Ringraziamo Fabrizio Leone, docente di Filosofia e Scienze Umane al Liceo “Stabili-Trebbiani” di Ascoli Piceno e membro dell’associazione Blow-up di Grottammare (AP), per la recensione del libro Epidemic di Antonio Tricomi.
Di un libro che mettesse a tema l’epidemia e cercasse di collegarla con la storia culturale politica e letteraria della nostra tradizione si sentiva il bisogno. A rispondere a questo bisogno è senza dubbio Epidemic di Antonio Tricomi (critico letterario e cinematografico oltre che docente alla scuola secondaria e all’università) che ha come sottotitolo l’inquietante Retroversioni dal nostro medioevo. Un sottotitolo che a volerlo prendere sul serio, e siamo sicuri che l’autore l’abbia scelto per fare sul serio, è già ricco di implicazioni problematiche. Da un lato la retroversione, un muoversi all’indietro che non è propriamente un retrocedere, un tornare indietro, ma una contrazione, una contorsione, un rovesciamento che costringe a volgersi all’indietro, impedisce di guardare avanti e porta ad una situazione di stallo. Dall’altro il medioevo chiamato in modo provocatorio e perturbante come nostro, un periodo di mezzo indefinito tra qualcosa e qualcos’altro, un potenziale sonno della ragione nel quale si rischia di sprofondare o dal quale bisogna cercare di uscire. Proprio per evitare di finire irrimediabilmente in questo gorgo, l’autore allora analizza una serie di epidemie letterarie che sono articolate intorno a pestilenze e contagi cercando un filo, un percorso che possa gettare luce sulla nostra attuale condizione di protagonisti (involontari, innocenti?) di una pandemia mondiale. Entrando nei meandri del libro di Antonio Tricomi queste opere viene voglia di leggerle o rileggerle tutte, per trovarvi indicazioni, spunti e nuovi strumenti da usare per l’interpretazione della nostra situazione attuale. Oggi gli appestati siamo noi e per davvero, non è un sogno, non è un romanzo, non è un film e non è nemmeno un incubo.
Ma il testo non è semplicemente una carrellata, una rassegna dei contagi raccontati nella cultura moderna. È una sorta di guida che permette al lettore di individuare delle strade da percorrere. Innanzitutto sul piano interpretativo. La prospettiva dell’autore si manifesta gradualmente tanto che al di là delle indicazioni della quarta di copertina il lettore è libero di perdersi, o di ritrovarsi, da solo, nel percorso di ricerca disegnato dal testo costruendo autonomamente le proprie ipotesi di lettura. Solo nei due capitoli finali Tricomi esce allo scoperto attraverso una ingegnosa soluzione metaletteraria, “non per ricavarne il futile piacere di un gioco fine a se stesso, ma per abbozzare”, come afferma egli stesso, “una dichiarata mise en abyme dell’intero libro”, tirandosi in causa come membro di quella classe intellettuale borghese giustamente criticata nei capitoli precedenti. Come se, percependosi parzialmente complice della decadenza e del degrado in cui siamo finiti anche a causa della pandemia, ci confessasse che il libro nasce dall’esigenza e dal dovere etico e civile di provare a perlustrare una strada di profonda trasformazione per uscirne.
Quali sono allora i punti di riferimento che possiamo provare a individuare per il nostro particolare viaggio nel libro? Il primo, chiaro e inevitabile, è che ogni società alleva al proprio interno il virus che può portare alla propria autodistruzione: il virus siamo noi, è dentro di noi, come si vede bene dall’analisi delle opere di Jack London o anche de “La peste” di Albert Camus dove emerge la dimensione endogena della malattia, che nasce dalle viscere stesse della terra. Il secondo è che storicamente tra ‘800 e ‘900 uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro dell’apocalisse non quello del comunismo. La nobiltà vede l’ascesa della borghesia come peste, come malattia, come minaccia, che può determinare la fine di un mondo culturale e politico, il proprio, basato su valori solidi e positivi. Ma anche la borghesia successivamente vede l’ascesa del proletariato come peste, come una invasione degli ultracorpi. Sia che venga intesa come punizione sia che venga intesa come opportunità di rigenerazione, l’epidemia è sempre una minaccia che mette a rischio l’integrità della propria organizzazione culturale, economica sociale e politica.
Siamo di fronte ad un’analisi “psico-politica” che si serve della letteratura come specchio degli umori delle classi dominanti che guardano in loro stesse e nelle società della propria epoca attraverso gli occhi dei propri esponenti più consapevoli. E cosa vedono questi occhi? Il quadro che emerge è quello, allarmante, di una inettitudine caratteriale, di un arroccamento nelle posizioni di potere e del terrore prodotto dall’idea di perderlo, di una incapacità di fronteggiare attivamente novità ed emergenze che richiedono cambiamenti profondi. Una patologia che si cronicizza, con un “malato” incapace di evitare la ripetizione di comportamenti errati e svantaggiosi, nonostante abbia a disposizione tutti i segnali per elaborare la necessità di una reazione diversa da quelle solitamente adottate. E allora, come si esce da una impasse così profonda, da questo nostro medioevo? Con le classi dominanti che si chiudono nel loro castello e si dedicano al più sfrenato edonismo, cieche e sorde ai problemi che hanno di fronte, nel vano tentativo di tener fuori “il flagello”, come nel racconto di Edgar Allan Poe del 1842, “La maschera della Morte Rossa”?
Gli esseri umani occidentali sono dunque condannati a restare intrappolati nei meccanismi di una società patriarcale e gerarchizzata?
A ridursi in misura più o meno intensa al modello weberiano di homo economicus calcolatore?
A identificarsi nel marcusiano consumatore anestetizzato o nel debordiano consumatore di illusioni?
Siamo tutti morti viventi, ciechi da sempre, irrimediabilmente individualisti e narcisisti?
Ecco forse sta proprio qui, in questa stessa serie di domande, se vogliamo intravederla, la speranza che ci suggerisce il percorso di ricerca di Antonio Tricomi che sottolinea l’urgenza di essere capaci di “un salto nel vuoto: nel non ancora delimitato territorio dell’utopia”, un’utopia nuova, tutta da inventare. Per fare questo è necessario uno sguardo “altro”.
L’occidente ha contagiato aggressivamente il pianeta imponendo il proprio modello di vita autodistruttivo, ma non tutto è occidente.
Confidiamo allora nella pluralità e nella diversità umane.
Confidiamo nei “nuovi”, esseri umani che reinterpretando le tradizioni che i “vecchi” consegnano loro, possono, loro sì, più liberamente di noi, aprire prospettive mai concepite prima.
Confidiamo nelle reti di relazioni portatrici di germogli di cambiamento e di trasformazione.
Confidiamo nelle parole di una donna, Margaret Mead, antropologa capace di inaugurare all’inizio del XX secolo orizzonti di ricerca radicalmente nuovi in un ambito di studi tradizionalmente maschile: “Mai dubitare che un piccolo gruppo di cittadini seriamente impegnati possa cambiare il mondo.”