Qualche mese fa, presso la Casa della Cultura di Milano, Benedetto Saraceno, psichiatra ed ex-direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Abuso di Sostanze dell’Organizzazione Mondiale della Salute a Ginevra, ha presentato il suo libro UN VIRUS CLASSISTA. PANDEMIA, DISEGUAGLIANZE E ISTITUZIONI (Edizioni alphabeta Verlag, Merano 2021). Pubblichiamo il testo del suo intervento, ringraziandolo per la disponibilità.
La pandemia da Covid 19 oltre a portare morte, sofferenza e gravi e duraturi danni all’economia del nostro paese, ha mostrato e dimostrato il drammatico deficit di sanità e welfare territoriali. Inoltre, ha reso evidente la débâcle del modello residenziale per tutti i soggetti portatori di disabilità o vulnerabilità. Il modello della psichiatria istituzionale, che era stato messo in salutare crisi da Basaglia, si ripresenta oggi in modo pervasivo e ben oltre la psichiatria, per “contagiare” l’intero universo delle disabilità, delle vulnerabilità e delle fragilità psico-sociali. La pandemia ha reso chiaro il grave deficit di democrazia sia nella salute sia nella sanità. Questo deficit va riempito con la promozione e produzione di processi di “democrazia dal basso”: una medicina e un welfare integrati e rafforzati, una reale trasparenza dei sistemi sanitari, uno sviluppo delle esperienze di riappropriazione della salute da parte delle comunità locali.
La questione che dobbiamo porci e con urgenza è quella del “letto” come unica e povera risposta del sistema sanitario, come se, prima e dopo il letto, non ci fossero fondamentali e spesso sufficienti risposte alla domanda di salute dei cittadini. Dobbiamo decostruire la nozione di letto come falso sinonimo di cura.
Durante la pandemia, gli ospedali si sono rapidamente saturati infatti, non solo per l’incremento massiccio di casi gravissimi, bisognosi di presidi di rianimazione, dunque di letti attrezzati come indispensabili presidi terapeutici, ma anche perché molti casi che non erano gravi non si sono saputi gestire a casa o in strutture meno medicalizzate di un ospedale. In altre parole, mancano la cultura, le organizzazioni e le infrastrutture per operare anche al di fuori dall’ospedale, anche al di là della dimensione ospedaliera del letto. Dunque, il letto in ospedale è stata la sola risposta accanto alla indispensabile adozione di misure di distanziamento sociale.
In sostanza, fra l’ospedalizzazione in urgenza e il senso civico individuale dei singoli che rispettano il confinamento non c’è stato nulla nel mezzo.
Ma quello su cui oggi si vuole riflettere è il ruolo illusorio, concreto e simbolico, del letto come sinonimo di cura. Il letto, ossia la risposta centrata sull’ospedale, ha mostrato l’inadeguatezza a fronte di una situazione di emergenza che richiedeva una complessa articolazione di risposte di cui l’ospedale non poteva che essere una fra le molte: interventi domiciliari, ambulatoriali, di sostegno famigliare, di sostegno psicologico e socio-economico.
Non c’è dubbio che anche “prima” della pandemia il letto rappresentasse, e continui a rappresentare, “la risposta” prevalente alle condizioni di sofferenza bio-psico-sociale croniche, soprattutto di quelle che hanno a che fare con la salute mentale e con condizioni di grave vulnerabilità (disturbi mentali, disabilità intellettuale, demenze).
Il termine “residenzialità” è divenuto dominante in quasi tutti i sistemi sanitari regionali ove abbondano forme diverse di residenze, più o meno protette, più o meno manicomiali, pubbliche o private o private convenzionate. Ma, la residenzialità non allude tanto a un luogo di vita integrata, sociale e socializzata, a un luogo che sia parte reale della comunità circostante bensì allude alla presenza di letti utilizzati secondo la logica dell’ospedale. Letti per vecchi, letti per matti, letti per tossicodipendenti, letti per disabili fisici e psichici…e, a pensarci bene, anche e soltanto letti nei dormitori per i senza casa. Il letto sembra essere l’unica risposta resa disponibile anche a chi invece non ha bisogno di un letto (se non per dormire) e, in conseguenza, i cosiddetti “cronici” sono destinati non solo a dormire in un letto ma anche ad abitarvi come se il letto fosse essere la unica dimensione della cura e della riabilitazione.
Se riflettiamo attentamente, la pandemia, benché espressione di una malattia acuta, ha posto al sistema sanitario sfide molto simili a quelle poste dalle malattie croniche di lunga durata. Tutte le malattie croniche sfidano il modello dominante di assistenza sanitaria e richiedono modelli altamente innovativi di assistenza capaci di coniugare interventi sanitari e interventi di sostegno psicosociale che si protraggono nel tempo con intensità variabile. La tradizionale risposta, rappresentata dall’intervento biomedico effettuato in ambiente ospedaliero risulta inadeguata poiché la natura intrinseca e la storia naturale delle malattie croniche consentono il trattamento e l’assistenza al di fuori dell’ospedale. In altre parole, il modello biomedico e ospedalocentrico risulta inadeguato per rispondere alla complessità dei bisogni medici e psicosociali delle persone che soffrono di una malattia cronica. Le malattie mentali non fanno eccezione anche se la consapevolezza che il modello biomedico e l’ospedale non fossero la risposta risale agli anni Sessanta, quando Basaglia mise in discussione sia l’uno che l’altro.
L’adozione di un modello innovativo per rispondere alla sfida delle malattie croniche, ossia un modello di intervento psico-socio-sanitario di lunga durata, bene si adatta all’insieme delle malattie croniche e in special modo alle malattie mentali e del comportamento. Tale insieme di interventi si compie essenzialmente al di fuori dell’ospedale e non ha certo bisogno del letto come asse portante perché gli interventi avvengono nei centri di salute territoriali o al domicilio del paziente. Si tratta di interventi che potremmo definire comunitari sia perché avvengono nel territorio ove vive il paziente sia perché essi sono il frutto di sinergie fra differenti attori e risorse di cui dispone la comunità: risorse formali e istituzionali, così come risorse informali pubbliche e private. Si tratta di una vera rivoluzione copernicana per il sistema sanitario tradizionale che pone al centro l’ospedale e il letto; al centro del modello psicosociale di lunga durata sta invece la comunità nella duplice accezione di luogo in cui i cittadini ed il singolo utente vivono e di insieme di cittadini e risorse di cui quella comunità dispone. In questa prospettiva l’ospedale appare sfocato, sullo sfondo, come una risorsa di ricorso eccezionale e utilizzata per breve durata. I protagonisti della messa in opera di questo modello sono ovviamente molteplici ed eterogenei: personale sanitario, personale dei servizi sociali, personale di altri settoripubblici e privati che operano nella comunità e fra essi soprattutto il personale dei settori della educazione, delle organizzazioni del lavoro e di quelle della cultura. Le sinergie e le collaborazioni variano e possono essere più formalizzate e istituzionali o più spontanee e generate all’interno di progetti e incroci fra organizzazioni, istituzioni e persone. Questo radicale spostamento del centro del sistema sanitario dall’ospedale alla comunità per essere possibile ed efficace deve disporre di risorse finanziarie e umane: dunque si spostano dall’ospedale non soltanto gli interventi ma anche le risorse finanziarie e umane.
Gli Interventi di Lunga Durata costituiscono il contesto naturale per poter sviluppare servizi sanitari capaci di promuovere una medicina centrata sulla persona (MCP) e una democratizzazione della assistenza sanitaria.In sostanza, alla responsabilità che tradizionalmente la medicina assume per il paziente, si sostituisce una responsabilità verso il paziente. Dunque, mentre nel modello tradizionale gli obiettivi e il contenuto dell’intervento sono stabiliti dal provider (ossia dal personale sanitario) e l’utente rimane un passivo recettore, nel modello della MCP gli obiettivi dell’intervento sono definiti dall’utente e il contenuto dell’intervento risulta da una negoziazione fra il provider e l’utente che diviene così un attivo decisore.
Ma questa rivoluzione copernicana ha a che fare con la democratizzazione della assistenza sanitaria e con l’empowerment dei cittadini-utenti. È utile rivisitare la nozione di “deep democracy” introdotta dall’antropologo indiano Arjun Appadurai: la deep democracy è la costruzione di processi democratici dal basso, è una esperienza di costruzione di cittadinanza.
Si tratta di una vera “invenzione democratica”, che implica una pratica dinamica della democrazia, ossia la sua declinazione attraverso pratiche che interrompono la continuità istituzionale, la sfidano, la forzano alla radicalità della innovazione.
Certamenteuno degli aspetti fondamentali che fonda la “deep democracy” è costituito dai processi di empowerment degli utenti: non si tratta tanto di un conferimento astratto e decontestualizzato di potere, ma piuttosto della messa in opera di processi che promuovono, parafrasando Amarty Sen:
capacità ad aspirare a maggiore benessere, maggiore libertà e maggiore potere e anche la capacità ad acquisire strumenti per aumentare il benessere, libertà e potere.
La clinica e il suo letto divengono il segno tangibile dell’asimmetria dei poteri e della drammatica distinzione fra il “senso” prodotto da chi ha il potere e il “senso di scarto” prodotto dai deboli, dai vulnerabili, dai poveri.
Concludo e mi chiedo: può esistere una “clinica” in cui il paziente resta in piedi invece che stare sdraiato sul letto? Questa è una questione fondamentale che connette, come in un reticolo, diversi diritti:
- Il diritto alla salute per tutti senza distinzioni di classe e di reddito
- Il diritto ad avere un’assistenza sanitaria integrata a interventi di welfare sociale
- Il diritto a essere protagonisti attivi della propria salute e non passivi recipienti di interventi sanitari
- Il diritto, fin dove ragionevolmente possibile, a restare a casa propria, anche se malati, oppure a fruire di interventi sanitari al di fuori dell’ospedale.
- Il dritto a non pagare le tasse per un sistema pubblico che premia quello privato
Ecco cinque diritti disattesi e de-finanziati da quella idea di salute e di sanità pubblica intesa come “merce” da comprare invece che come diritto di cui fruire. Perché questi diritti siano promossi e resi reali è necessario che salute e sanità siano dimensioni che si inverano nelle comunità locali, nei micro-territori dove è possibile costruire democrazia locale e reale.
Ci dice uno studio epidemiologico inglese che a Londra a morire di Covid 19 sono stati soprattutto i pakistani e i neri. È molto probabile che anche da noi ci sia stata una qualche correlazione fra livello socioeconomico e mortalità da Covid. Certamente i morti nelle RSA non erano anziani benestanti. Certamente i più poveri, i più socialmente vulnerabili hanno sofferto di più e hanno pagato i prezzi più alti. Certamente chi durante il lockdown viveva in appartamenti microscopici e a volte affollati, ha sofferto di più. Chi aveva una autonomia economica soltanto di qualche settimana e poi era già in difficoltà ha pagato i prezzi più alti.
Insomma, anche se può sembrare banale, dobbiamo dircelo e dirlo che il virus non è democratico e colpisce chi sta peggio.
È banale ma non se ne parla molto. Ricordiamoci che non è il virus che deve diventare più democratico ma sono le risposte dei sistemi sanitari e di welfare che devono ristabilire la democrazia.