Oltre Ulisse. Introduzione a Le zattere di Ulisse


È da poco uscito per la Poiesis Editrice il volume Le zattere di Ulisse. Dieci psicoanalisti interpretano i luoghi, le donne, i miti dell’Odissea, a cura di Anthony Molino. Offriamo qui, su gentile concessione dell’Editore, uno stralcio dell’introduzione del curatore.

Come tanti ragazzi della mia generazione, sono cresciuto con la RAI degli anni d’oro, quando la televisione aveva, oltreché funzione di intrattenimento, anche quella di un vero servizio pubblico, volta alla realizzazione di progetti dalla forte valenza culturale. Uno di questi era la versione televisiva dell’Odissea, trasmessa nel 1968, con le interpretazioni indimenticabili di Bekim Fehmiu nei panni di Ulisse e di Irene Papas nel ruolo di Penelope. Chi non ricorda le coinvolgenti scene dell’accecamento di Polifemo, o dell’approdo ad Itaca, per citarne solo due a me rimaste impresse? Fu anche la prima trasmissione a colori della nostra televisione, e servì a corredare, in un certo senso, a vivificare, le letture del poema omerico che, assieme a quelle dell’Iliade, erano in quegli anni centrali al programma scolastico di seconda e terza media.

Faccio un salto in avanti, di dieci anni, forse meno. Avevo finito per terminare le superiori negli Stati Uniti, dove ero tornato dopo un fallimentare rimpatrio della mia famiglia in Italia alla fine del decennio precedente. Una volta diplomato mi ero iscritto all’università di Temple, nella mia natìa Filadelfia, per laurearmi in lettere italiane. Era lì che potei finalmente leggere la Divina Commedia e, in un successivo seminario dedicato alla traduzione letteraria, proposi – ventenne ambizioso e, a ripensarci, non poco presuntuoso – di tradurre in inglese alcuni canti del capolavoro dantesco. Volevo replicare nell’esercizio sia la costante dell’endecasillabo che la costrizione della terza rima, compito che alcuni traduttori celeberrimi della Commedia avevano finito per tralasciare. Al di là, però, del grado di riuscita delle mie traduzioni ricordo benissimo che il primo canto con cui mi cimentai fu il XXVI° dell’Inferno. Ero appassionato, consumato nel mio sforzo letterario proprio come “lo maggior corno de la fiamma antica”; e con ogni probabilità serbavo ancora, nello svolgimento delle mie versioni, ricordi non del tutto sbiaditi delle immagini dello sceneggiato televisivo. La fierezza e il coraggio indomito di colui che a nulla si piegava pur di onorare “l’ardore a divenir del mondo esperto/e di li vizi umani e del valore” avevano colpito lo studente ventenne, e sicuramente risuonavano con certi miei moti post-adolescenziali, di giovane uomo che, sballottato dalla propria storia transgenerazionale di emigrati mai pacificati si sentiva, già a quell’età, senza patria; e che aveva già intuito che ogni Itaca era, forse, molto più che un approdo definitivo. Semmai, poteva essere sempre una tappa per il prossimo “folle volo”…

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Rivisito questi momenti della mia storia non per indulgere oltre nei suoi episodi (e tediare oltremodo i pazienti lettori), ma per dare il senso di come, dopo oltre mezzo secolo, quello sceneggiato RAI, quelle letture giovanili, quelle prime traduzioni di chi finì pure per diventare traduttore letterario, si sono cristallizzati in questo progetto che ora ho il piacere di dare alle stampe. La genesi del libro è presto detta. Per gran parte del primo annus horribilis del COVID-19, i Musei San Domenico di Forlì hanno ospitato una mostra dal titolo Ulisse. L’arte e il mito, che per la sua rilevanza è stata insignita, nel 2021 a New York, del premio della settima edizione del Global Fine Art Awards, superando allestimenti promossi da prestigiose istituzioni quali il British Museum di Londra, il Getty di Los Angeles, il Metropolitan di New York e il Louvre di Abu Dhabi. Come riporta la nota curatoriale sul sito dei Musei, “il protagonista dell’Odissea è il più antico e il più moderno personaggio della letteratura occidentale. Egli getta un’ombra lunga sull’immaginario dell’uomo, in ogni tempo… Raccontare di Ulisse ha significato raccontare di sé, da ogni riva del tempo e raccontarlo utilizzando i propri alfabeti simbolici, la propria forma artistica, attribuendogli il significato del momento storico e del proprio sistema di valori.” Dopo una visita alla mostra della collega Paola Borsari, che l’aveva lasciata entusiasta, ho colto subito il suo felice invito di ripensare assieme la figura di Ulisse. E ho voluto invitare, di riflesso, in un primo momento, la stessa Borsari e l’amico e collega Luca Caldironi a riflettere, utilizzando l’alfabeto simbolico della psicoanalisi, sui significati odierni e la vitale attualità del mito omerico, vertice autentico e senza tempo per l’esplorazione dell’odissea che ogni vita umana snoda; e di ogni smarrimento e approdo di conoscenza che il lettino a sua volta accoglie, e narra. Questo primo momento si è concluso e concretizzato con la pubblicazione sulla rivista online di arte e psicoanalisi Aracne, nell’autunno del 2021, di una nostra conversazione a tre voci dal titolo “Ulisse e il nostro tempo: Ipotesi psicoanalitiche”. La conversazione è qui riprodotta, e serve da preambolo e apripista ai contributi che di seguito illustro, e che si dividono in due sezioni.

La prima sezione del libro è composta da tre saggi, scritti tutti da colleghi maschi, che esplorano a diverso titolo e da diversi vertici psicoanalitici la straordinaria e irriducibile figura di Ulisse, dandone letture ricchissime e singolari. Apre le danze Carmelo Conforto, che ne La ballata del vecchio psicoanalista invoca Bion, Coleridge e la sua stessa esperienza di marinaio-naufrago. Prendendo spunto dalle parole di Coleridge – “Solo, solo, tutto solo, solo in un immenso mare…” – Conforto scrive della solitudine dell’analista, di cui Bion è cantore (quando scrive della personalità distaccata dalla gruppalità di base); e alla luce di ciò rileva il percorso che anche Ulisse costruisce, così come è costruita nell’uomo, attraverso la funzione analitica, la tolleranza alla solitudine.

Odisseo, o della tolleranza è il titolo del secondo capitolo, scritto da Luca Trabucco. Prendendo le mosse da uno dei significati del nome Odisseus, ovvero “colui odiato dai nemici”, il saggio esplora la figura di Ulisse nell’antinomia paradossale tra alcuni tratti idiomatici incarnati dalla figura dell’eroe: ovvero, tra la curiosità e il desiderio di conoscenza contrapposti alla propria maestria nell’inganno e alla superiorità attribuita della menzogna. Il conflitto tra questi due aspetti, per Trabucco, si propone come antinomia fondamentale nel rapporto dell’uomo con la realtà, sia interna che esterna. Il permanere in questo paradosso, assunto dall’autore come condizione dell’esistenza, fa sì che la figura di Ulisse coincida nella sua visione con quella di Sisifo. Da qui segue una affascinante digressione dell’autore su Camus, per concludere con un altro paradosso: quello insito nella tensione tra la filosofia esistenzialista e la visione psicoanalitica dell’esistenza.

Il terzo capitolo, Molte astuzie e un desiderio. Note psicoanalitiche sulle figure di Ulisse, è di Cristian Muscelli. Scrive al riguardo il collega di formazione lacaniana, offrendo una lucida e esauriente sintesi del proprio contributo: “Le figure del desiderio che si ricavano dalle interpretazioni dell’Ulisse omerico permettono tre considerazioni: la prima intorno alla sua struttura edipica; la seconda sulla necessità di confrontarsi con la legge e il destino; la terza sulla questione della libertà di scelta e la possibilità che il desiderio diventi distruttivo. Contro ogni facile riduzione del desiderio alla retorica della felicità, procurata dal coraggio e da guadagnare attraverso l’avventura, Ulisse ne indica piuttosto le ambigue potenzialità e gli equivoci. Forse l’attualità di Ulisse, origine e rappresentante ideale dell’uomo moderno, è proprio in questo, nel confronto con le difficoltà poste dal desiderio.”

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La seconda parte del libro, dedicata alla variegata costellazione dell’universo femminile nell’Odissea, è composta da tre contributi tutti scritti da colleghe. Non era certo nelle intenzioni del curatore una divisione così schematica, figuriamoci se così apparentemente “sessista”, nella propria concezione del libro. I colleghi tutti, una volta interpellati, hanno proposto e scritto in tutta autonomia di temi e personaggi a loro cari, emblematici nelle loro capacità di condensare e disvelare significati e letture del poema omerico e dei suoi miti. E così gli uomini hanno scritto prevalentemente di Ulisse (e in minor misura, di Telemaco); le donne di Penelope, Circe et al. Detto ciò, e in tale ottica, particolarmente ricca è il primo saggio dei tre che si articolano al femminile. Donne dell’Odissea: Illusioni e loro destini di Sara Boffito e Giulia Zelda De Vidovich, che apre questa sezione del volume, è un piccolo gioiello che immagino come un nucleo per un saggio di più ampio respiro se non addirittura per un libro. È una specie di compendio, di appunti per una lettura se non al femminile perlomeno diversa dell’Odissea, composta com’è da una serie di fugaci vignette che invitano a ripensare tanti luoghi comuni attorno al poema e alle sue figure. Notevoli sono le fonti a cui ricorrono le autrici per declinare la loro lettura di figure quali Atena, Calipso e Nausicaa: da Grotstein alla poetessa premio Nobel Wislawa Szymborska; da Bion a Kafka; da Winnicott a Fachinelli passando persino per alcuni traduttori di versioni anglofone dell’Odissea!

Il secondo saggio, della junghiana Alda Marini, si intitola Penelope, o della radice. Inizialmente, Alda voleva chiamarlo “Per ogni Ulisse che insegue il suo destino è necessaria una Penelope che lo ancori al suo terreno.” Cito questo per una semplice ragione: non ho difficoltà ad immaginare le accuse di politicamente scorretto che potrà attirarsi Alda – e di riflesso il sottoscritto – per un saggio che personalmente trovo coraggioso nella sua proposizione di una lettura della figura di Penelope che non vuole essere reazionaria ma, fedele a certa tradizione junghiana, archetipica. Ne scrive a proposito la Marini, in una nota preliminare alla stesura del saggio: “Come Jung ci invita a riflettere, una pianta deve poter crescere nel terreno che gli è proprio, lì maturare e trovare un proprio posto, una propria fioritura, prima di avventurarsi altrove. E proprio di questo Ulisse ha bisogno, di una terra ferma che continui a convalidarne l’identità raggiunta, intanto che va sbocciando una nuova. Parole come fedeltà, costanza, memoria, solidità costellano la relazione matrimoniale che lo lega a Penelope, sua sposa ‘dimenticata’. In realtà ogni passaggio verso l’ignoto è reso possibile dalla rinnovata promessa che Penelope fa al suo sposo, ogni rifiuto di un nuovo matrimonio restituisce a lui il suo regno e gli rende possibile continuare il suo processo individuativo.”

La seconda sezione si conclude con una lungo saggio di Silva Oliva, che si misura con le “maliarde” dell’Odissea, principalmente con le figure di Circe e le Sirene. Partendo da una famosa canzone popolare del 1919 intitolata Vipera, l’autrice indaga – coadiuvata da letture che spaziano da Freud, Winnicott e Bion per arrivare a Michel Serres e Maria Corti – diverse linee “matrici” della relazionalità: dall’atavica attrazione della femme fatale che si vuole incarnata, appunto, da Circe, ad aspetti della relazione madre-bambino. La portata straordinaria del saggio è la capacità di estendere queste considerazioni per arrivare ad una lettura della nostra contemporaneità, per cui la “brama di conoscenza” da sempre attribuita ad Ulisse (e metaforizzata, tra l’altro, dal suo incontro con le sirene) si snoda in riflessioni pacate ma intense, su fenomeni attualissimi quali l’intelligenza artificiale e le neurotecnologie. E ci riesce, per di più – tra lo stupore di questo lettore – immaginando e confidando in esiti tutt’altro che distopici.

Chiude il libro, infine, una postfazione dell’amico Luca Caldironi, che dopo la nostra iniziale conversazione con Paola Borsari fu colui che mi istigò ad andare oltre, nel “folle volo” che è stata la concezione e realizzazione di questo libro. Luca, come e più di me, è da anni coinvolto in una duplice ricerca che vuole abbinare – anche nelle sue concretizzazioni – l’arte alla psicoanalisi. (Vedi la sua creazione a Venezia, e la sempre innovativa programmazione, dello spazio espositivo Castello 925, che Luca dirige.) E questi temi a lui cari costituiscono il fulcro del suo saggio, che vuole, infatti, “navigare a vista” nella sempre attuale rilevanza del mito per “l’alto mare aperto” della psicoanalisi.