui punti di vista epistemologico-disciplinare mostrano le aporie del caso, nonché dissonanze e xenocronie tra le voci. Ma perché queste sfasature?

Col sintagma “nouveaux blessés”, “nuovi feriti”, ci si riferisce ad alcune specifiche soggettività post-traumatiche: malattie degenerative, quali Alzheimer o Parkinson, oppure accidenti improvvisi di natura traumatica, quali il vivere un conflitto armato o subire delle violenze sessuali, producono dell’alterazioni neuronali nella vittima tali da mettere in discussione la continuità nella sua vita psichica. Si tratta di un punto di rottura tale che coluə cui ci si riferisce prima e dopo l’evento non sono più la stessa persona. La filosofa francese, come noto, nella sua opera di riflessione non ha fatto altro che lavorare costantemente sul concetto di plasticità, il quale permette di poter ripensare questi casi che si presentano al pensiero nella loro novità. Il termine, introdotto nelle lingue europee verso la fine del XVIII secolo, indica non solo la capacità di dare e/o ricevere forma (da cui la concezione tradizionale per cui la scultura è l’arte plastica per eccellenza), ma si riferisce anche alla cosiddetta ‘plasticità distruttrice’, alla plasticité, ovvero a una modifica morfologica di tipo esplosivo dovuta a un evento esterno (accezione che in italiano ritorna negli “esplosivi plastici” o “al plastico”). Dai primi studi in cui rileggeva la dialettica hegeliana attraverso questo affascinante concetto [3], la ricerca di Malabou è proseguita fin da subito in un dialogo con le neuroscienze, specificatamente con il paradigma epigenetico introdotto già negli anni ‘70: il nostro cervello non è un elemento preformato che contiene virtualmente tutti i suoi possibili sviluppi, ma la sua evoluzione plastica sarà dovuta a continue scelte e modifiche ancora impreviste [4].

Il portato filosofico di questa posizione e del problema di fronte cui i casi dei ‘feriti nuovi’ ci mettono, se pensato nella sua radicalità, è chiaro: che ne è dell’identità di una persona? Se per identità ci si riferisce a quello che in latino si indica con idem, ovvero a ciò che è e resta il medesimo nonostante si ponga nel divenire, allora questo non può essere altro che un effetto di senso prodotto da specifici dispositivi scritturali (a rigore, escluse alcune istanza teologiche, ci si riferisce sempre e comunque a un ipse e si dovrebbe parlare di ipseità). Pertanto, un Ereignis, un evento accidentale, può darsi e incorrere su qualcuno e portare a modifiche tali da far venire meno il nucleo identitario a lui sotteso, nonostante altre funzioni vitali del corpo possano procedere, seppur anch’esse alterate. Il portato legale di questa concezione, almeno alla luce dei suoi testi editi in italiano, non sembra essere stato problematizzato dall’autrice. Non sorprende in ogni caso come, negli anni successivi ai testi sui nuovi feriti, Malabou abbia teoricamente avanzato una critica teoretica al concetto di preformismo [5] e rivolto le sue attenzioni politiche all’anarchismo, da intendere fin nella sua origine etimologica in ‘assenza di principi’ da sempre già dati [6], in alleanza con alcune voci recenti del trans-femminismo queer [7].

La proposta filosofica di Malabou sui ‘feriti nuovi’ viene riassunta nei suoi passaggi fondamentali nel volume dal breve testo del 2011 Sofferenza cerebrale, sofferenza psichica e plasticità (pp. 17-33). Žižek mostra come, secondo la sua prospettiva freudo-lacaniana, i nuovi feriti non siano tanto un’emersione recente, quanto l’ultimo epigono della rottura epistemologica del soggetto cartesiano. Infatti, in Descartes e il soggetto post-traumatico del 2008 (pp. 35-72) il soggetto post-traumatico sarebbe specificatamente un soggetto “occasionalista”, malebranchiano. Si tratta di una metafisica a tre sostanze in cui quella divina media tra quelle pensante ed estesa. La res cogitans è un meccanismo eternamente in ritardo nei confronti della realtà esterna e un Dio orologiaio interviene costantemente affinché le due si accordino. Pertanto, per il filosofo sloveno l’identità della vittima dei traumi non va certo ritrovata in un io o in un , quanto nelle condizioni trascendentali di emersione del soggetto stesso. In questo caso, la soggettività emerge a partire dal rapporto tra la realtà esterna e le dinamiche di godimento a esso sottese. Si tratta quindi dell’articolazione del registro immaginario e simbolico nei confronti di quello del reale. Per questa impostazione l’evento traumatico correlato all’istanza del soggetto post-traumatico non sarebbe un ‘completamente altro’ che avviene improvviso, non un Ereignis, bensì un Erlebnis, ovvero un determinazione interna immanente(p. 53), una possibilità di reazione del soggetto stesso. Paradigmatico da parte del filosofo sloveno è l’attentato terroristico dell’11 settembre che, per quanto improvviso, non è avvenuto inaspettatamente, in quanto l’immaginario statunitense era saturo di attentati terroristici e di questi sognava (p. 38). Secondo Žižek, il “soggetto post-traumatico” conserva ancora un’identità, che va individuata non in un’istanza specifica, ma nella correlazione tra l’evento (del) reale e il godimento, ovvero nelle condizioni trascendentali di reazione già da sempre costituite. Non si tratta quindi di un’esplosione distruttiva, quanto nella ripetizione dell’evento stesso che, rielaborato après-coup, può riassumere un nuovo significato in una dimensione di senso, seppur sempre in ritardo. Il soggetto post-traumatico è il soggetto moderno, ovvero il soggetto barrato rispetto al suo godimento, così come descritto dalla psicoanalisi lacaniana.

Ed è proprio su Lacan che si innesta la risposta di Malabou, “Padre, non vedi che brucio?”: Žižek, la Psicoanalisi e l’Apocalisse del 2015 (pp. 73-92). La prima versione del suo testo, non riportata in quella poi tradotta in italiano, canzonava lo psicoanalista proprio su questo essere “già accaduto” del trauma: «Lacan’s most fundamental statement: trauma has always already occured. A specific trauma, such or such empirical shock, may happen only because a more profound and originary trauma, understood as the Real or as the “transcendental” trauma, has always already occured. Trauma had always already happened. Already always already. Lacan had already said always already. The new approach of trauma would only be a confirmation, and not a destitution, of the always already. It would be a mere repetition of what has already occurred and been said»[8]. Per questo orientamento psicoanalitico il soggetto post-traumatico è da identificarsi in un trauma trascendentale, da sempre avvenuto, e di cui gli eventi accidentali non sono altro che particolari possibili. La posizione freudo-lacaniana da cui Žižek non sembra volersi allontanare rispecchia quella del soggetto post-traumatico che egli stesso dipinge, in quanto l’attaccamento alle proprie posizioni teoretiche e pratiche è analogo a quelle traumatiche descritte per le vittime. Forte delle analisi di Freud del sogno “bambino che brucia” del Capitolo VII della Traumdeutung e del commento del Seminario XI di Lacan (pp. 79 ss.), Malabou ribadisce che il concetto di tyche lì ripreso non sia una rottura radicale, ma una variazione di movimento pur sempre prevista dal processo del automaton. Detto in altri termini: il “reale” di cui parla Žižek non è il “reale”, un reale per così dire puro, ma una forma di reale immaginario. Il trauma non viene concepito in fondo come un evento di novità assoluta tale da mettere in discussione l’articolazione stessa dei tre registri, bensì di un evento pur sempre preventivato dagli stessi. Volendo essere cinici, si può vedere nella descrizione del trauma “già avvenuto” di Žižek quello di una predisposizione, se non di un richiamo. Sarà forse una cacopedia di chi scrive, un’esagerazione, ma un’analisi simile non si presta facilmente a giustificare la violenza subita e, di conseguenza, scagionare chi l’ha applicata? “L’ha provocato” — o, meglio, “se l’è provocato” — non è la traduzione de “è il suo godimento”?

Chiaro è quindi il motivo per il quale Malabou è costretta a proporre un quarto registro — ma sarebbe meglio dire un registro zero, il grado zero dei registri —, di natura ‘materiale’, un «inconscio cerebrale, irriducibile alla triade lacaniana […]» (p. 52), una «quarta dimensione, una dimensione che potrebbe essere chiamata “materiale”» (p. 76). Seppur in questi anni abbia già preso distanza dal suo maestro Jacques Derrida, l’analisi di Malabou continua a mostrare continuità e dialogo. Il concetto di plasticità muove le stesse critiche sia al trauma trascendentale à la Žižek, così come le muoveva al “messianismo senza messia” di Derrida. Infatti, questo, in quanto spazio di possibilità per e dell’avvenire, al di là dell’intenzione del suo autore, risultava problematico proprio sull’apriorità e i limiti di questo spazio stesso, se da intendere come già da sempre dato e stabilito o meno. Qui la plasticità si pone come elemento di messa in discussione dell’articolazione stessa delle strutture, da una parte contro uno strutturalismo “fissista”, quale sembra riprodursi tramite (un certo) Lacan nel dibattito con la scuola di Lubiana, dall’altra invece in continuità con lo spirito critico del post-strutturalismo, che non fa altro che portare alle estreme conseguenze alcuni presupposti presenti già in Saussure, quale l’arbitrarietà dei Significanti, ovvero le contingenze morfologiche. Da questo punto di vista, un lavoro sulla plasticità nel tardo e nell’ultimo Lacan e sul reale del corpo è ancora tutto da scrivere, certo forte delle distanze critiche offerte proprio dalla filosofa francese.

Due punti per concludere. Nella Prefazione alla seconda edizione de Les nouveaux blessés, con cui il libro si chiude (pp. 93-104), Malabou esplicita il fine sotteso a tutta la sua ricerca: «In tutto il mio lavoro, ciò che provo a mostrare è che non esiste nulla di indistruttibile, nulla di indecostruibile» (p. 102). Negli ultimi anni della sua produzione Derrida ha esplicitamente tematizzato alcune figure dell’indecostruibile, tra cui la crudeltà, la giustizia, la chora. Si tratta di istanze positive a partire dalle quali l’apertura degli spazi di possibilità si danno soltanto a posteriori, a seguito del loro darsi gestuale. Domanda: non resta, in fondo, la plasticità stessa l’ultimo baluardo della decostruzione stessa? e se così, e se il fine è mostrare che non vi alcunché di indecostruibile, la plasticità si pone come l’unico nome dell’indecostruibile e dunque suo contraddittorio dialettico?

Per concludere: il concetto di trauma è stato il paradigma delle scienze umane degli ultimi decenni, fino al suo abuso e chiusura politica. Al riguardo mi limito a ricordare, almeno per quanto riguarda gli studi italiani, i lavori di auto-critica di comparatistica e di semiotica portati avanti da Daniele Giglioli e Valentina Pisanty. Con la raccolta qui proposta, nei rimbalzi tra Malabou e Žižek, si insinua forse proprio la possibilità di un superamento del paradigma vittimario. Se la plasticità è sì certo l’esplosione imprevista, non si ha da dimenticare che essa è anche la capacità di dare e ricevere una nuova forma: che la plasticità possa essere la via per una nuova forma di soggettività al di là del trauma?

Castiglioncello, luglio 2022


Note

  1. Catherine Malabou, Les Nouveaux blessés: de Freud à la neurologie: penser les traumatismes contemporaines, Paris: Bayard 2007; n. ed. Paris: puf 2017. Non vi è ancora un’edizione italiana dell’opera.  []
  2. Cfr. Slavoj Žižek, Vivere alla fine dei tempi (2010), trad. it. di Carlo Salzani, Firenze: Ponte alle Grazie 2011, pp. 404-35; Id., Disparità (2016), trad. it. di Valentina Paradisi, Firenze: Ponte alle Grazie 2017, pp. 449-54.  []
  3. Ead., L’Avenir de Hegel: Plasticité, Temporalité, Dialectique, Paris: Vrin, 1996, anch’esso ancora inedito in italiano. Esiste però l’edizione italiana di Jacques Derrida, Il tempo degli addii. Heidegger (letto da) Hegel (letto da) Malabou (1998), ed. it. a cura di Graziella Berto, Milano-Udine: Mimesis 2006, recensione al libro, poi apposta a prefazione dell’edizione inglese del libro della sua tesista. Cfr. Id., A time of farewells: Heidegger (read by) Hegel (read by) Malabou, trans. J.D. Cohen, in C. Malabou, The Future of Hegel: Plasticity, Temporality and Dialectic, London-New York: Routledge, 2005, pp. vii-xlvii and 194-198. Da segnalare come la ricezione dei lavori della filosofa filtri in altri terreni linguistici tramite la recensione, quasi a suggerire, come nel caso qui recensito, un legame tra la plasticità e questo genere letterario.  []
  4. C. Malabou, Cosa fare del nostro cervello? (2004), trad. it. di Elisabetta Lattavo, rev. Giorgia Biolghini, Roma: Armando 2007.  []
  5. Ead, Divenire forma: Epigenesi e razionalità (2014), trad. it. di Antonio Frank Jardilino Maciel, rev. Salvatore Tedesco, Milano: Meltemi 2020.  []
  6. Ead., Au voleur ! Anarchisme et philosophie, Paris: puf 2022.  []
  7. Ead., Il piacere rimosso: Clitoride e pensiero (2020), trad. it. di Linda Valle, pref. Jennifer Guerra, Milano-Udine: Mimesis 2022.  []
  8. Cfr. Ead., Post-Trauma: Towards a New Definition?, in Tom Cohen (ed.), Telemorphosis. Theory in the Era of Climate Change, vol. 1, Ann Arbor: Open Humanities Press, 2012, p. 226.  []