Editore: Alpes
Anno di pubblicazione: 2022
Dettagli: 280 pagine, brossurato
Codice a barre / EAN: 9788865317716
Codice ISBN-10: 88-6531-771-X
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È appena stato pubblicato per i tipi di Alpes il volume Fondamenti di tecnica psicoanalitica di Bruce Fink, tradotto dai colleghi dell’Icles di Napoli Elisa Imperatore e Christian Lombardi insieme a Cristian Muscelli. Quest’ultimo ne propone qui di seguito una breve presentazione.
Fondamenti di tecnica psicoanalitica è la continuazione del lavoro di introduzione dell’opera di Bruce Fink nel panorama psicoanalitico italiano. Se Il soggetto lacaniano (Poiesis, 2021), con cui Fondamenti fa certamente il paio, mostra l’abilità e la chiarezza nel maneggiare e spiegare le difficili acrobazie intellettuali di Lacan, Fondamenti rende visibile il progetto etico dello psicoanalista americano. L’interrogativo di fondo al quale Fink vuole provare a dare una risposta è: quale pratica psicoanalitica può dirsi “lacaniana”? L’impressione, dichiara provocatoriamente l’autore, è che in molti credano di essere “lacaniani” ma che, in verità, il loro modo di condurre la cura non lo sia affatto.
Per chi crede e sarebbe pronto a scommettere che non c’è alcuna possibilità di ridurre a un “manuale” la pratica clinica orientata dalla teoria lacaniana questo libro rappresenta una vera sorpresa. Fink illustra la sua pratica clinica con dovizia di particolari e senza temere di dichiararne i principi fondamentali, quei criteri e quelle finalità che devono orientare ogni analista che voglia lasciarsi guidare dalla teoria freudo-lacaniana: dalla lettura emerge con forza come la cura – con i nevrotici – debba essenzialmente puntare al rimosso e rintracciare la presenza dell’oggetto a nella vita del soggetto. Inoltre, è interessante osservare come Fink sia capace di tenere assieme le diverse fasi del pensiero lacaniano e, di più, integrarle nello stesso processo di cura; infatti, uno dei maggior pregi della sua proposta è che i “momenti” teorici lacaniani (quelli del Lacan dialettico, strutturalista, etc.) sono integrati e inseriti nello sviluppo del percorso analitico. L’analisi, così come la descrive Fink, è una trasformazione del soggetto che in qualche modo ripercorre le tappe della trasformazione del pensiero lacaniano.
La semplicità con cui Fink si esprime e spiega le ragioni per cui un’analisi debba necessariamente essere condotta in un certo modo insegna che parlare in maniera comprensibile della psicoanalisi lacaniana è possibile. Non crediamo sia un arbitrio dire che lo stile di Fink sia più prossimo a quello di Freud, e, del resto, in più luoghi nel suo lavoro l’autore nota come molte delle difficilissime espressioni di Lacan possano essere ridotte a concetti molto semplici, mentre moltissime espressioni apparentemente piane di Freud contengano elaborazioni straordinariamente complesse e innumerevoli implicazioni.
Niente di quel che illustra del suo orientamento clinico non è sostenuto dalla teoria, al punto che più si avanza tra le pagine del testo più si afferma la necessità di produrre, sia a livello istituzionale che nella pratica di ciascuno, una autentica “teoria della pratica analitica”: d’altra parte, avverte Fink, se la clinica perde la sua rilevanza la teoria psicoanalitica rischia di diventare una (spesso disattenta) filosofia.
Ed è proprio la forza di quell’impianto teorico che sostiene la pratica che potrebbe consentire di superare il timore che molto spesso regna negli ambienti “psi”: il timore di spiegare, di dire con chiarezza, di mostrare il “come si fa”. Le ragioni posso essere molte: innanzitutto il timore di banalizzare, di ridurre a qualcosa di semplice, e dunque de-complessificare, la psicoanalisi, una semplificazione che si tradurrebbe, immaginariamente, in un suo depotenziamento. In questo contesto, si potrebbe forse ravvisare pure un godimento dell’analista nel “silenzio analitico”, un silenzio che, persa la sua funzione di attivatore nell’inconscio del paziente, si fa, immaginariamente, contenitore di una sapienza e di una potenza infinite, ai limiti della magia. La stessa proliferazione delle parole e delle pagine sembra spesso voler conservare la forza magica di quel silenzio, poiché la disorganizzazione e l’inconcludenza di un discorso al silenzio lo assimilano.
Le obiezioni a questo approccio potrebbero essere almeno due: la prima è che la volontà e lo sforzo di dire con chiarezza e di stabilire strumenti e obiettivi implicherebbero il mancato riconoscimento della particolarità del discorso dell’inconscio; la seconda è che così si rischia di ossessivizzare il setting analitico. La prima obiezione chiama in gioco una questione di enorme portata: si tratta di decidere cosa debba essere la pratica analitica, se si debba dar seguito o meno alla volontà di Freud di renderla, quanto più possibile e con tutte le sue irriducibili particolarità, una sorta di scienza.
Sulla seconda obiezione, si potrebbe, intanto, contro argomentare che i tratti ossessivi sono individuabili anche nella mancata volontà di esplicitare forme e contenuti, perché proprio l’evitamento della chiarezza consente di continuare a parlare indefinitamente, un parlare esagerato che è in fondo il mascheramento del desiderio ossessivo di comprendere e dire ogni cosa. Se anche non si può dire chiaramente qualcosa – e non è vero che bisogna tacerne (questo sarebbe contro l’essenza stessa della psicoanalisi) – non significa che si possa dire tutto disordinatamente: c’è una logica nell’inconscio. Non dire, con relativa chiarezza, cosa si fa e come lo si fa, in fondo, equivale al silenzio, ad un silenzio originario e mitico che non si vuole perdere, un silenzio che, forse, è all’origine di una profonda nostalgia degli psicoanalisti (anderebbe interrogata).
Scegliere una teoria, per quanto necessariamente aperta, costruire un sistema, per quanto minimo, significa rinunciare ad altre possibilità (omnis determinatio est negatio, direbbe lo Spinoza caro a Lacan), e questa rinuncia è una necessità etica. Ognuno può e deve decidere per sé, e di certo Fink può aiutare ad elaborare questa decisione.