Diagnosi e invecchiamento


Ambrogio Cozzi è venuto a mancare. La sua scomparsa ci lascia senza parole: un collega stimato, uno studioso serio, un clinico affidabile, un amico. Vogliamo ricordarlo con un suo testo, pubblicato nel 2019 all’interno del libro La cura della persona con disabilità intellettiva.


1. Sulla diagnosi

È la fine della giornata al centro diurno, nel cortile la confusione degli autobus che trasportano i disabili. Mi sto avviando lì per una riunione. Ad un tratto si avvicina Mauro, un ragazzo sui trent’anni, disabile intellettivo. “Dottore, prima ero ritardo, poi handicap, poi disabile e adesso invalido. Io chi sono?” e repentinamente si allontana scuotendo la testa. Disapprovazione? Riflessione su quel che ha detto senza attendersi nessuna interlocuzione? Frammenti di discorsi ascoltati nella cerchia familiare e riportati?

Impossibile avere una risposta, eppure altrettanto impossibile non ipotizzare su questa frase che rimane come troncata, lampo di una possibilità che immediatamente si ritrae, non sostenuta, creando sconcerto e inquietudine in chi assiste. L’incontro non è avvenuto, lo slancio che aveva guidato l’affermazione non è seguito da nulla, lui si è allontanato, quasi che ciò che è accaduto non scandisse il tempo, non lasciasse traccia o segno. Ho preso questo episodio come avvio di una riflessione su diagnosi e invecchiamento perché mi sembra emblematico delle difficoltà che incontriamo affrontando questo tema.

Nell’elenco che fa Mauro possiamo leggere in filigrana il tentativo di disinnescare il problema dell’handicap cercando parole che depotenzino l’enigma che l’incontro con un soggetto gravemente disabile suscita. In fondo le parole cercano di connotare, di circoscrivere proprio questa realtà.

Nel giro di pochi anni le definizioni dell’handicap o, che dir si voglia della disabilità, si sono succedute una dopo l’altra, come in un vertice inebriante, ora coniando improbabili neologismi ora inerpicandosi nel linguaggio alla ricerca di una formula impossibile, in grado di coniugare al suo interno la designazione di una diversità e, nel contempo, la sua negazione…… Le parole, il mare delle parole, le invenzioni linguistiche più o meno politicamente corrette vanno da una parte. L’handicap rimane inchiodato da un’altra, come un guerriero tenace e impenetrabile che osserva impassibile il fluire della corrente… [1]

Parole che assegnano un posto, parole che sono o pretendono di essere diagnosi. Tentativi di colmare un’inquietudine che l’incontro con l’alterità causa, di confinare la diversità, solidali con il movimento opposto che tende a negare l’alterità sulla base di un’eguaglianza ideologica affermata nelle parole ma smentita nella presenza corporea, nella stessa figura dell’altro disabile.

Parole che corrispondono a volte agli incontri con le varie istituzioni che di lui si sono occupate, ma che fanno indice di una difficoltà a porre un confine rispetto alla disabilità, a circoscriverla senza che il soggetto venga cancellato.

Ogni diagnosi risente di un processo riduttivo

….dal momento che consiste in una operazione di riduzione della complessità e di ricerca di fenomeni costanti e generalizzabili in una dimensione sovraindividuale. Tuttavia criticare l’aspetto riduttivo della diagnosi sarebbe un po’ come sostenere che la mappa di Londra non consente di avere una reale conoscenza della città. Tutto dipende da cosa ti aspetti dalla carta geografica che hai a disposizione? [2]

Il problema però non è solo o non tanto la riduzione

Che la diagnosi sia il risultato di un processo di riduzione è assolutamente scontato. Una diagnosi non può essere nient’altro che questo. Ma il problema è che cosa ci si attende dalla diagnosi e che uso se ne fa. Una diagnosi che addormenta ogni ulteriore possibilità di conoscenza si pone come ostacolo nella relazione terapeutica. È necessario che la capacità di stupirsi del clinico di fronte ai fenomeni che osserva resti viva. Quella “l” che marca la differenza tra approccio “clinico” ed approccio “cinico” va difesa ad ogni costo. [3]

Ma proviamo a partire dall’inizio, proprio da quel momento che cerca di assegnare un posto all’handicap, dal primo passo di conoscenza, dalla diagnosi.

Il modello ovvio a cui riferirsi se si parla di diagnosi è quello medico

La logica di una diagnosi medica è una logica del riferimento. In questa logica, una cosa, o un ordine di cose, rinviano a un’altra cosa, o a un altro ordine di cose. La prima cosa, quella che, nel sistema della diagnosi, fa riferimento all’altra, è dell’ordine delle cose non solo osservabili, ma anche osservate. È dell’ordine dei segni o dei sintomi. La seconda cosa, il riferimento alla prima, è dell’ordine delle cose non immediatamente osservate. [4]

La diagnosi apre dunque ad una dialettica tra ciò che è manifesto e ciò che è nascosto, e nella relazione tra i due si configura il rimando all’etimologia stessa del termine diagnosi

Nell’intreccio delle sue radici troviamo il conoscere,il riconoscere, il capire…..”attraverso”, “per mezzo di”. Attraverso cosa? Per esempio i sintomi (soggettivi e riferiti dal paziente) e i segni (oggettivi e riscontrati dal medico), grazie ai quali si può risalire alle cause e si possono fare ipotesi……. [5]

Se vogliamo trasferire questa indicazione sulla diagnosi in termini psicoanalitici la possiamo concettualizzare come differenza tra fenomenologia e struttura. Con la prima possiamo indicare le manifestazioni del disagio che variano da persona a persona, con la seconda l’intelaiatura entro cui si dispone la soggettività di un individuo che traccia il perimetro non superabile e che indica un qualcosa di immutabile, un limite che non può essere forzato. Ma questo perimetro funge da guida al terapeuta nelle relazioni con il paziente, segna un confine tra ciò che si può fare e ciò che è da evitare. Quindi, se da un lato consegna il paziente ad una sorta di ineluttabilità, dall’altro apre al terapeuta il richiamo alla soggettività del paziente, alle sue dinamiche intrapsichiche, alle strategie del suo desiderio inconscio.

Ciò implica l’esistenza di una dinamica intrasoggettiva tra quel che è riconosciuto e quel che è celato, tra la coscienza e il rimosso, tra l’Io e le pulsioni e i desideri. La priorità che guida l’indagine psicoanalitica pone al centro della sua ricerca la questione del soggetto dell’inconscio, come sua bussola d’orientamento clinica ed etica [6]

Nell’handicap però questo rimando appare problematico, sembra che la disfunzionalità cancelli la soggettività, la azzeri. Lui, il soggetto disabile, d’altra parte, non riesce a formulare nulla sulla sua condizione, non cerca un incontro sulla base di una sofferenza espressa di cui non rinviene le ragioni. Sono gli altri, i normodotati che cercano di circoscrivere e dire qualcosa della sua condizione.

L’handicap nella sua pervasività annulla la soggettività del paziente. Il rimando tra struttura e fenomenologia si azzera, non ritroviamo una struttura sottostante nella quale inscrivere quel che incontriamo. L’operazione da fare è allora inversa, l’attenzione a quel che accade, a ciò che nell’incontro emerge, diviene prioritaria. È l’unica operazione che configura una possibilità per evitare che la soggettività rimanga pervasivamente adesa all’handicap. È nei minimi frammenti, in quei lampi improvvisi che si può cogliere qualcosa che faccia indice del soggetto. Un’inversione necessaria che comporta proprio attraverso il primo passo della diagnosi un’ipotesi di intervento differente.

Senza questo orientamento rimane solo la constatazione del deficit, magari quantificata, ma che non rende esenti da un percorso successivo volto a riempire o cercare di supplire a quel che non c’è, con poca attenzione a quel che c’è. I percorsi di apprendimento perenne, che nel tempo non portano ad altro che constatare l’aumento del ritardo, oppure i traguardi continuamente spostati nel tempo ne sono un esempio lampante. Il mezzo viene scambiato con il fine, il modo in cui si passa del tempo insieme, quello che accade, va sullo sfondo, non viene raccolto da nessuno che faccia indice che qualcosa è passato, che quel che è emerso nelle pieghe dell’incontro ha incontrato qualcuno che ha provato a dotarlo di senso.

Raccogliere quel che emerge significa inserire gli incontri in una serie temporale, dotarli di una storia in cui quegli incontri possano stare, significa aprirsi al nuovo, alla sorpresa che può intervenire, ma non lasciarla come un elemento isolato, bensì dotarla di continuità, in cui la sorpresa di oggi possa rimandare all’incontro di ieri, costellazione di eventi che scrivono gli incontri tra soggetti. D’altra parte la risposta stessa che i soggetti disabili danno agli eventi impone una strategia di questo tipo. Il differimento temporale delle loro risposte, la cui causa diviene comprensibile, a loro e a noi perché ne parlano con noi, avviene con uno sfasamento temporale, prima l’evento, a distanza di tempo il tentativo di capirne qualcosa. Quasi che nell’irriflesso venisse in luce una difesa immediata, spesso incomprensibile al momento, spaesante, che viene ripresa in un tempo successivo attraverso parole smozzicate, che cercano di dire qualcosa intorno all’accaduto, deformate a volte da un ricordo improvviso, ma che lasciate cadere finiscono con l’attribuire tutto alla situazione iniziale di deficit senza cogliere quel che faticosamente emerge come possibilità di movimento, di dotazione di senso alle proprie azioni.

In questa prospettiva la diagnosi diviene il primo passo che orienta il lavoro con soggetti disabili, nel senso che traccia una via possibile di convivenza, di riuscire a capire e cogliere quello che nella convivenza succede, di capire la fatica e i movimenti minimi di un soggetto.

2. Ricevere una diagnosi

Ma che cosa succede all’interno di una famiglia che riceve una diagnosi di disabilità intellettiva per il proprio figlio, quali ripercussioni sulle attese e fantasie che hanno accompagnato quella nascita, quali rimaneggiamenti comporta, quali paure accompagnano quella diagnosi.

Conoscere il nome della malattia non è tutto. Incamminarsi verso la diagnosi, capire la diagnosi sono delle tappe che esigono un accompagnamento particolare ma cosa ne è dell’accompagnamento dopo la diagnosi? Noi dobbiamo imparare a vivere con “questo X fragile” sapendo che abbiamo una malattia ma che non siamo questa malattia. [7]

Purtroppo la distinzione tra l’aver e l’essere non sempre funziona. Spesso tutta l’esistenza familiare comincia a girare attorno alla disabilità. Vuoi per il peso concreto che la stessa produce a livello del prendersi cura, vuoi per i fantasmi o i non detti che accompagnano la cura stessa [8]. È merito di Simone Korff-Sausse aver individuato un aspetto particolare che interviene al momento della diagnosi, isolando un fenomeno che poi guida e orienta tutta la successione della cura che è quello del collasso temporale. [9] Un collasso temporale che interviene al momento della diagnosi e si prolunga nel corso della vita.

I mutamenti del corpo, delle espressioni, delle abilità, rinviano ad una concezione del tempo come di una freccia. Una freccia con una direzione lungo la quale le generazioni si succedono, tramandando un’eredità, una memoria di quel che si è, si è stati, si sarà. Accanto a questa dimensione ne convive un’altra, ciclica, che si ripete e si sovrappone alla precedente interferendo con la prima. Non è solo la ciclicità dei giorni, ma anche una ciclicità diversa, che possiamo reperire quando ci capita di pensare di commettere sempre gli stessi errori, il tempo della ripetizione. Come ha messo ben in luce Facchinelli [10] si può incontrare in alcune patologie l’utilizzo della ciclicità come tentativo di abolizione della direzionalità. Un tentativo per riuscire ad annullare quel che accade, un ritorno del ciclo che annulla il tempo, quasi che il tempo vissuto si ripiegasse su se stesso permettendo di annullare l’azione compiuta.

Nel campo della disabilità però questa temporalità ciclica è come se si arrestasse, l’evento non può essere annullato, l’accaduto si impone in tutta la sua pregnanza. Potremmo dire in questo caso che il tempo si ferma. Se in altre patologie la ciclicità corrisponde ad un’alternanza tra “ora” e “non ora”, nel campo della disabilità abbiamo solo il “non ora”. Una concezione che possiamo esemplificare nei discorsi sull’autonomia del disabile, caratterizzati da un continuo rinvio nel tempo e nelle finalità di quel che si pensa di raggiungere. Discorsi fatti dalla parte di chi se ne prende cura, lui, il disabile, rimane sullo sfondo, figura pietrificata dall’handicap che lo inghiotte, impossibilitato a dire, e quel poco che dice cade inscritto ancora dentro la sua patologia, che così lo riassume e lo rappresenta.

Un tempo fermato in un eterno presente, ancorato all’evento iniziale, dove il senso e la successione delle età della vita sono completamente rimaneggiate. Se pensiamo alle rappresentazioni che noi stessi abbiamo della disabilità ci rendiamo conto di come siano legate all’infanzia, senza proiettarsi nel tempo. Capita di parlare di “ragazzi” e poi scoprire che i “ragazzi” in questione hanno a volte più di sessant’anni.

La vita familiare viene sconvolta dalla presenza del disabile, il desiderio ha subito un’umiliazione iniziale, non si può più coniugare con la speranza della sua realizzazione. Gli investimenti, le proiezioni sul figlio atteso si sono scontrate con l’evento che segna un’impossibilità e una caduta. Il futuro ha subito una contrazione, si è fermato in un eterno presente che contemporaneamente cancella il passato consegnandolo all’illusione, ad un prima con cui l’adesso marca la discontinuità più forte.

Ma l’originalità di Simone Korff-Sausse sta nel mettere in relazione questo collasso temporale con una sottrazione rispetto alle norme che reggono l’esistenza

..Sfuggire al tempo coincide con l’arresto del ciclo delle trasformazioni. Questo è l’universo impossibile e impensabile del medesimo. Ed è proprio questo inferno o questo paradiso che noi vediamo realizzato in alcune famiglie, interamente devote al loro handicappato, centro dell’investimento libidico familiare, sorgente di tutti i piaceri….Il tempo si ferma……il tempo che vivono i familiari in questo frangente è un tempo senza l’altro [11].

Se il lutto può essere rielaborato nel tempo, questa convinzione viene messa in scacco davanti all’handicap: il tempo non risolve nulla, anzi rinnova continuamente la perdita., paradossalità di un tempo che oscilla fra l’istante traumatico e la durata illimitata. In questa durata senza limiti si costituiscono le relazioni duali impenetrabili alla parola, costruite sull’interdetto, sull’impossibilità a dire, dove la relazione da protezione possibile diviene unico rifugio verso un esterno minaccioso.

Sarebbe necessario scrivere la lunga lista dei rifiuti e degli abissi scavati dal divario tra le affermazioni di principio e i fatti conseguenti. Sicuramente questi contribuiscono a rendere conto del bisogno di protezione, configurano la necessità di riuscire a rappresentare chi non riesce a rappresentarsi. D’altra parte come evitare di pensare che non tutti gli incontri sono buoni incontri, il rischio esiste.

Ma spesso la protezione va oltre, il disabile non viene rappresentato da qualcuno, ma qualcuno prende il suo posto, diviene depositario di un sapere il suo bene che lo travalica e lo colloca sullo sfondo. Approccio che si tende a riprodurre vedendo i rapporti fuori dalla famiglia come un’estensione degli stessi, anzi a volte condizione imprescindibile perché ci possa essere un minimo di delega verso altri operatori, quasi che solo questa riproduzione garantisca protezione, in un meccanismo di ripetizione che assume le caratteristiche di una mera replica, sempre uguale. Impossibile quindi cogliere l’eccedenza che la ripetizione introduce, lo scarto che potrebbe indurre un ripensamento, mirando invece ad una sua riduzione, ad un arresto nel tempo degli atti e delle posizioni che tendono a scongiurare ogni interferenza, ogni cambiamento.

Ricordo le lamentele da parte degli operatori di un centro diurno sull’insufficienza del personale che si ripetevano nonostante i nuovi arrivi di educatori. Soltanto nel tempo siamo riusciti insieme ad individuare il fantasma di cura che accompagnava le richieste, che era quello della riproposizione di un rapporto uno ad uno con ogni utente, quasi a riprodurre anche lì la coppia che si era formata all’interno della famiglia, quasi che altre possibilità fossero impensabili, quasi che l’unico prendersi cura fosse quello tra la madre e un bambino riprodotto all’infinito chiuso all’interno di questa coppia, impenetrabile per certi versi ad ogni eterogeneità.

Questo matérnage continuamente riprodotto funge da protezione anche per l’operatore, lo mette al riparo dall’effetto destabilizzante che l’incontro con il disabile potrebbe produrre, riducendolo all’evidenza dei suoi comportamenti, evitando l’interrogativo che questa presenza suscita e a cui non ci sono risposte a priori, non c’è un sapere che possa garantire l’esito dell’incontro.

3. Sulla cronicizzazione e la cura

Questo arresto del tempo è forse alla radice di quella che viene definita come cronicizzazione, intesa come permanenza di una perdita che non si può superare, e della quale non si parla. Riprendere la parola su questo indicibile è il primo passo per riappropriarsi del tempo, per restituirgli uno statuto, costruire una memoria. È un passo indispensabile per rimettere in gioco qualcosa del proprio desiderio, ma anche per uscire da un silenzio che rischia di confinare il prendersi cura in uno spazio di segregazione reciproca.

Alla segregazione del soggetto disabile, infatti, spesso corrisponde la segregazione di chi se ne prende cura, entrambi confinati in una sorta di irrilevanza, in cui i gesti di cura perdono senso e vengono consegnati ad una ritualizzazione che li banalizza. È una cesura profonda con la natura stessa della cura, con l’origine della cura stessa.

La Cura stava attraversando un fiume quando scorse del fango cretoso. Pensierosa, ne raccolse un po’ e cominciò a dargli forma. Mentre stava riflettendo su cosa avesse fatto, interviene Giove. A questo punto, la Cura prega Giove di infondere lo spirito a ciò che essa ha fatto senza però sapere cosa sia. Giove acconsente volentieri, però poi la Cura pretende di imporre il nome a ciò che ha fatto e Giove non è d’accordo. Mentre Giove e la Cura litigano, interviene la Terra che reclama il battesimo di ciò che è stato fatto in quanto parte del suo corpo, il corpo della Terra. I disputanti eleggono Saturno, il Tempo, come giudice. La decisione di Saturno, incontestabile, è la seguente: “Tu Giove hai dato lo spirito, e al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, hai dato il corpo e riceverai il corpo; ma poiché per prima fu la Cura che diede forma a quest’essere, finché esso vive, lo possieda la cura. Per tutta la vita, l’uomo è l’essere della Cura e, visto che proviene dalla Terra, dall’humus, il suo nome è homo [12]

Questa citazione ci permette di riflettere in modo diverso sulla cura, introducendo la funzione del tempo come arbitro, l’assenza di garanzia sull’origine (e quindi di un sapere che garantisca) ma soprattutto sulla provvisorietà, in un gioco di rimandi che ne escludono la proprietà. Ma la cura ha anche un rimando etimologico all’angoscia, avere cura rimanda agli affanni, alle attenzioni. Recidendo questo legame con l’attenzione perdiamo il riferimento alla convivenza con la provvisorietà, con il tempo che interviene come elemento che dota di senso a posteriori i gesti di cura. Non si tratta tanto di esaltare un atteggiamento naif nella cura, curarsi di qualcuno significa anche pensarlo, pensarci e il pensarci cancella l’atteggiamento naif, ma nello stesso tempo esclude la possibilità che i giochi siano decisi in partenza.

Esistere non solo non è cosa facile, ma è anche cosa difficile da comprendere. Si viene al mondo senza averne fatto richiesta, e si è quasi sempre costretti a lasciarlo contro la propria volontà. Si nasce e si muore senza una ragione (che non sia di natura religiosa o metafisica) apparente. Il senso che con tanto accanimento cerchiamo di dare alla morte tende a colmare l’apparente insignificanza della nascita. Quando nasciamo, siamo come degli esseri catapultati nel mondo e veniamo a trovarci insieme ad altri enti (uomini e cose) la cui origine è altrettanto oscura e inspiegabile. La cura diventa così la struttura dell’esistenza, è intimamente connaturata ad essa, è la stessa esistenza. [13]

La cura come ricerca di significato a una nascita.

Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato. Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita………Non posso dirvi altro [14]

Tenendo presenti queste declinazioni possiamo cogliere come la cura si declini accanto alla sorpresa che la presenza dell’altro introduce, accompagnando la ricerca di senso come una ricerca anche da parte di chi si assume la responsabilità della cura, nella direzione di rispondere e testimoniare di quel che accade.

Vorremmo evitare che il discorso assuma una torsione moralistica capovolgendo le parti a priori e indicando il negativo là dove si supponeva il positivo, colpevolizzando operatori e genitori. Quel che si ritrova dal lato di operatori e genitori, che inquieta e rende gravoso il lavoro di cura, è l’effetto stesso della disabilità, della malattia che affligge l’Altro quando si rende manifesta all’interno di una relazione. Quel che si ritrova come faticoso è un dato strutturale, non occasionale. Sottolineiamo questo aspetto altrimenti rischiamo di cadere in un moralismo rovesciato e solidale a quello corrente.

Prendere la parola su questa difficoltà, poterla dire, nominare, permette per un verso di circoscriverla, per un altro di creare uno spazio di apertura che non nega questi aspetti ma li mette in circolo testimoniando delle fatiche che il silenzio o l’impossibilità a parlarne rendono insuperabili.

4. Sull’invecchiare

Tempo arrestato all’interno delle relazioni abbiamo detto. Se non fosse che qualcosa sfugge. Il corpo del bambino si modifica, nonostante le parole tentino di scongiurare quel che si impone da sé.

I gesti che ieri si compivano all’interno di una relazione oggi sono ingombrati da un corpo adulto, che cresce, si modifica sino ad occupare gli spazi in modi differenti. I gesti divengono goffi, il corpo ingombra. Gli si parla come se fosse ancora un bambino ma visivamente, nell’incontro quotidiano non lo è più. Eppure è difficile trovare un altro piano della relazione che sfugga l’infantilizzazione. Al fondo l’infans, l’essere fuori dal linguaggio rende l’idea di qualcuno che non si sa rappresentare presso l’altro, che non ne possiede gli strumenti, ma come far convivere questa dimensione con un’evidenza corporea che la smentisce, con la quale nel corso degli anni dobbiamo fare i conti?

Il corso degli anni comporta anche mutamenti nella quotidianità. Si passa da una struttura ad un’altra e a volte si incontra la struttura in cui si invecchia. Si invecchia insieme agli operatori e ai familiari. Le difficoltà rischiano di tramutarsi in insofferenze, l’infantlizzazione reiterata diviene insopportabile per gli uni e per gli altri. Non potrebbe risiedere qui la radice della rottura di alcuni legami tra il disabile e chi gli vive accanto? Radici che non possono esprimersi se non attraverso agiti, riflessioni sul senso di quel che si è fatto e si fa che generano sconforto.

L’attesa si è dilatata, l’immobilità insostenibile l’orologio diviene un “dio sinistro” per dirla con Baudelaire. Ma il tempo introduce nella disabilità una preoccupazione supplementare: Che ne sarà di lui? Preoccupazione che è all’origine di tutti i ragionamenti e le riflessioni che oggi si raggruppano sotto i termini del “dopo di noi”, oggetto di dibattiti e leggi che cercano in qualche modo di porre argine a queste preoccupazioni.

Provando a rifletterci sopra anche noi, proponiamo di pensare non ad un dopo di noi ma ad un senza di noi, vediamo di esplicitare meglio. Ragionare in termini di dopo di noi comporta il rimanere all’interno di una dipendenza incontrollata e impenetrabile a chiunque, dove nessuno ci può sostituire. D’altra parte la proposta di tagliare le relazioni, anticipando nel tempo il distacco dalla famiglia sulla base del presupposto che prima o poi dovrà accadere ci pare altrettanto insostenibile. Ci sembra un processo esclusivamente rovesciato, ad una sostituzione ritenuta impossibile si risponde con una sostituzione quasi imposta, meravigliandosi se viene rifiutata. Sullo sfondo rimane il disabile, la disputa non lo riguarda, i mutamenti che intervengo o interverranno nella sua quotidianità lasciati in disparte, d’altra parte sembrano preoccupazioni che non lo riguardano.

Ragionare in termini di “senza di noi” significa affrontare su un piano più “laico” il problema, a partire dall’origine, dal riconoscimento che la chiusura iniziale ha escluso possibilità di pensare alla situazione non a partire solo dalla sofferenza, ma da un punto di difficoltà e impossibilità. Nessuno può essere sostituito, ma si possono incontrare situazioni diverse e non tutti gli incontri sono cattivi incontri. Porsi in questa prospettiva comporta uscire da un’ottica puramente rivendicativa (per lo più fallimentare visto che il diritto e anche l’inclusione hanno dimostrato le loro insufficienze) per entrare in un’ottica di condivisione attraverso la parola. Riconoscere le insufficienze, i punti di impossibilità riapre ad una temporalità differente, gli eventi possono diventare ricordi, i ricordi fondare una memoria, una storia che crea un posto per i disabili presso di noi, con noi. Le scelte possono divenire comprensibili come esiti di difficoltà che non vengono superate, che si ripropongono continuamente ma che possono divenire un confronto che accomuna e non separa. Una strada più faticosa e tortuosa che rompe però con l’illusione che esiste la soluzione cercando nel caso per caso il possibile, senza esigere continuità vincolanti che possono portare a rivendicazioni reiterate e relazioni di solo controllo.

Uscire dalla dimensione del controllo entrando in quella del rischio, proprio, delle proprie paure, dei propri fantasmi che non più taciuti fondano una convivenza possibile con i disabili. Una convivenza basata sul rispetto, sul saper guardare e riguardare cogliendo quanto di quel che vediamo è filtrato non solo dalle paure, ma anche dalla paura del rifiuto verso il disabile, che spesso è taciuto perché ci fa ritrarre inorriditi, per poter dire di quel punto di difficoltà impossibile a superarsi che accompagna la quotidianità della convivenza con il disabile.

5. Conclusioni (che non ci sono)

Vorremmo chiudere con una scena raccontata da Franco Lolli in un suo ultimo testo. [15]

C’è una riunione tra operatori e ospiti di una struttura residenziale per disabili per discutere della gestione della quotidianità e della convivenza all’interno della struttura. Tutti sono seduti a cerchio. C’è una sedia vuota, riservata a una ragazza disabile grave che se ne sta appartata in un angolo. Lei non partecipa mai. La sedia però c’è, un luogo in cui la sua presenza è stata pensata. Forse non occuperà mai quel posto, forse lo occuperà a intermittenza, non lo sappiamo. Quel che però è importante è che quel posto sia stato pensato. Non siamo in grado di prevedere, possiamo però fare in modo di vedere.

Non esiste una soluzione unica, occorre ogni volta creare un posto, una possibilità. Già pensarlo è un primo passo.

Due soggetti disabili di una certa età a pranzo.

M. Sai quando eravamo a XXX, Mauro?

S. Sì, mi ricordo

M. Ora è da solo. È entrato in comunità.

Frammenti che possono divenire storie, storie che possono intrecciarsi con le nostre, che possono fondare una storia comune come testimonianza di un fare che ritrova le parole sottrarre quel che si fa all’arbitrio e mantenere aperto un posto, un luogo che forse il disabile non potrà occupare ma rimane come possibilità di una presenza.


Note

  1. A. Villa, La mano nel cappello. Psicoanalisi ed handicap grave, Stripes edizioni, Rho, 2008, p. 20.  []
  2. M. Rossi Monti, Diagnosi una brutta parola? Riv. di Psicoanalisi, 3, 795-803, 2008.  []
  3. M. Rossi Monti cit.  []
  4. G. Lai, Diagnosi e riferimento, in Psicoterapia e scienze umane, n. 3, 1984, Franco Angeli, Milano, pp.85-104.  []
  5. V. Lingiardi, Diagnosi e destino, Einaudi, Torino 2018, p.85  []
  6. A. Villa, Se la memoria resta orfana. Considerazioni sulla diagnosi nelle disabilità gravi e complesse, in A. Goussot, Le disabilità complesse, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2011, p. 221  []
  7. V. Viollet, Passage des enfants a l’age adulte: quels impacts sur les parents et sur le couple, in R. Scelles a cura di, Naitre, grandir, vieillir avec un handicap, érès, Toulouse, 2016, p.59  []
  8.  La letteratura su questi argomenti è ormai sterminata, spesso ad opera di familiari che negli ultimi anni hanno cominciato a prendere la parola. Per entrare in argomento uno dei testi più onesti, che non tace sugli aspetti più difficoltosi del prendersi cura ci sembra quello di Massimiliano Verga, Zigulì. La mia vita dolceamara con un figlio disabile, Mondadori, Milano, 2013  []
  9. Simone Korff-Sausse, Hors norme. Hors temps. L’expérience de la temporalité dans le champ clinique du handicap, Champ psychosomatique 2003/2 (no 30), p. 57-73.  []
  10. E. Facchinelli, La freccia ferma, L’erba voglio edizioni, Milano, 1979  []
  11. Simone Korff-Sausse, cit. p.60  []
  12. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976 p.247  []
  13. G. Pulina, La cura. Anche tu sei un essere speciale, Zona editore, 2010, p. 71-72  []
  14. Pontiggia op.cit. p.26  []
  15. F. Lolli, Prima di essere io, Orthotes, Salerno, 2016  []