La “Barbie” di Greta Gerwig


Un riuscito, prolungato, furbesco spot pubblicitario

Presentiamo l’articolo di Mario Pezzella, pubblicato su «Terzo Giornale» il 7 settembre.
Ringraziamo l’autore e la rivista per l’autorizzazione concessa.

C’è da chiedersi perché questo fumettone confuso e pretenzioso sia divenuto un fenomeno rilevante dell’immaginario collettivo: tanto che merita di essere visto e considerato da questo punto di vista. Sul film in quanto tale non si può che concordare col giudizio di Priyamvada Gopal: “Niente di terribile, ma anche niente di brillante – e un sacco di sorprendente stupidità”. Certo, a un vecchio cinéphile dispiacciono particolarmente alcune sequenze: per esempio la citazione involgarita dell’inizio di 2001 Odissea nello spazio di Kubrick, dove le bambine inferocite (invece degli scimmioni dell’originale) sono miracolate dal tocco di una Barbie formato gigante, e distruggono le loro vecchie bambole antiquate; oppure lo zoppicante controcanto a Pinocchio e al film di Spielberg Intelligenza artificiale sul bambolotto automa che diventa umano; o ancora il veramente penoso richiamo a Thelma and Louise, nel viaggio in macchina emancipatorio di Barbie insieme alla disegnatrice e a sua figlia.

Ci si sarebbe anche potuti risparmiare la battuta sulla Barbie-Proust, che non ha avuto successo commerciale, o la versione caricaturale del Grillo parlante e della Fata turchina (la Barbie “stramba”, che offre la scelta: scarpe coi tacchi o Birkenstock, per poi imporre risolutamente le Birkenstock, unico modo per entrare nel mondo reale: va bene la pubblicità, ma qui si scende davvero in basso).

Temi complessi, come il rapporto tra matriarcato e patriarcato, vengono affrontati con banali pistolotti adatti agli haters dei social network, che non hanno né corrispettivo visivo né profondità; e in ultima analisi il tentativo di trasformare la bambola icona del corpo-oggetto femminile, del feticismo narcisista della bellezza perfetta, in simbolo di liberazione femminista, ha qualcosa di veramente grottesco e dovrebbe dispiacere a chi tale liberazione la prende sul serio. Non senza suggerire contraddittoriamente, e in modo ammiccante, che in fondo la cosa più importante è il rapporto madre-figlia, ricostruito e pacificato, guarda un po’, grazie al ritrovato comune affetto per la bambola (!), in una sottostoria parallela e familista. Ce n’è insomma per tutti i gusti.

Ma forse stiamo sbagliando tutto parlando di Barbie come se fosse un film, mentre invece è un riuscito, prolungato e furbesco spot pubblicitario; se come film è inguardabile, come spot è indubbiamente notevole. Già si vedono vetrine piene dei vestiti, dei gadget, degli arredi del film; e non si tratta solo di negozi di giocattoli, ma di abbigliamento per adulti, già nascono gruppi virtuali di fan di Barbie e (ahimè!) perfino di Ken (eterogenesi dei fini favorita dal “divo” che interpreta lo sbullonato maschietto). Nasce cioè un mondo virtuale parallelo, così che mentre la favoletta del film ci racconta del viaggio della bambola verso la realtà, succede invece che gli spettatori fuggano in un immaginario di bassa lega, in cui ogni problema e conflitto è edulcorato e risolto in un felice capitalismo bonaccione e impacciato, come quello dei dirigenti della Mattel, produttori del film, oltre che delle bambole, e personaggi essi stessi. Ed è questa fuga degli spettatori in un mondo immaginario elementare che è necessario interrogare, questa gioiosa macchina da regressione.

Aggiornate ai tempi nuovi, abbiamo Barbie avvocato, magistrato, medico, sempre s’intende col corpo perfetto e incontaminato di una pin-up, che si vendono, sembra, a ritmo vertiginoso. Tra le sgangherate citazioni, si ricorda ancora l’incontro finale della bambola con la sua inventrice (in verità ispirata, pare da Bild Lilli, bambola tedesca per adulti degli anni Cinquanta), con un richiamo a Blade Runner e al confronto del replicante col suo creatore. E forse questi contorti e ritorti intellettualismi sono davvero la cosa meno felice del film, perché spingono al confronto impietoso tra gli originali e le immagini banali con cui vengono ricordati e diluiti nello stile della pubblicità più corriva.

Infine, è abbastanza significativo che la bambola diventi sì donna (alla fine la vediamo che va dal ginecologo: modo non troppo raffinato per indicare la trasformazione), ma sempre e rigorosamente sola: non ama un uomo, non ama un’altra donna, è orgogliosamente e perfettamente autosufficiente. Con tutti i crismi dell’individualismo narcisista e neoliberista, di cui questo fumetto è, in fondo, un’apologia.

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