È appena stato pubblicato da Mimesis L’appetito vien parlando. Un’esperienza di cura e di riabilitazione dei Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione, un libro curato da Patrizia Iacopini (psichiatra, Direttrice U.O.S.D. Centro Regionale DCA Azienda Sanitaria Territoriale Fermo-Coordinatrice rete DCA Regione Marche) e Franco Lolli (psicoanalista Alipsi e Espace Analytique, supervisore del Centro per la cura dei DCA di Fermo). Il testo documenta l’esperienza di cura (ambulatoriale e in day-hospital) di persone che soffrono di disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, definendo e descrivendo le specificità della pratica terapeutica e l’impianto teorico che la fonda. Pubblichiamo l’introduzione del libro, scritta da Franco Lolli.
Preferirei di no: è così che a ogni domanda, a ogni invito, a ogni interlocuzione, a ogni richiesta di spiegazioni rispondeva – gentilmente, ma in maniera perentoria – Bartleby, lo scrivano newyorkese la cui stravagante vicenda è raccontata da Herman Melville in uno dei più importanti contributi alla letteratura di ogni tempo. La sua storia è nota: assunto come copista da uno studio legale di Wall Street, Bartleby si presenta inizialmente come una figura anonima, scialba, ordinaria, squallidamente comune. Ma quando, inaspettatamente, comincia a rifiutare di svolgere compiti diversi da quelli per i quali era stato assunto, la sua presenza si impone all’interno dell’ufficio e diventa sempre più irritante, obbligando tutti, e soprattutto il suo datore di lavoro (che è anche il narratore del racconto), a interrogarsi sulle ragioni dell’assunzione di un tale inspiegabile atteggiamento e su come farlo desistere da un proposito così oppositivo.
Ogni tentativo di persuasione cadrà però nel vuoto: anzi, nel giro di poco tempo, Bartleby smetterà completamente di lavorare e si rifiuterà, sebbene scoperto a intrattenersi in ufficio negli orari di chiusura, di abbandonare lo stabile. Fino a che, per sbarazzarsi di quell’inquietante e invasivo ‘inquilino’, il capo si troverà costretto a vendere l’ufficio: i cui nuovi proprietari denunceranno la presenza di quella stravagante figura. L’arresto e il trasferimento in carcere segneranno gli ultimi momenti della vita di Bartleby, che si lascerà morire di fame rifiutando di alimentarsi.
Melville descrive in questo modo l’escalation di una postura innescata dal rifiuto inizialmente circoscritto a un compito preciso, per poi estendersi fino all’esito fatale e definitivo del rifiuto del cibo. Una progressione lenta ma inesorabile, in cui il no – pur se pronunciato con estrema cortesia – colonizza l’intera esistenza. Preferirei di no: una formula, questa, che riassume in una semplice ma enigmatica frase – I would prefer not to – una posizione indecifrabile, una graduale presa di distanza dal mondo dal quale, tuttavia, il protagonista non sembra volersi congedare in maniera brutale. Una formula che non è né pura negazione né, tuttavia, possibile apertura. Affermazione negativa, si potrebbe dire, prendendo a prestito il titolo di un articolo di Jean-Bertrand Pontalis, apparso nel 2000, nel secondo numero dei Libres cahiers pour la psychoanalise, e dedicato proprio a una profonda e acuta riflessione psicoanalitica sulla figura di Bartleby.In questo ossimoro (affermazione negativa, per l’appunto), Pontalis individua il tratto caratteristico di quella posizione paradossale che Melville attribuisce al personaggio dello scrivano; il quale, a un certo punto della sua vita, senza un motivo comprensibile, senza giustificazione alcuna, si rifiuta di compiere il suo compito di copista, pur rimanendo e volendo a tutti i costi rimanere nel suo luogo di lavoro. Non credo sia necessario scomodare il finale del racconto – il rifiuto del cibo – per scorgere nell’opposizione di Bartleby a ogni richiesta proveniente dall’altro, un’attitudine che non può non entrare in risonanza con la postura di fondo con la quale il clinico immancabilmente si deve confrontare allorché riceve persone che soffrono di Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione (DNA), in particolare (ma non solo) di tipo anoressico. In effetti, quando il sintomo alimentare non ha ancora mostrato il suo lato sadico, spietato, implacabile, e, di conseguenza, non c’è traccia di un’autentica richiesta d’aiuto, è con un atteggiamento alla Bartleby che, assai spesso, il curante si trova ad avere a che fare. Un atteggiamento che, come sottolinea Pontalis riferendosi a Bartleby, oppone una resistenza passiva a ogni azione proveniente dall’altro: il soggetto anoressico-bulimico, come lo scrivano di Melville, è immobile, statuario, indifferente ai consigli, insensibile al buon senso, noncurante delle convenzioni sociali, chiuso nel suo proposito impenetrabile (ignoto anche a se stesso), perseverante in quella posa disarmante, in bilico – aggiunge Pontalis – tra il comico e il patetico, tanto straniante e folle da rendere chi gli è intorno altrettanto folle e ridicolo. “La sua resistenza – scrive lo psicoanalista francese, sempre in riferimento a Bartleby – è così radicale, la sua risolutezza è così imperativa e allo stesso tempo calma – sono gli altri che si agitano in ogni direzione – che vedo piuttosto nel suo comportamento qualcosa che sembra aver a che fare con una professione di fede, il che incontestabilmente sottolinea l’aspetto affermativo della formula”. L’immobilismo di Bartleby, in effetti, produce agitazione negli altri, soprattutto nel suo capoufficio che si dà un gran da fare per convincere lo scrivano a interrompere quell’inspiegabile forma di sciopero esistenziale: come non vedere in questo immobilismo, in questa resistenza passiva uno dei tratti salienti dei casi di cui ci occupiamo?
Soprattutto quando riceviamo adolescenti, in effetti, ci troviamo di fronte a una posa quasi ascetica, distaccata, solenne, una postura adottata da chi, in piena luna di miele con il sintomo, ha trovato in esso la soluzione al proprio dolore (trasformandosi in una specie di custode del tempio, che giornalmente si dedica al rito quotidiano del conteggio di calorie, del calcolo delle attività di ‘smaltimento’ e delle pratiche necessarie a sfuggire al controllo dell’altro). E, dall’altra parte, osserviamo genitori, fidanzati, parenti, amici, tutti preoccupati, impauriti, disperati, alla ricerca di una via d’uscita da un incubo che solo loro sembrano avvertire come tale. Così come accade nel romanzo di Melville, quando, alle domande insistenti, ripetute più volte, anche in maniera gentile e cortese: “ma insomma, amico mio, ditemi, spiegatemi il perché”, Bartleby non risponde (perché, in realtà, neanche lui sa il perché del suo rifiuto), così, alle domande accorate dei genitori, degli amici, dei professori, di tutti coloro che chiedono “ma perché non mangi? Cosa ti manca? Cos’è che ti fa soffrire?”, l’adolescente non risponde, perché non sa cosa rispondere: può solo osservare il trambusto intorno a sé, manifestando quella sensazione di fastidio che disarma ulteriormente l’interlocutore. E così come Bartleby sa solo rispondere in modo automatico: “preferirei di no” – perché, scrive Pontalis, “egli è colui che dice questo, niente di più” –, così l’adolescente con DNA risponde puntualmente: “non lo so. Io sto bene. Sono gli altri che non mi lasciano in pace”. Perché, in effetti, davvero l’adolescente si sente finalmente bene; e si sente bene perché il sintomo funziona, lo distrae e lo occupa in pensieri che allontanano il nucleo angoscioso della propria esistenza.
C’è qualcosa di intrattabile in Bartleby, aggiunge Pontalis. Intrattabile è un termine che lo stesso Melville, in una lettera indirizzata a uno dei suoi editori, aveva utilizzato per definire la tendenza (presente in ogni essere umano) a fare una cosa o l’altra e farla a tutti i costi, costi quel che costi. Costi quel che costi: anche lasciarsi morire di fame. Fare una cosa e farla a tutti costi sembra essere il motto dell’adolescente con DNA. Intrattabile, pertanto, nel senso etimologico del termine: che non si può trahere, muovere, maneggiare. Il margine di negoziazione è minimo. Una “professione di fede” – come scrive Pontalis – che, nel nostro caso, attribuisce all’adolescente anoressico quel tratto ieratico e imperturbabile che sgomenta chi gli è intorno.
Fare una cosa a tutti i costi, costi quel che costi: è questo il marchio peculiare del comportamento di Bartleby che anche Adam Phillips sottolinea nel corso di una sua conferenza (On Eating, and Preferring Not To) tenuta a New York e successivamente pubblicata nel libro Promises, Promises. Essays on Literature and Psychoanalysis. Come già si evince dal titolo, l’interesse di questo breve saggio sta nella comparazione che l’autore propone tra l’atteggiamento del protagonista del romanzo di Melville e quello di chi soffre di disturbi alimentari. Phillips isola nella vicenda di Bartleby alcuni elementi specifici che non possono non richiamare alla mente aspetti salienti dei DNA. Particolarmente rilevanti sono le notazioni circa l’effetto che il rifiuto dello scrivano, incomprensibile e ostinato, determina in chi gli è intorno: soprattutto nel capoufficio – lo ripeto – il quale, mosso da un sincero legame di affetto, si interroga su come aiutare il copista. Il capo-narratore si dichiara turbato da quel flebile tono di voce simile al suono di un flauto con il quale Bartleby pronuncia il suo irremovibile preferirei di no. Sono diversi gli stati d’animo che il volenteroso amico attraverserà: stupore, sbigottimento, confusione, vacillamento, rabbia, senso di ingratitudine e di ingiustizia. Phillips, a questo proposito, sottolinea il potere performativo dell’enunciato di Bartleby: il suo preferirei di no modifica l’ambiente, agisce su chi lo circonda, crea quella ‘capacità di nuocere’ che Donald Winnicott attribuiva al sintomo. “Niente esaspera un uomo onesto più di una resistenza passiva”, commenta il narratore.
Qualcosa di analogo accade nel trattamento dei DNA: nel corso del quale, è assolutamente necessario tener conto di questa capacità del sintomo (che consiste, in fondo, in un non volere assoluto) di ‘intossicare’ l’ambiente: ‘intossicare’ l’ambiente nel senso che una postura così irragionevole dal punto di vista del senso comune, del principio di piacere e della logica della sopravvivenza è in grado di mettere in scacco l’operatore sprovveduto, di turbarne l’equilibrio psichico, di scuoterne le convinzioni più radicate, di minare la sua stessa ragionevolezza. Avere a che fare con una persona che vive nella negazione della vita (messa a repentaglio a livello biologico-funzionale) pone a confronto con la potenza di una pulsione distruttiva (autodiretta ed eterodiretta) che scompagina i riferimenti simbolici abituali. Occorre, allora, che l’operatore sia informato e consapevole degli effetti provocati dal contatto con pazienti che si presentano come intrattabili.
Ma chi sono gli intrattabili? Così risponde Pontalis: “coloro che non cedono sul proprio desiderio, ma più intrattabili ancora sono coloro che non cedono sul loro non-desiderio”. Straordinaria affermazione, questa, che non può non far drizzare le orecchie al clinico avvertito: intrattabile è, soprattutto, colui che non cede sul proprio non-desiderio, colui che, in altre parole, fa dell’assenza (o dell’indeterminatezza) del proprio desiderio il punto di resistenza massima della propria azione; che sacrifica, cioè, la propria vita su un altare disabitato e che fa di questo gesto insensato il fulcro di ogni futuro gesto. Ma attenzione: non cedere sul non-desiderio non significa che non c’è desiderio, ma che è sulla sua negazione (e sul disorientamento che ne consegue) che l’attività psichica ruota. Come la clinica dell’anoressia dimostra, non cedere sul fatto di non-avere-appetito non vuol dire non-avere-appetito, ma, al contrario, fare del rifiuto dell’appetito il fulcro intorno al quale gira la propria esistenza. E se volessimo utilizzare un’iperbole oramai abusata nel campo psicoanalitico, potremmo arrivare a dire che è la negazione dell’appetito a mantenere l’appetito stesso intatto, inalterato, indistruttibile; e che – come afferma Phillips – “è parte dell’idealizzazione dell’appetito il rifiutarlo”. Detto in altri termini, il miglior modo per assolutizzare il desiderio consiste nel negarlo: il desiderio puro, dunque, è quello che, essendo negato, non potrà mai essere soddisfatto. Torna, ancora una volta, e da un vertice di osservazione ulteriore, il concetto di affermazione negativa. L’appetito si afferma attraverso il suo negarsi. Il non cedere sul non-desiderio è il modo intrattabile di avere a che fare con il desiderio.
Di tale ossimoro (affermazione negativa) possiamo segnalare un’altra e importante declinazione. Come Bartleby, in effetti, le persone che soffrono di DNA (in particolar modo, coloro che – ripeto – presentano sintomi di tipo anoressico) non dicono esplicitamente di no. Non rifiutano l’invito di incontrare uno psicologo, un nutrizionista, uno psichiatra, insomma, un presunto esperto nel trattamento dei DNA. In effetti, sono lì, in studio, nel centro specializzato, in ambulatorio: presenti, anche se spesso portate a forza da genitori o da parenti preoccupati. Ma – bisogna essere chiari su questo punto – avrebbero anche potuto dire di no, opporsi tenacemente, fare di tutto per sottrarsi a quell’appuntamento: sappiamo bene, del resto, cosa succede quando abbiamo a che fare con pazienti con gravi patologie psichiatriche, quando, cioè, scatta per varie ragioni, la necessità di ricorrere a trattamenti sanitari forzati. E invece no, nel nostro caso, niente di tutto questo: le persone che incontriamo sono venute, forse controvoglia, probabilmente riluttanti e maldisposte, ma sono lì.
Eppure la loro presenza non è una vera presenza: o meglio, non è una presenza affermativa (di un bisogno, di una richiesta, di un contatto). È una presenza che si nega come tale. Un’affermazione (eccomi, sono qui!) negativa (ma non caverai un ragno dal buco!): abbiamo di fronte a noi un corpo, ma – come spesso accade – nient’altro che un corpo. Soggetti mutacici, silenziosi, locked in: a volte, evitanti lo sguardo, a volte, palesemente infastiditi da qualsiasi domanda. Insomma, una presenza che contiene la sua negazione, che intende smentire una supposta disponibilità al colloquio che la sola presenza lascerebbe ipotizzare: una presenza, cioè, che si autosospende nel momento in cui ribadisce il no radicale a tutto, al dire, allo spiegarsi, al rapportarsi all’altro, alla sopravvivenza stessa.
Afferma Jacques Derrida in Resistenze, trascrizione di una conferenza pronunciata alla Sorbona nel novembre del 1991: “ad ogni domanda, questione, pressione, richiesta ordine, egli risponde senza rispondere, né passivo né attivo: «I would prefer not to», preferirei di no … Coloro che hanno letto questo piccolo immenso libro di Melville sanno che Bartleby è anche un’immagine della morte, certo, ma anche che, senza dire nulla, egli fa parlare, e in primo luogo il narratore …”. Derrida – come si può notare – aggiunge due elementi alle preziose osservazioni di Pontalis su Bartleby, due elementi che sembrano straordinariamente trasferibili sul piano dei fenomeni psicopatologici di cui ci stiamo occupando. Il primo elemento è che il rifiuto radicale di Bartleby (che sembra costituire una sorta di antecedente letterario del rifiuto anoressico-bulimico) è un’immagine della morte. Morte freudianamente intesa, ovviamente: morte come rottura del legame con l’Altro, come aspirazione a fare ritorno a una condizione indisturbata, inorganica, minerale, non contaminata dal linguaggio e dalle sue complicanze. Morte intesa, cioè, come fuga dalle dinamiche dello scambio, dell’equivoco e del malinteso che contraddistinguono i legami tra umani: morte come tendenza al ripristino di uno stato che ha preceduto la vita simbolica, antecedente all’ingresso del vivente nell’universo delle parole e nei suoi inevitabili fraintendimenti. Ebbene, in questo senso, il progetto anoressico-bulimico sembra contenere – a insaputa di chi lo realizza – una finalità analoga: in effetti, rifiutare il cibo è in primo luogo rifiutare l’Altro, così come mangiare voracemente e vomitare il cibo vuol dire sbarazzarsi dell’Altro. Progetto di distruzione dell’Altro, dunque, di rottura del legame, di morte relazionale e simbolica.
Ma non è su questo punto che intendo soffermarmi. Perché è il secondo elemento evidenziato da Derrida – e già in parte accennato – quello che vorrei sottolineare: la capacità che ha il rifiuto di ‘far parlare’. Rifiutare, si potrebbe dire, fa esplodere le categorie simboliche ordinarie e, di conseguenza, mette in moto, innesca, attiva. Come nota Phillips, il preferirei di no del soggetto anoressico “crea un certo tipo di relazione, un certo tipo di atmosfera”, fatta di interrogativi, dubbi e, perfino, ossessioni. Il rifiuto del cibo, in effetti, rischia di sviluppare, in chi si trova per le più svariate ragioni coinvolto, un’ossessione sul cibo stesso. Più si rifiuta il cibo, più il cibo diventa l’argomento centrale di ogni discorso. L’oggetto che il soggetto evita occupa la scena relazionale, imponendosi come argomento insostituibile. Ed è proprio questo il rischio che l’operatore deve saper evitare.
L’esperienza clinico-riabilitativa che il lettore troverà esposta in questo libro è germogliata su queste consapevolezze e si è sviluppata nel tentativo di rispondere a una serie di interrogativi: come trattare il rifiuto del cibo senza cadere nel tranello che il sintomo alimentare genera? Come affrontare il preferirei di no della persona con sintomi anoressico-bulimici evitando di rispondere specularmente a quel rifiuto? Come occuparsi del corpo defedato scongiurando il pericolo di precipitare nell’impotenza del preoccuparsi? Come non angosciarsi al cospetto dell’incombente minaccia di farsi fuori? Come esorcizzare la possibilità di un’inconscia dissociazione dell’operatore che, per sopravvivere psichicamente a un incontro così perturbante, può sviluppare fantasie espulsive? Come fare i conti con quella resistenza passiva che agita l’interlocutore e lo spinge ad affaccendarsi in maniera improduttiva?
Le attività del Centro Diurno sono state pensate e strutturate per provocare un ribaltamento della logica psicopatologica innescata dal rifiuto e per favorire un lavoro di elaborazione simbolica dell’affermazione negativa della propria presenza e della passività della propria postura. In un rovesciamento della tipica dinamica del sintomo, l’equipe curante punta a stimolare il soggetto a ‘parlare’, tentando di contrastare il potere del no a ‘far parlare’.Tra le varie attività, la pratica del Pasto Assistito è probabilmente quella che, più di altre, è in grado di palesare la filosofia dell’intervento educativo-riabilitativo. Al momento del pranzo, pazienti e operatori siedono insieme per consumare il pasto. In un’atmosfera conviviale, animata dalla continua stimolazione alla conversazione, al racconto, al commento di fatti di cronaca, allo scambio di esperienze, alla comunicazione dei propri interessi, al piacere del dialogo, ogni paziente riempie il proprio piatto (come precedentemente concordato con il nutrizionista), sotto lo sguardo benevolo dell’operatore, che non è lì a controllare l’assunzione della giusta quantità, ma a condividere dal vivo le difficoltà di quel momento speciale che è il contatto con l’oggetto fobico. Il suono di brani musicali scelti e proposti a turno e quello delle parole che riempiono la stanza fanno da rassicurante sottofondo: l’ordinarietà della situazione (si ha la sensazione di trovarsi a pranzo tra amici) smorza la straordinarietà dell’evento (l’incontro con cibi e quantità fino al giorno prima impensabili).
Nel breve lasso di tempo della somministrazione del pranzo (su cui convergono i diversi interventi – psicoterapici, psicofarmacologici, nutrizionali, socio-educativi, medici, ecc. – che quotidianamente si spalmano nei diversi ambulatori del Centro Diurno), la presenza del cibo attiva dinamiche che l’operatore può registrare in diretta: il rifiuto, infatti, prende forma in comportamenti, atteggiamenti, posture e reazioni emotive che, diversamente da quanto accade in ambito familiare (al cui interno innescano risposte ansiose, angosciate, terrorizzate), incontrano una possibilità di espressione, di traduzione simbolica, di messa in parola. Di fronte ai chicchi di riso mangiati uno per volta, al protrarsi infinito della masticazione di un minuscolo boccone di pasta, al senso di panico provocato dalla sola vista della bottiglia dell’olio, di fronte, in sostanza, alle strategie di difesa dall’oggetto fobico, l’operatore, seduto a tavola insieme agli altri, prosegue la sua azione discorsiva, di stimolazione al dialogo, di conversazione con coloro che partecipano al pasto.
Si parla di tutto, ma non del cibo che, nel frattempo, nel piatto di qualcuno, viene torturato, sminuzzato, nascosto, accantonato. Quel rifiuto, in altri termini, non fa parlare di sé. Lo svolgimento del pasto degli altri non risente dell’opposizione del singolo partecipante. Nessuna angoscia, niente panico. Si continua a mangiare, a parlare, a discutere con gli altri. Ci sarà un tempo successivo nel corso del quale riflettere su quel che è accaduto: ma non è quello del pasto. Il tempo del pasto è il tempo della possibilità di scaricare sulla parola (e attraverso la parola) la propria angoscia, liberando l’atto dell’alimentazione da quel carico insostenibile. Parlare distrae e, al tempo stesso, crea legame: per un verso, distoglie l’attenzione ossessiva dall’oggetto cibo, per l’altro, la concentra sull’altro. Parlare (e sentir parlare) consente la circolazione della libido: rompe la densità ristagnante del silenzio (nel quale il paziente progressivamente si rifugia) e attenua la potenza della pulsione di morte.
Tornano alla mente le parole che Sigmund Freud scrisse nei Tre saggi sulla sessualità: «Zia, parla con me, ho paura del buio», disse un bambino di tre anni, che, terrorizzato dal buio, si era rivolto all’adulto per sconfiggere le proprie paure. «Ma a che serve? Così non mi vedi lo stesso», le aveva risposto la zia. «Non fa nulla. – replicò il bambino ‒ Se qualcuno parla c’è la luce».