Mind the gap.
“Sono Ariel su Tik Tok”, ovvero: la cura analitica alle prese con il dispositivo.


Pubblichiamo un contributo teorico-clinico di Chiara Buoncristiani (semiologa, psicologa, psicoanalista associata SPI-IPA) e Tommaso Romani (filosofo, psicologo, psicoanalista in training SPI-IPA): ringraziamo gli autori per la loro riflessione, originale e attuale, su un tema che interroga la psicoanalisi e i saperi tradizionali.

Mind the gap
Sono Ariel su Tik Tok”, ovvero: la cura analitica alle prese con il dispositivo.


Dalla mia alla tua parte, dimenticarsi è un’arte
Bolero, Baby K (feat. Mika)
 

«Ciao… tu puoi chiamarmi Sofia. Io sono Ariel su Tik Tok».

Sofia fa sul serio. Quel corpo, che non riesce a tener fermo, sul divano del mio studio, proprio non le piace. Ha 14 anni e vuole diventare maschio. Chiede ai genitori, convinta che con la maggiore età farà la transizione, di poter parlare con un analista. Al quale chiederà fin da subito una diagnosi, per poter cominciare a prendere ormoni (inibitori degli estrogeni). Il nostro lavoro insieme comincia quando le rispondo di non avere la minima idea della diagnosi, ma che può iniziare a raccontarmi di cosa soffre. Emergerà così, nel tempo, il suo forte disgusto per quel corpo preso dalla pubertà, che non può che rievocare antichi fantasmi infantili e dare nuova spinta all’eccitazione…alla pulsione, alla dimensione del sessuale, a “quel rapporto disturbato con il proprio corpo” (J. Lacan, Il Seminario Libro XIX, p. 37). Quando entra in gioco il sessuale, la faglia diventa visibile, segnalando un inciampo nel lavoro psichico necessario per la traduzione delle tracce originarie. Qui è come se Sofia/Ariel cercasse una via per riappropriarsi di quanto rimasto troppo a lungo senza parole. E la sua soluzione mi colpisce. Mi incuriosisce, disorientandomi, infastidendomi e inchiodandomi a quell’essere Ariel su Tik Tok.

Sein in a social network”

Cosa significa “essere” su un social? Cosa avviene all’anima quando entra in relazione con il cyberspazio?

Se l’inconscio nasce e si insedia nella relazione con l’Altro, qual è la qualità del “gap” che muove a ricercare in un social la via per venire ad essere il soggetto che si potrebbe essere? Essere su un social network permette davvero di evitare il resto, di eludere cioè l’eccesso non soggettivato, che l’Uno lascia, fosse pure come traccia, nell’Altro”? Di che tipo di soluzione – e rispetto a quale urgenza – parliamo? Infine, in analisi, come possiamo prestare ascolto a questo resto che spinge?

Seguendo le riflessioni di Foucault (1988), Deleuze (2007) e Agamben (2006), vorremmo provare a leggere gli attuali social network nell’ordine del dispositivo.

Per Deleuze (2007), una nuova formazione storica comincia quando si verifica una variazione del regime che regola i campi di ciò che può essere detto e di ciò che può essere visto. Ogni diversa e particolare con-figurazione di enunciabile e visibile è quello che Foucault chiama dispositivo.

Nel nostro “divenire soggetti “, noi siamo e agiamo dentro i dispositivi. Lo stesso Freud, nell’inventare la psicoanalisi (Macalpine 1950), creava le condizioni perché un particolare processo di soggettivazione avvenisse secondo i vincoli di un’economia psichica incorniciata, retta e condizionata dal dispositivo analitico.

In generale, i dispositivi sono “macchine di soggettivazione” di cui, nel tempo, i diversi autori hanno evidenziato le qualità e i “costi”. Per Foucault (1988), i dispositivi si traducono in “tecnologie del sé”, strumenti che permettono di performare (“fare operazioni con”) il proprio sé. Soluzioni che organizzano, danno forma e controllano i nostri aspetti più intimi: dalla cura del corpo all’uso dei piaceri, dalla sessualità, fino al contatto con la follia. Per Agamben (2006), il dispositivo è sempre iscritto in un gioco di potere e insieme sempre legato ai limiti del sapere che derivano da esso e nella stessa misura lo condizionano”.

Secondo una logica circolare, nel dispositivo si coagulerebbero un insieme di strategie che esprimono rapporti di forza e allo stesso tempo li manipolano “sia per orientarli in una certa direzione, sia per bloccarli o per fissarli e utilizzarli”. Per Carmagnola (2015), nella società post-moderna il dispositivo diventa un dispositivo estetico, nella misura in cui siamo immersi in un mondo di gadget tecnologici (telefonini, rete, social…) che organizzano addirittura la nostra soggettività entro le maglie del sistema pre-costituito del sentire. Per Lyotard (1974), ogni economia è un’economia libidinale, al cui interno trovano posto dispositivi pulsionali, luoghi in cui “si fa visibile il processo primario nel secondario”, dove la dinamica di forze inconsce mostra la sua economia libidica.

Una faglia inedita si è aperta da quando, nel mondo contemporaneo, i dispositivi pulsionali sono diventati luoghi dove lo stesso sentire, desiderare e godere sono “parte cospicua della produzione di plusvalore” che si incarna in una sorta di plusgodere. Immaginiamo un sistema di “finanza pulsionale” con una potenza di fuoco finora impensabile, che produca, metta in circolo scambi “derivati”; un sistema che per esistere debba alimentarsi di “bolle” di godimento istantaneo e solitario, in cui l’Altro è illusoriamente fatto fuori: le tecnologie pervasive del sentire, desiderare e godere diventano una sorta di macchina dell’immaginario che ci ingiunge di incarnarci in una certa esperienza.

Quale margine di movimento, quale libertà di “sbloccaggio” resta a un soggetto così “fondato”? Ci sono “vie di fuga” (Deleuze) che possano “disinnescare” o “profanare” (Agamben) il dispositivo? Secondo questi autori, i varchi possono aprirsi a patto di sbloccare l’energia inconscia imprigionata nei dispositivi stessi, attraverso un’operazione paradossale svolta dai soggetti: una curvatura dall’interno delle stesse linee di forza li “mettono in forma” …

La sirenetta di Amatrice

Aliza non parla mai. Dritta e rigida sulla poltrona, mi guarda seria, lo sguardo vacuo. “Non mi piace parlare di me, preferisco che mi faccia lei le domande”, mi aveva detto al primo colloquio dopo un lungo silenzio che avevo interrotto chiedendole perché fosse venuta: “Sono qui perché mi vedo male”. La frase aveva rimbombato in me suscitando l’attesa di uno sviluppo che non sarebbe arrivato. L’espressione del suo viso si era fatta di nuovo imperscrutabile.

Aliza è un’adolescente di 15 anni, che si rifiuta di andare a scuola perché non riesce più a studiare: pensa compulsivamente al suo aspetto fisico. Si sente grassa. Passa le giornate sdraiata a letto, visualizzando immagini e video dai social. I genitori, entrambi originari di Amatrice, si sono separati quando aveva quattro anni. Lei aveva 11 anni, era estate quando c’è stato il terremoto. Buio, la madre che scappa fuori pensando, chissà come, che lei fosse già in salvo. Era ancora dentro casa, invece. Per Aliza tutto è cominciato lì. Da quel momento mangiava tutto il giorno, senza accorgersene. Da un anno Aliza ha cominciato una dieta restrittiva che l’ha portata a dimagrire sempre di più.

Aliza resta laggiù, nascosta dentro la sua posa da Instagram. “Chi sei?”, e soprattutto, “ci sei?”, mi chiedo durante i suoi silenzi. Attraverso una potente pressione inter-psichica riesce a trasmettermi la sua angoscia. Vorrei raggiungerla. Ma non so dove cercarla. O come. È così che, più o meno consapevolmente, mi lascio modellare, diventando un medium malleabile (Milnser 1987; Roussillon 2013; Bastianini 2018) rinuncio a capire, comincio ad agire (Sapisochin 2012) la curiosità. Le chiedo come va, che abbia fatto ieri, cosa abbia mangiato, visto o ascoltato… e come si sia vestita. Lentamente comincia tra noi una sorta di gioco, che presto va ritualizzandosi. Lei risponde a monosillabi, senza mancare mai di farmi capire quanto mi consideri banale e inadeguata.

Nel tempo, mi accorgo che quando riesco a fare centro con le mie domande, mi premia concedendomi qualche parola in più, di commento o chiarimento, fa un mezzo sorriso o cambia espressione. Pollice su o pollice giù, cuoricino o silenzio. È su vergogna e mortificazione che stiamo rigiocando la partita di un sé squalificato, disinvestito e non visto. Cosa rende così pervasiva la dimensione traumatica della sua ferita narcisistica, al punto che può arrivare un terremoto e far crollare la casa?

Durante una seduta, dopo circa otto mesi di trattamento, ho appena “fatto centro” chiedendole cosa significhi per lei “non piacere a nessuno”. Aliza mi ha risposto che “è un dato di fatto, nessuno reagisce”. Le chiedo se si riferisca alle sue foto su Instagram e lei annuisce, poi si spegne. Si è messa in stand-by. “Ora c’è di nuovo il salva screen”, penso tra me. Realizzo che per mesi non abbiamo fatto altro che ripetere questo funzionamento, con l’analista nella posizione identificatoria della paziente e Aliza in quella del piccolo tiranno narcisista. Abbiamo sempre giocato a regole rigide, pre-disposte per noi, secondo una precisa logica di potere e di distribuzione dei riconoscimenti. Mi viene in mente la Sirenetta della favola, che rinuncia alla propria voce. Dico: “Deve essere duro stare sempre dentro quella gabbia dei social, non poter esplorare altri luoghi dal vivo, con la tua voce…”. E lei: “È sempre stato così, eravamo solo mamma ed io. Mamma è una donna severa, un doberman, perché papà non c’è mai stato”. Le chiedo: “Lui non veniva a trovarti?”. Qui per la prima volta le maglie si allentano, qualcosa si apre. Risponde: “Sì, ma non lo facevamo salire. Mamma era disperata quando lui se ne è andato. Ci ha abbandonato e non gli voleva più parlare. E così lui mi telefonava tutti i giorni, ma io non gli parlavo”. Vedo spuntare una lacrima.

Credo che nella nostra relazione di transfert sia potuta entrare in scena la dimensione traumatica di tracce mute, non validate e cancellate nell’incontro, o meglio non-incontro, tra l’idioma individuale di Aliza con il conosciuto non pensato (Bollas 1989) del suo ambiente originario: una “madre” depressa e dispotica, dalla quale Aliza continua a dipendere senza potersene separare, che non ha saputo lasciare margini di manovra a un padre colpevole di averla lasciata.

Seduta dopo seduta a manifestarsi sono state logiche affettive sull’essere e sull’esistere nella relazione, resto silenzioso che spingeva per trovare uno spazio di ripetizione, certo, ma forse anche una speranza di elaborazione. Scegliendo di identificarsi con alcune delle qualità del dispositivo dei social (rigidità, ghigliottina manichea tra “mi piace” e “non mi piace”), Aliza mi stava indicando una dimensione nella quale le relazioni sono messe in forma secondo un preciso ordine semiotico, in questo caso abusante. Un sistema che invita a una scelta basica e istantanea (sì/no) e che “garantisce” alla psiche di evitare la dimensione dell’ambivalenza. Un sistema nel quale Aliza, si era fino a quel momento ritirata, risolvendo (o evitando) il dilemma di una scelta impossibile tra “padre” e “madre”. Così facendo, Alice trasferiva, ma anche ritrovava le caratteristiche rigide e severe dell’oggetto originario materno. In analisi stava ora tentando di avviare un aurorale processo di soggettivazione. L’ipotesi è che l’accesso dell’analista nella sua “bolla” abbia aperto un nuovo margine di gioco, in qualche modo “curvando dall’interno” lo spazio della relazione sé-Altro.

Una soggettività che “fa questione”

Ma se il dispositivo corrisponde a una macchina di soggettivazione, tanto cara agli adolescenti, ma anche ai non più giovani, alle prese con il doppio binario di una profonda crisi di identità radicata nella postmodernità e a un tempo con la necessità di “essere qualcuno”, la soggettività che ne esce fuori non può che fare questione.

Torniamo ad Ariel. Io sono Ariel. Io (finalmente) sono un io su Tik Tok. Un io senza ombra d’impasse. Finalmente al riparo dalla pulsione, liberato dalle spinte del corpo, dai fantasmi delle origini e dai limiti della realtà? Come Aliza su Instagram, Sofia risolve su Tik Tok una mancanza, una ferita narcisistica, una faglia identitaria. C’è in lei, come in ognuno di noi, un vuoto che la spinge a costruire un pieno a partire da una mancanza…perché è sempre con la mancanza che hanno a che fare la sessualità e le relazioni quando inevitabilmente incrociano l’Altro e lo sentono premere.

Il punto di criticità, che inconsapevolmente pongono queste adolescenti riguarda il loro essere “impischellate” (parola che spesso le ragazze e i ragazzi utilizzano per significare il loro essere presi in una storia d’amore) con il fondamento ontologico più tradizionale dell’Occidente (A. Zupančič 2018): queste adolescenti flirtano con quel “mind the gap” che, inevitabilmente, si produce nell’incontro originario con la matrice bio-psico-sociale del senso e delle relazioni. Matrice in cui siamo immersi da prima della nostra nascita. È il processo della semiosi (Eco 1975, Peirce 1958) che lavora per segmentazioni, opposizioni e differenze secondo una dialettica in cui il senso di un segno, non rimanda mai direttamente al suo oggetto, significato o “cosa”, ma rimanda a un altro segno.

Il “divenire soggetti” di queste adolescenti, come di ciascuno, è dunque in parte prodotto dal dispositivo. Ma in questa fabbricazione di soggettività, una parte del loro essere, della loro specifica unicità, si eclissa. Qualcosa deve essere tagliato fuori perché possiamo “essere” e “dirci” nel processo semiotico.

Seguendo la logica freudiana del rapporto tra parola e cosa, per cui la parola è la “morte” della cosa, il senso si costituisce rinunciando e lasciando fuori il non-senso, parte del suo campo, della sua estensione. Paradossalmente, lì dove c’è un apparente guadagno, attraverso il senso, si fonda anche la sostanziale discrepanza. Mancanza che il dispositivo “social” tratterà in un modo particolare e su cui la psicoanalisi fonda invece il soggetto come soggetto diviso.

Dunque, il soggetto è effetto del dispositivo, tanto quanto è ciò che, nella sua dimensione inconscia, scompare, o meglio si vela attraverso di esso. Viene a essere il soggetto dalla parte del senso, nel momento in cui non è più il soggetto dalla parte dell’essere. Detto altrimenti: il dispositivo mette ordine. Ma cos’è che scompare e produce un “resto” muto che spinge? Ciò che scompare ha a che fare con il Reale, con un pezzetto di Reale come “resto escrementale che turba l’armonia del Due” (S. Žižek 2006) e cioè con quel resto traumatico e indigeribile che resiste alla simbolizzazione e allo stesso tempo ne costituisce l’energia propulsiva.

Su Tik Tok non c’è mancanza. C’è l’illusione di un io non diviso, pieno, non castrato. C’è un’apparenza di godimento, senza corpo, senza il rapporto turbato con esso… senza l’Altro?

Qui forse la questione si complica. Il corpo pulsionale, che sembra scomparire nell’io sono io su Tik Tok e nei silenzi di Aliza, ha a che fare con l’Altro, con la domanda dell’Altro. Sotto l’ombrello protettivo e organizzatore del dispositivo, apparentemente manca “l’incontro traumatico con l’abisso dell’Altro desiderante, con la terrificante figura di un Altro impenetrabile, che pretende qualcosa da noi ma non chiarisce di cosa si tratti” (S. Žižek 2006).

Il filosofo di Lubiana intreccia il sogno del Cyberspazio, con la monade narcisistica di leibniziana memoria: essere “senza finestre”, come in The new frontiers of the nouvelle vague di Battiato, ma allo stesso tempo poter rispecchiare in se stessi l’intero universo. Acchiappare capra e cavoli: contenere in sé il tutto, accedere all’invulnerabilità. Nell’illusione che la distanza virtuale consenta di evitare ogni eccesso traumatico di prossimità.

Se mi chiami Sofia io sono infelice, ma viva. Su Tik Tok “sono”: sono felice, ma morta. Da qui partiranno le associazioni di Sofia, curvatura sulla quale le tornerà in mente quanto da bambina fosse affascinata dagli zombie: probabilmente proprio quando le si imponeva la difficile elaborazione della differenza sessuale. “Lo zombie”, di seduta in seduta, porterà al centro la questione del reale del corpo, che apparentemente non entra nel dispositivo. Giochiamo con lo zombie come colui che ha fatto la transizione, che ha cancellato la morte, il dato reale (e dunque, pensa l’analista, la corrispettiva differenza sessuale come dato reale?).

“Se vado a scuola o esco con gli amici, io vivo nel mondo, ma da questo mi sento rifiutata, esclusa e giudicata”, dice Aliza. “Se mi lasci nella mia camera a guardare Instagram, nessuno potrà giudicare la forma del mio corpo. Sono difensivamente fuori dal mondo, ma al sicuro”.

Eppure, di illusione si tratta. Perché di fatto, il cyberspazio ci pone al riparo, ma ci immerge in una sfilata ordinata di corpi governati da gesti e rituali di seduzione che si ripetono. Si ripete il balletto, il trend, il POV:, what i eat in a day, la posa, i gesti stereotipati, le faccette ammiccanti, che cantano senza cantare, godono senza godere. Qualcosa che eccita senza “sporcare”. Sempre Battiato: “organizza la tua mente in nuove direzioni, libera il tuo corpo da ataviche oppressioni”. Da un lato, si espone il corpo che mostra di godere, ma senza angoscia dell’intrusione, della molestia, dell’altro molesto (S. Žižek). In una sorta di “traumatofilia”, lo sguardo rimane inchiodato, identificato costantemente con un’eccitazione senza contatto, invischiata ma solipsistica. Ciò che si ripete è l’eccitazione, ma ciò che ritorna è la struttura stessa del desiderio, scarnificato però dalle possibilità trasformative che solo possono arrivare dal suo contaminarsi nell’incontro con la mancanza dell’Altro. Un desiderio che in questo modo non può incarnarsi nel corpo pulsionale.

“Un corpo dritto” dirà Sofia in analisi, “senza tette e senza culo”, di cui tutto ciò che possiamo dire è che il suo limite è che funziona troppo bene. Un procedimento che fa essere, senza che, in teoria, nulla si metta di traverso a questo io. “Potrò uscire solo quando avrò un corpo che va bene… come dico io”, sospira Aliza ogni volta che perde un etto e scuote la testa, perché “non va ancora bene” e non andrà mai per quell’ideale assoluto che Instagram rappresenta.

Sia Sofia che Aliza portano a quell’Altro che è l’analista il loro bisogno compulsivo di una superficie liscia, satura, piena. Senza “gap”. Credono che solo scambiando questo tipo di valuta sia possibile sentirsi protette, consistenti. Solo a queste condizioni possono dire “io sono”. Anche loro sono giovani “lavoratori” dell’enorme fabbrica per la produzione del sentire, del desiderare e del godere che è il dispositivo. Un dispositivo che vieta prima di tutto di essere incomplete, manchevoli, bisognose. Ma in cui paradossalmente l’Altro domina tutta la scena, in quanto in ultima analisi non è possibile farlo fuori. Non è possibile chiamarsi fuori.

In conclusione, è proprio nella logica e nei morfismi del dispositivo che l’analista entra e si contamina diventando “interprete” e attore (Sapisochin) di un “play the gap”. Il dispositivo entra così in analisi. Seduta dopo seduta, è giocando dall’interno del dispositivo che analista e analizzante possono “mettere in scena” la differenza, una trasformazione del “trend”, cioè di quello che è fisso e ritualizzato attraverso una curvatura che disgreghi il campo simbolico, a partire proprio dal difetto-eccedenza che si ripresenta nel transfert. È lo zombie a produrre un’eccedenza nella significazione, segnalando uno scarto che si configura come un “più” inassegnabile (Laplanche). Che fino a quel momento non aveva trovato parola.

La curvatura si configura come un limite. Non è possibile dispiegare il limite oggettivizzandolo. Il difficile lavoro analitico non è dunque legato ad una questione di adattamento tra soggetto e ambiente. Qui è in gioco la meraviglia di cui parla Wittgenstein, che fa sì che l’analista si stupisca non tanto che qualcosa non sia o di come sia, ma che ci sia appunto qualcosa. Per capire questo stupore, prendiamo ad esempio Mary Poppins, uno dei film per bambini più popolari di sempre. La scena più celebre è quella di Michael e Jane a bocca aperta, le piccole teste infilate negli spazi della ringhiera della scala di casa, che guardano Mary Poppins, la tata volante. Fichte fa accenno al termine Anstoss (ostacolo, ma anche stimolo): impulso primordiale, che mette in moto l’auto-determinazione del soggetto. Primordiale corpo estraneo che «si conficca nella gola» del soggetto, causa del desiderio che lo dilacera: lo stesso Fichte definisce l’Anstoss come il corpo estraneo e non assimilabile che causa la divisione del soggetto: da una parte il “vuoto soggetto assoluto”, dall’altra il soggetto determinato, limitato dal non-lo. Il lavoro di Mary Poppins è sovvertire e disgregare lo spazio simbolico. Mary segnala la divisione del soggetto, facendo qualcosa di magico, di stra-ordinario, di eccezionale, di assimilabile ad altro. Nulla di più.

Dunque non l’inimmaginabile abisso generato dalla Cosa in sé (das Ding) quanto piuttosto ciò che sulla curvatura del campo simbolico troviamo come corpo estraneo, resto escrementale (Žižek), che turba l’equilibrio narcisistico, mettendo in moto un processo di graduale espulsione-strutturazione di ciò che sta sul limite e non si trova solo oltre il simbolico… Questo qualcosa infatti esiste e agisce “corrompendo” la supposta purezza del simbolico (ad ogni nuova canzone, le regole della realtà vengono piegate da Mary Poppins a nuove coloriture). In questo modo i fenomeni “vitali” possono dispiegarsi nel loro essere fuor-di-legame, nel loro fare sempre inevitabilmente la spola tra l’Uno e l’Altro, tra pulsione e lavoro psichico. Mostrando e liberando che l’operazione significante produce al di là di ciò che produce. Una traiettoria curva che taglia e piega la frattura generata da quanto era “straight” e impostato secondo rette parallele. Per questo, la posizione dell’analista è quella di uno sguardo sempre obliquo (Chianese 2020), mai ortoressico. La posizione drammatica di un Aldo Moro.

Forse qui sta anche la differenza tra i “dispositivi” comunemente intesi, e quel particolare tipo di dispositivo che è la scena analitica. Nel dispositivo analitico we mind the gap.

Bibliografia
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