La lettera che cade


Vogliamo ricordare Bruno Moroncini, filosofo, saggista e fine studioso della psicoanalisi lacaniana. I suoi libri dedicati al rapporto tra filosofia e psicoanalisi sono la testimonianza di un lavoro intellettuale originale e prezioso. La finezza del suo ragionamento, il rigore e l’ampiezza dei rimandi teorici e, soprattutto, la rara chiarezza espositiva hanno fatto della sua opera un riferimento immancabile per la formazione di ogni psicoanalista.
Pubblichiamo l’introduzione del suo ultimo libro La lettera che cade. Jacques Lacan e l’uomo come scarto (Orthotes, 2022). Ringraziamo l’editore per la gentile concessione del testo.

Dall’alba al tramonto, i cavalli e i carri andavano e venivano tutto il giorno, e pareva che facessero ben poca impressione al mucchio di rifiuti, giorno per giorno, benché alla lunga, come i giorni passavano, si vedesse che il mucchio adagio adagio spariva. Onorevoli signori del Comitato, quando a furia di spazzare e buttar via i vostri rifiuti avete ammucchiato una bella montagna, bisogna che vi togliate la giacca e vi mettiate al lavoro per portarla via, e bisogna che ci diate dentro con tutte le forze e con tutto lo zelo, altrimenti va a finire che la montagna ci crollerà addosso e ci seppellirà.

Charles Dickens, Il nostro comune amico

Raccolgo qui una serie di contributi sul pensiero di Jacques Lacan elaborati nel corso di quasi vent’anni, a partire dal primo risalente al 2005 fino all’ultimo del 2019. Sono scritti d’occasione, il più delle volte conferenze o lezioni di cui conservano l’originario tono colloquiale tipico degli interventi fatti a braccio e solo dopo, sulla base o delle scalette preparate o delle trascrizioni delle registrazioni, trasformati in testi scritti destinati alla pubblicazione. Eppure, come spesso, se non sempre, accade, a rileggerli uno dopo l’altro, come chi riveda un’intera stagione di una serie televisiva in una notte, si disegna progressivamente e a posteriori, in modo tardivo, una certa sistematicità fatta di ricorrenze, iterazioni, addirittura di veri e propri cloni di frasi, di concetti, di citazioni testuali e di giri di pensiero, sempre gli stessi, come se fossero presi da un eterno girotondo. Poiché è vero che se si va con lo zoppo s’impara a zoppicare, la frequentazione, in certi periodi quasi quotidiana, degli psicoanalisti lacaniani [1] e quella altrettanto continua, ed alle volte intensa, dei testi di Lacan, seminari ed Écrits (di nuovo il complesso rapporto fra il parlato e lo scritto), deve avermi condotto, quasi senza che me ne accorgessi, a calibrare l’andamento del mio modo di pensare e ricercare sul ritmo della ripetizione, sul ritornare sempre di nuovo sulle stesse cose (esattamente il contrario del fenomenologico andare verso le cose stesse), sull’essere condannati ad un movimento da fermo che bolla come ideologica e immaginaria ogni idea di un percorso, etico o concettuale, rivolto al raggiungimento di una meta, alla realizzazione di uno scopo.

Mi ha sempre colpito la critica feroce rivolta da Lacan alla figura cultural-politica dei “compagni di strada” paragonata per fare ancora più male a quella del viator medievale. Caduta oggi in disuso, quando il comunismo è quasi morto insieme all’Unione Sovietica, l’espressione era invece in voga durante il novecento, preso come secolo breve, per indicare quegli intellettuali borghesi schierati, nonostante la loro origine di classe, dalla parte delle lotte operaie e dei partiti di sinistra, socialisti e comunisti. Rimessa in circolazione da Lev Trockij (russo poputčik) in Letteratura e rivoluzione del 1925 dove è usata per designare quegli artisti come Block o Esenin che, pur riconoscendo la portata storica della rivoluzione bolscevica, le restano però sostanzialmente estranei e hanno con essa dei rapporti tiepidi e timorosi, [2] l’espressione cambia in parte il suo significato dopo la fine della seconda guerra mondiale (la barbarie nazista ha spinto a sinistra buona parte dell’ “Intelligentia” europea) e indica invece una adesione piena e consapevole da parte degli artisti e degli intellettuali borghesi alle politiche di sinistra, continuando però a conservare una totale autonomia, non ricoprendo ad esempio cariche di rilievo nei partiti di riferimento né praticando una militanza attiva.

È in questa accezione che compare (credo che sia un apax) nel seminario del 1973-74 Le non-dupes errent nella lezione del 18 dicembre del ’73. [3]. Lacan sta parlando delle illusioni dell’amore cui associa improvvisamente le tesi dei rivoluzionari parigini del 1968 con i quali aveva già avuto uno scontro nel 1969 all’epoca del seminario sul rovescio della psicoanalisi. Legando strettamente lo slogan identificativo del maggio ’68, e cioè “l’immaginazione al potere”, all’osservazione che nulla gli appare di più tradizionale come «l’essere di sinistra», aggiunge che «la metafora del compagno di strada» non gli parrebbe sufficiente «se non nel registro precisamente cristiano del viato[4]. Bisogna ritenere che quella parte dell’uditorio cui Lacan sta replicando («ho sentito una piccola voce là che cantava la sua canzoncina») abbia in qualche modo accennato, o semplicemente fatto pensare, all’immagine del “compagno di strada”: evidentemente i “mormoranti” (studenti, analisti in formazione o altro ancora) si pensano come “compagni di strada” di un movimento politico-sociale più vasto incentrato sulle lotte operaie cui forse aggiungono una prospettiva ideale ben espressa dallo slogan suddetto che deve evitare riduzioni economiciste e risultati burocratici tipo Unione Sovietica (basti pensare alla diffusa presenza di gruppi di ispirazione maoista nel movimento del maggio).

Che cosa alla fine Lacan rimproverava al comunismo? [5] A ben vedere quasi le stesse cose che gli rimproverava Freud in Perché la guerra? e nel Disagio nella civiltà: di essere niente più di un’illusione (quasi come la religione), l’illusione di poter guarire l’umanità dal suo disagio attraverso una rivoluzione economico-sociale in grado di modificare in profondità sia il modo di produzione della ricchezza che i rapporti fra le classi. La credenza immaginaria – “l’immaginazione al potere” – che questo basti a rendere realizzati i desideri, a ridurre al lumicino l’aggressività reciproca, ad abolire la guerra e a far tutti felici. Credenza la cui elaborazione e la cui riproposizione continuata sembra essere più il compito precipuo dei “compagni di strada” che dei dirigenti dei partiti e degli stati socialisti-comunisti impegnati piuttosto nella gestione quasi machiavellica del potere anche quando si presentasse come un “potere operaio”.

A questo servono dunque i “compagni di strada”, a elaborare la meta finale dell’azione rivoluzionaria, cercando soprattutto di fondarla attraverso un sapere certo e rigoroso in modo che essa non si presenti come un semplice anelito o un compito infinito, ma sia assunta come la conseguenza necessaria di una legge storica. Da qui il rinvio lacaniano al viator cristiano-medievale: la storia, infatti, letta in una prospettiva provvidenzialistica, diviene un viaggio o, più laicamente, una “transizione”, ma sempre verso una città celeste (o “nuova”), sia essa Gerusalemme o Mosca, Cuba o Pechino, la si chiami “società senza classi” o “comunismo realizzato”. Siamo sempre lì, alle leopardiane “magnifiche sorti e progressive”. A parte l’uso dell’età della repubblica romana prima e di quella imperiale dopo in cui i viatores sono una specie di messi comunali al servizio del senato o della persona dell’imperatore con l’incarico di informare i senatori sulle date di convocazione del senato e anche di eseguire citazioni giudiziarie, effettuare sequestri e praticare arresti, è nel medioevo cristiano che il termine acquista il suo significato più pregnante, indicando il pellegrino che si mette in viaggio per andare a visitare il santo sepolcro che per il fatto di essere ubicato a Gerusalemme diventa metonimia della citta celeste [6].

Pellegrino dal latino peregrinus, ossia straniero, significa che chi si mette in viaggio lo fa perché si sente straniero nel paese dove abita ed aspira a ritornare nella sua città natale da cui andò via per errore o fu cacciato perché colpevole di orgoglio creaturale. Non solo quindi la vita è un viaggio, ma questo viaggio ha una meta, uno scopo finale, e il tempo che si impiega a farlo ha una freccia, è unidirezionale. Si viaggia per giungere a destinazione, per realizzare un ideale, quello della vita beata, ossia di una felicità senza desideri e di una gioia, un godimento, privati della carne: cos’è un corpo risorto o glorioso se non un corpo disincarnato, cioè senza pulsioni e senza inconscio? Cercando di spiegare il perché del titolo scelto per il seminario, Lacan, nella lezione del 13 novembre del ’73, si sofferma sul significato del verbo errer in cui vanno a finire i non-dupes, cioè i non-stupidi. Assodato che dupe significhi stupido, sciocco, uno che ci casca [7], la questione in realtà riguarda errer che da un lato rinvia a error (in francese erreur, errore, come nota Lacan), che vuol dire sbagliare ma anche vagare, girovagare, vagabondare, e dall’altro però inteso come erre significa slancio, spinta, come quelli, secondo l’esempio del Robert, di un battello (Navire) che continua a correre, che non perde lo slancio, a causa della velocità acquisita. Da questo punto di vista allora errer, come specifica Lacan, vale piuttosto iterare, ossia ripetere, fare la stessa cosa una seconda volta (da iterum “per la seconda volta”) come appunto il battello che ripete il movimento precedente non perché vuole arrivare in porto, ma soltanto perché l’erre iniziale lo costringe ad andare avanti. Sembra di capire che per Lacan c’è stata sovrapposizione fra l’iterare nel senso di ripetere con l’iter (che in realtà viene da “ire”, andare), ossia il viaggio. Ragion per cui, chiosa Lacan, «un cavaliere errante è un cavaliere itinerante» [8]. Qualunque valore si voglia attribuire a tutto questo gioco di assonanze, una cosa è certa: ripetere è diverso da viaggiare. E i soggetti umani che, convinti di essere non-dupes, credono di viaggiare, in realtà vanno a zonzo sballottolati qua e là dal desiderio inconscio [9].

Per tornare a me, credo (in realtà ne sono certo) di non essere mai stato un “compagno di strada” della psicoanalisi (né di altro) e penso che questo libro lo dimostri. A differenza di altri filosofi e correnti di pensiero che vogliono dare alla psicoanalisi una meta che la salvi dalle secche del positivismo scientifico sottomettendola al giudizio del trascendentalmente fondato, posizione esattamente simmetrica e contraria a quella di coloro che ne denunciano la scientificità inconsistente e la parentela con la ciarlataneria, fin dall’inizio l’obiettivo, per me, è stato quello di utilizzare il discorso analitico per provare a scollare la filosofia dal predominio del sapere ideale, vale a dire immaginario (forse tutta la metafisica è una prestazione del registro immaginario) per ancorarla al reale del desiderio e del godimento, declinandola come un’antifilosofia, la stessa antifilosofia che Lacan evoca nei suoi ultimi anni. Giacché reale è in primo luogo ciò che torna sempre nello stesso posto, una seconda volta, e una terza, e così all’infinito, irridendo i saperi costituiti, le morali normative, i giudizi finalistici. Non c’è meta, solo insistenza e qualche volta, quando capita, nominazione del desiderio. Che resta indistruttibile e instupidente.

Da questo punto di vista se questo è un libro di incontri e di rapporti, ma anche di scontri e incomprensioni; se con il simbolo della congiunzione, “&”, mette Lacan in situazione, lo incrocia con movimenti culturali, imprese scientifiche ed autori a lui contemporanei, ne mostra da un lato il legame con la letteratura (Bataille e Gide) e il pensiero selvaggio (Levi-Strauss), e dall’altro il divergente accordo con la decostruzione (Derrida), la genealogia delle scienze umane (Foucault), la schizoanalisi (Deleuze), e l’ermeneutica (Ricoeur), ed analizza ancora il suo dissidio con la religione e l’uso intensivo della logica e della matematica moderne, non è per diluirne la portata clinica e teorica nelle acque tranquille della storia della cultura e delle idee, ma per far vedere al contrario come questo discorso riaffermi sempre in ogni circostanza la propria eccentricità, la propria singolarità, fondate sulla realtà del desiderio inconscio e sulla struttura simbolica che lo istituisce. Ribadendo ogni volta che proprio perché si è incollati alla struttura si è anche inevitabilmente dupes, cioè strutturalmente stupidi.

L’inconscio, infine, ci rende tutti difettivi, mancanti, claudicanti. Inciampiamo ad ogni passo, di continuo rischiamo di cadere, alle volte ci perdiamo come lettere en souffrance dimenticate in qualche ufficio postale periferico, in altre siamo buttati via come i sacchi di spazzatura nei contenitori appositi. A tutti noi conviene il nomignolo affettuoso con cui la madre apostrofava Benjamin bambino: «Saluti dal signor Maldestro» gli diceva quando rompeva qualcosa o cadeva. Rievocando la scena in Infanzia berlinese Benjamin collega il Signor Maldestro alla figura dell’omino gobbo, personaggio di una filastrocca letta nel suo Deutsches Kinderbuch. Parente stretto dell’Odradek kafkiano e con lui immagine perfetta dell’oggetto a, dell’oggetto-causa del desiderio che destabilizza il nostro rapporto al mondo, rendendolo fragile e insicuro, era l’omino gobbo la causa delle disgrazie che colpivano Benjamin bambino. Se cadeva, se rompeva qualcosa, se era sbadato e si faceva male, era perché l’omino lo aveva guardato, e quando l’omino getta il suo sguardo su di noi non riusciamo più a fare attenzione, le cose ci scivolano di mano, il nostro piede inciampa, perdiamo l’equilibrio e franiamo fra le risa degli astanti. L’omino è sempre lì, invisibile e presente, pronto a romperci le uova nel paniere, ad impedirci di portare a termine ciò che abbiamo iniziato, costringendoci a portare pazienza e a ricominciar da capo:

Se in cantina voglio andare
e un po’ di vin spillare,
ci sta un omino con la gobba
che mi strappa via la brocca.

E ancora:

Se in cucina voglio andare
e una zuppetta cucinare.
c’è l’omin con la gobbina
che mi sfascia la pignattina.

E ancora:

Se in cameretta voglio andare
e il dolcettino sgranocchiare,
c’è un omin con la gobbina
che l’ha già mangiato prima. [10]

Ciò nonostante, bisogna pregare per l’omino gobbo, che non scompaia, che non ci abbandoni: è solo per merito suo, infatti, che diventiamo umani, comprensivi, tolleranti, aperti. È l’inconscio che ci fa soggetti, anche se ci stordisce, se ci rende dei disadattati a(lla) vita.


Note

  1. Non perché sdraiato su un lettino con lo psicoanalista alle spalle, ma perché Paola Carola, allieva di Lacan tornata nella sua città natale dopo una lunga carriera di psicoanalista svolta in Francia, mi coinvolse insieme ad altri amici nell’impresa di dare vita a Napoli ad un Centro lacaniano di studi psicoanalitici (di cui sono stato addirittura vicepresidente) le cui attività (conferenze e seminari) durate per una diecina d’anni, dai primi degli ottanta a metà dei novanta, mi hanno permesso di conoscere quasi tutti gli psicoanalisti lacaniani francesi più importanti, dai primi seguaci di Lacan a lui coetanei come Moustapha Safouan, fino agli esponenti delle generazioni più recenti come Marcel Czermack, Jean Allouch, Gérard Pommier e Catherine Millot, oltre agli “italiani” Muriel Drazien e Gacomo Contri. Solo Jacques-Alain Miller manca all’appello: ma allora, cioè a ridosso della morte di Lacan, le scuole lacaniane erano divise e lacerate.  []
  2. Cfr. L. Trockij, Letteratura e rivoluzione, ed. it. a cura di V. Strada, Einaudi, Torino 1973, pp. 47ss.  []
  3. È più o meno noto che molti titoli dei seminari degli anni settanta sono dei giochi di parole, dei Witze simili a quelli forgiati dal lavoro dell’inconscio (come “familionario”), acrobazie senza rete sui fili tesi della lettera e del suono. Les non-dupes errent tradotto vuol dire I non stupidi sbagliano o, come recita una traduzione italiana di servizio, I troppo furbi si perdono. Ma se si pronuncia ad alta voce esso suonerà maledettamente simile a Le noms du pére, cioè I nomi del padre. Per cui o quei padri che si credono furbi finiscono per sbagliare anche loro o i nomi del padre al contrario ci proteggono dal prenderci un po’ troppo sul serio e ci aiutano ad accettare di essere quasi sempre fatti fessi dall’inconscio.  []
  4. Cfr. J. Lacan, Les non-dupes errant 1973-1974, inedito, lezione del 18 dicembre 1973.  []
  5. Secondo Jean-Pierre Cléro, sebbene Lacan faccia «un grande uso del marxismo nella sue ricerche» non attendendo il maggio ’68 per citare Marx, tuttavia «non è comunista, non si pone mai come alleato dei comunisti e tende piuttosto a provocare i suoi compagni di strada (compagnons de route) (come Merleau-Ponty). Si mostra critico nei riguardi dei governi dell’Unione Sovietica e condanna senza riserve l’uso “politico” che essi farebbero dell’internamento negli ospedali psichiatrici» (cfr. J-P. Cléro, Dictionnaire Lacan, ellipses, Paris 2008, p.71).  []
  6. Sul viator medievale si veda di F. Cardini – L. Russo, Homo viator. Il pellegrinaggio medievale, Edizioni La Vela, Monsagrati (LU) 2019.  []
  7. Tralasciamo l’indicazione etimologica di Lacan che riconduce dupe a huppe, l’upupa. Per il Robert dupe è il piccione (pingeon).  []
  8. Cfr. J. Lacan, Les non-dupes errant 1973-1974, cit., lezione del 13 novembre 1973. Sul punto vedi C. Landman, La vie est-elle un voyage?, in «La revue lacanienne», 2011/3 n° 11, Érès, Paris, pp. 187-194.  []
  9. A meno che non siano come Francesco Petrarca che, sola cupiditate ductus,decise di intraprendere il viaggio che lo doveva portare sulla vetta del monte Ventoso: cfr. F. Petrarca, Le Familiari, edizione critica per cura di V. Rossi, Le Lettere, Firenze 2008 (Ia ed. 1942), vol. I, Introduzione e Libri I-IV, p. 153. Di questa lettera del Petrarca esiste una traduzione italiana di Maura Formica: cfr. F. Petrarca, ‘La lettera del Ventoso’, Tararà, Verbania 1996, p, 3.  []
  10. Cfr. W. Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, tr. it. di C. Salzani, in Id., Scritti autobiografici, a cura di H. Schweppenhäuser e R. Tiedemann, Neri Pozza, Vicenza 2019, pp. 449-450. La filastrocca faceva parte del libro curato da Achim von Arnim e Clemens Brentano, Des Knaben Wunderhorn: Alte deutsche Lieder pubblicato nel 1808.  []