Articolo di Guy Le Gaufey
Traduzione di Franco Lolli
Pubblichiamo un breve testo che Guy Le Gaufey, psicoanalista a Parigi, ci ha gentilmente offerto come contributo al dibattito che Litorale ha aperto nella propria newsletter. Si tratta di un articolo che, attraverso un frammento autobiografico di grande interesse, porta alla luce questioni diverse, politico-istituzionali e teorico-concettuali : su tutte, spicca l’equivalenza dei tre registri (che Le Gaufey denomina ‘consistenze’), equivalenza che pone il reale allo stesso livello dell’immaginario e del simbolico. Il che, come spiega l’autore, ha avuto enormi ripercussioni teoriche e cliniche, ancora tutte da indagare.
Uno sguardo retrospettivo di quarantacinque anni — essendo il calco di un sapere che, in linea di massima, in quest’epoca, brilla per la sua assenza — non può in alcun modo pretendere di restaurare la verità storica. Ciò che farò finta di ricordare non era certamente così netto e così chiaro al tempo in cui si è delineato, vale a dire attorno al ’72, ’73, ’74… ma comunque, ecco come stanno le cose per come la menzogna della memoria me le sussurra all’orecchio.
Sono giunto alla psicoanalisi attraverso tre vie distinte: innanzitutto, la via della nevrosi, che dava parecchie complicazioni alla mia vita amorosa e che da sola bastava a implorare un divano. Poi, quella della semiotica, che mi aveva profondamente coinvolto dopo gli studi di storia, imbarcandomi in una tesi su «Il discorso della storia» in compagnia di De Certeau, con Barthes da un lato e Gremais dall’altro. Immaginavo che la semiotica strutturale e la teoria del significante fossero fatte per convergere. Sarei andato incontro a delle crudeli delusioni, ma non lo sapevo ancora. E infine, la terza via : non sapendo cosa fare della mia vita, e dal momento che non volevo assolutamente diventare professore di alcunché (nemmeno di semiotica), feci come altri, presenti in questa stessa tribuna: andai a lavorare in un ospedale psichiatrico, con la ferma intenzione di diventare psicoanalista.
È con questo carico che approdai al seminario di Lacan, nell’anno di …O peggio e de Il sapere dell’analista, detto altrimenti: nell’anno dell’avvento del nodo borromeo (che ha fatto la sua comparsa il 9 febbraio 1972). Ma, con il discorso sul nodo, appresi per la prima volta una tesi che mi colpì immediatamente e di cui penso ancora oggi che sia stata ciò che maggiormente ha sconvolto la psicoanalisi freudiana, alla quale ero e resto legato: l’equivalenza delle consistenze.
Io avevo già una mezza idea di cosa fossero l’immaginario e il simbolico. Come per tutti, il reale mi era molto meno chiaro, giacché il fatto di distinguerlo dalla realtà non bastava per averne una concezione solida. Mi ricordo che, prima del congresso di Roma, Eric Laurent ed io avevamo consegnato tutti i seminari in nostro possesso ad alcuni amici sicuramente all’oscuro, affinché trascrivessero in maniera sistematica tutte le frasi in cui comparisse la parola ‘“reale”. La funzione «ricerca» di Word non era ancora di questo mondo, ma si poteva, con grandi sforzi, arrivare allo stesso risultato. Giungemmo a Roma con, sotto il braccio, un corposo compendio di una quarantina di pagine contenente la maggior parte delle ricorrenze di questa parola nel corso dei vari seminari, e ci divertimmo molto ad ascoltare i luminari dell’École freudienne dire sciocchezze su questa parola altisonante. Ma torniamo alla questione dell’equivalenza delle consistenze.
Che l’immaginario valga quanto il simbolico, che vale quanto il reale, che vale quanto l’immaginario, ecc… mi domandavo: ma come fa a saperlo? Anche a ritrovare queste sue tre categorie o dimensioni sul fronte della semiotica, una tale equivalenza sarebbe stata comunque insostenibile!
Finché compresi che non lo sapeva, ma che questa era la sua scommessa. Infatti, era inutile e vano cercare questa equivalenza in Freud, che probabilmente non ha fino a tal punto rinunciato alla sua teoria traumatica.
Certo, era chiaro (alla fine! lo è diventato negli anni seguenti) che questa equivalenza veniva a contraddire l’enfasi posta sul simbolico per almeno quindici anni del suo seminario, più esattamente: sul senso del tutto particolare che era riuscito ad imporre a questo termine onnicomprensivo. E ora— davanti agli eccessi che poteva osservare nei suoi migliori allievi, che facevano del suo simbolico l’alfa e l’omega della pratica analitica — lungi dal fare marcia indietro, andava piuttosto «avanti tutta», ponendo il reale al medesimo livello di determinazione soggettiva dell’immaginario o del simbolico.
Il potere euristico di questa equivalenza mi è immediatamente apparso enorme: lungi dal dare un senso alla pratica analitica – sempre tentata di ripiegarsi su un rituale confortato dalle istituzioni, dalle identificazioni, dai consigli e dagli avvertimenti degli uni e degli altri – essa inseriva un’incognita fondamentale nello svolgimento di una cura: cos’è, dunque, quel fottuto reale che non si lascia imbrigliare dalla potenza dell’immaginario né dalla determinazione simbolica? Non c’è modo di esser d’accordo al riguardo. Non c’è modo di raggiungere un’intesa sul reale in gioco nella cura. Ancora oggi, se si ponesse questa domanda ad un insieme qualunque di analisti, dubito che vi sarebbero accordi non tattici o politici.
Tanto che l’equivalenza delle consistenze ha rappresentato un formidabile pomo della discordia offerto a quante e a quanti ne seguivano l’insegnamento. È stata, a mio avviso, uno dei suoi contributi più validi, in quanto ha bucato il sapere al quale aspira la psicopatologia, questa nemica naturale del transfert. Altri preferiscono ancora dire che è al cuore di un’etica della psicoanalisi: preferisco pensare che sia stata fonte di un imbarazzo non comune. La frammentazione dell’Ècole Freudienne in una moltitudine di gruppi, avvenuta a seguito della sua dissoluzione, è stata una forma di resistenza granulosa alla polverizzazione che una tale equivalenza poteva fomentare; cosa che lo stesso Lacan aveva annunciato a suo modo nel 1978 — al termine dell’ultimo congresso della scuola, sulla trasmissione — ammettendo che ciascun analista deve reinventare il proprio modo di praticare l’analisi.
Non è il caso, dunque, di fare del reale quella specie di dio oscuro che è talvolta diventato negli scritti e nelle parole di qualche lacaniano che cercava di impressionare l’uditorio. Il reale stesso vale quanto gli altri due registri. Ed eccoci, così, a dover ricominciare tutto daccapo. Per quanto mi riguarda, sono anni che le cose vanno avanti in questo modo. Senza troppa lucidità, ma in maniera piuttosto vivace. Non riesco a farmi del reale un’idea che valga in maniera definitiva e per questo motivo continuo a pensare che senza tale equivalenza, che continua a istigare la mia curiosità, non avrei insistito così tanto in questa pratica e in questo sapere.