Perché occorre ancora che ci parliamo?


Pubblichiamo un articolo di Claude Allione, nel quale lo psicoanalista francese riassume le principali tesi esposte nel suo libro La haine de la parole, pubblicato per la casa editrice Les Liens qui Libèrent. In un contributo breve ma denso, vengono presentate considerazioni utili a sviluppare un’analisi critica della contemporaneità.
Testo di
Claude Allione – Psicoanalista, Membro di Espace Analytique
Traduzione di
Franco Lolli


Sarà perché le nostre professioni, qualunque sia la loro funzione o il loro fondamento, sono professioni di parola (nel senso che la parola è lo strumento prioritario del nostro intervento) che è necessario, in ogni momento e da prospettive diverse, interrogarci sullo stato attuale della parola e sul suo avvenire.

Che significa “professione di parola”?

L’infermiere, così come l’educatore, lo psicologo, lo psichiatra, il supervisore, ma anche l’amministratore, l’insegnante o il giurista, o addirittura il diplomatico, non possono ‘produrre’ alcunché senza il sostegno delle parole. Il loro strumento principale è la parola, tanto quanto quello del falegname è la sega o quello del muratore è la spatola. Non è un caso se è proprio a queste professioni che si può applicare la celebre formula freudiana, secondo la quale educare, governare e curare sono dei mestieri impossibili. Sul punto, bisogna ricordare che Freud aveva posto la questione della fine dell’analisi in termini di incompletezza — torneremo tra poco su questo termine — e che tale “impossibile” è, innanzitutto, da intendersi in questa accezione, cioè come sinonimo di incompleto. L’educazione, per fare un esempio, non può considerarsi ben riuscita se non fallisce, ossia se l’educato non si emancipa dalla presa dell’educatore, per lasciare emergere al suo interno una postura di soggetto. L’umano — afferma Mireille Cifali — sfugge alle predeterminazioni.

Nel campo della salute — sia mentale che fisica, riguardante l’handicap così come il disagio sociale — è parlando che ci si aspetta di riportare alla luce quel che si è inabissato nel sintomo, è dando la parola all’altro, è invitandolo a prenderla, ad accreditarsene. È questo il dato essenziale dell’atto di parola che ha obiettivi terapeutici: “se vuoi superare la sofferenza, comincia con il dirla!” E se il professionista intende superare la sofferenza causata dall’ascolto della sofferenza, che cominci a sua volta col dirla. Qualunque psicoterapia istituzionale si ancora a questo dato, a un atto di parola, in altri termini, a una parola in atto, che ci serve come viatico, essendo il nostro strumento, il nostro supporto, per dirla in termini winnicottiani, la nostra holding. Uno psy che non crede alla parola è come un marinaio che non crede alla portanza dell’acqua.

Detto questo, come non preoccuparsi del futuro della parola?

In effetti, numerosi segnali indicano che un danno alla parola è stato già perpetrato e che tale danno si è infiltrato fin dentro la pratica del nostro mestiere. Mi riferisco, essenzialmente, a quanto ho potuto constatare nella posizione di supervisore, posizione che ho occupato per più di venticinque anni.

Da dove proviene questo danno?

Per rispondere a questo interrogativo, dobbiamo affrontare la questione da un punto di vista logico: innanzitutto, occorre ricordare che parlare è un effetto della mancanza. Manco, dunque dico. In uno dei suoi esercizi di falsa ingenuità, Roman Jakobson, il grande linguista, si chiedeva in che modo possiamo sapere se, veramente, tutte le balene del mondo sono qui presenti, nella speranza di averle riunite tutte. Poneva, in questo modo, la questione del rapporto tra consistenza e completezza. Volete essere completi? Bisognerà sopportare una certa inconsistenza. Volete, al contrario, esser consistenti? Bisognerà accettare di essere incompleti. Volete essere entrambe le cose? Ebbene, vi ingannate.

Non c’è parola se non nella mancanza, e noi possiamo conservare la nostra consistenza (o restaurarla quando si trova indebolita) solo al prezzo di soddisfarsi di una certa incompletezza. Questi due concetti ci derivano dai lavori del matematico Kurt Gödel, lavori che riprendono il famoso paradosso del barbiere di Russell (il barbiere che rade tutti coloro che non si radono da soli può radersi da solo?). Gödel ha dimostrato che gli assiomi della matematica formale o formalizzata, supposta consistente, non possono che essere incompleti. Se si rovescia questo principio – vale a dire, se si mira a stabilire una completezza infinita attraverso la saturazione – si rischia di produrre un’inconsistenza sempre crescente. Ho voluto dimostrare nel libro La haine de la parole che la saturazione è quel che noi viviamo ogni giorno, una saturazione che non cessa di amplificarsi.

Il teorema di Gödel dimostra l’incompletezza di ogni sistema assiomatico e suppone la separazione radicale tra verità e dimostrabilità. Ciò che è vero non può essere dimostrabile e ciò che è dimostrabile — cioè, dimostrato — non è sempre vero.

È la logica stessa della parola, per la quale colui che parla non può che situarsi nella posizione di… colui che parla. Egli è soggetto della parola, non dell’azione. Tra il dire una cosa e viverla esiste una innegabile contraddizione interna. Parlare mi rende consistente perché, per l’appunto, accetto tale incompletezza propria a ogni forma di parola.

Questa scelta, o piuttosto questo determinismo che ci fa incompleti senza possibilità di ricorso, è ancora compatibile con gli imperativi del mercato ipercapitalista? Quest’ultimo, nel godimento che gli è proprio, impone, senza sosta, tanto una logica saturante quanto l’affermazione (indimostrabile) della sua completezza e, per questo motivo, della completezza che ci promette, come se fosse in grado di colmare la mancanza originaria di tutti gli esseri umani… o quasi. Di conseguenza, la logica del mercato non può che forzare le cose oltre il paradosso, pretendendo di trasformare ciò a cui siamo abituati, un sistema consistente poiché incompleto, in un sistema che si vorrebbe assurdamente consistente e completo, deterritorializzando quel che Jean-Pierre Lebrun definisce “posto d’eccezione”, cioè, in sostanza, il fondamento stesso della parola: il che finisce col pervertirla e renderla inconsistente.

Il mondo che è il nostro (formula assurda, questa, in quanto siamo suoi nella stessa misura in cui è nostro) si è gradualmente piegato verso una nuova possibilità, le cui radici ho mostrato che affondano, per certi versi, nell’esperienza di Auschwitz, emblema definitivo della saturazione della morte. In meno di un secolo, la buona vecchia società detta “dei consumi” è diventata una società di saturazione. In questo tipo di società, tutto è saturazione di tutto. Saturazione di rumori, di immagini, di luci, di strade, di componenti chimici, saturazione del gusto, dell’eccitabilità mediante una costante stimolazione (si eccita incessantemente il bambino, per poi scoprire che è divenuto instabile e passare a saturarlo di farmaci) che bandisce ogni forma di noia, quasi fosse un veleno, saturazione dell’informazione, saturazione della saturazione, ecc.

In altre parole, la società ipercapitalistica postmoderna ha scelto (ma chi è poi colui che avrebbe fatto tale scelta?) la negazione della mancanza attraverso la saturazione.

Si è a mezza voce istituito una specie di undicesimo comandamento che afferma: “non mancherai di nulla”. Intendiamoci bene: non si tratta di una nuova saturazione orientata da ideali di solidarietà, una forma di saturazione che punterebbe a porre rimedio alle mancanze dei più deboli, ma, al contrario, del fatto che mancare è diventato una sorta di peccato, al pari del mentire, del rubare o dell’uccidere.

Per maggiore chiarezza, facciamo un esempio che può risultare comprensibile a tutti. C’è stato un tempo, non troppo lontano da quello attuale, in cui il fatto di non ricordare un nome o una citazione — sebbene li avessimo, come diceva Pascal Quignard, “sulla punta della lingua” — ci spingeva a consultare altre persone, a fare delle ricerche, a rovistare voluminosi e talvolta improbabili documenti. A parlare, dunque. Ma il risultato era insoddisfacente e, a un certo punto, finivamo col rassegnarci: tuttavia, il ricordo inaspettatamente tornava proprio quando smettevamo di cercare. Qualche settimana fa, ero alla ricerca del nome di un’analista inglese — deceduta — che viveva in Francia. Non ho dovuto far altro che consultare il mio Smartphone per trovarlo in pochi secondi. È così che l’oblio si riduce sempre più, così come, allo stesso modo, la mancanza. Il che, beninteso, è molto divertente e pratico, sebbene in fondo funzioni un po’ come quello che Bernard Stiegler ha definito pharmakon: ciò che guarisce può anche uccidere. In altre parole, la sensazione di mancanza che spinge a dire, nel momento in cui si muove in uno spazio saturato e saturante, tende a estinguersi e il dire stesso si diluisce al suo interno. Non che — attenzione – non si parli più, tutt’altro: si parla una lingua senza necessità, senza desiderio, senza progetto. Si parla, in una certa misura, per non dire nulla.

In altri termini, la saturazione è ciò che colma la mancanza, la quale ha costituito da sempre la base stessa della parola.

Ho recentemente sentito Michel Serres affermare che con l’uso dello Smartphone non si è andati avanti un granché: si è più informati, ma con meno possibilità di apprendimento. Per lui, ci sono ancora motivi di speranza. Ma credo che si sbagli: la saturazione ci incita a conoscere — intendiamoci: a consumare la conoscenza — senza che sia necessario sapere, né voler sapere, in quanto questo sapere ce l’avremo sempre in tasca. Ad essere in gioco non è il fatto di mancare di una cosa o di un’altra, ma l’essenza stessa della mancanza.

Mancanza che non è perdita. Credo sia utile distinguere la perdita dalla scomparsa (dissolvenza), che Lacan situa alla radice stessa del soggetto. Nel Seminario XI, lo psicoanalista parigino presenta due generi di mancanza. Una deriva dal fatto di essere nominata, di dipendere dal significante, che è nel campo dell’Altro; mentre l’altra mancanza è anteriore, è da situare a livello della riproduzione ed è una mancanza che Lacan designa come reale. Il vivente perde la sua parte di vivente che in seguito cerca come conseguimento del complemento: cerca, cioè, la parte da sempre perduta di sé stesso destinata a diventare la libido. Lacan cita, a questo proposito, lo svanimento, afanisi, della placenta: ho ritenuto necessario aggiungere a questa osservazione che, nel momento della nascita, svaniscono anche i ritmi intrauterini che hanno cullato senza sosta la nostra vita prenatale.

Sin dall’origine, dunque, siamo mancanti, senza speranza di completezza. Ma la logica del mercato, diventato nel tempo il Santo-Mercato, a causa della sua pretesa di occupare il posto del Grande Altro, del quale tutti denunciano la crisi — ma la forza del Santo-Mercato è quella di sapere rimbalzare, rinforzandosi, su ogni crisi – ha compreso perfettamente che, saturando lo spazio sociale, conduce i soggetti a vivere in uno spazio non più desiderante ma essenzialmente automatico, pavloviano, direi. Logica ben descritta da uno dei suoi cantori, l’economista statunitense Milton Friedman, ispiratore dei neo-conservatori:

le quotazioni che emergono dalle transazioni volontarie tra acquirenti e venditori sono in grado di coordinare l’attività di milioni di persone, delle quali ognuna pensa solo al proprio interesse. Il sistema delle quotazioni svolge queste operazioni in assenza di qualsiasi direttiva centrale e senza che sia necessario che le persone si parlino e si amino.

In questo passo, è detto tutto: stando ad esso non sarà più necessario né parlarsi né amarsi. Resta da sapere come gli attori dei nostri mestieri saranno capaci di infilare un granello di sabbia nel meccanismo fin troppo evidente di questo ipercapitalismo, che rischia di condurci nell’impasse della sedicente completezza attraverso la saturazione. La psicoanalisi ha un ruolo da giocare in questa avventura, da mettere in atto al fianco di tutti coloro la cui parola costituisce lo strumento prioritario del proprio intervento.