Il negazionismo ha un correlato psicoanalitico chiaro e definito, individuabile nel meccanismo di difesa designato da Freud con il termine Verleugnung: la percezione di una realtà troppo angosciante viene, per l’appunto, negata e soppiantata dalla creazione di una realtà alternativa, in grado di sconfessare l’insopportabilità della precedente esperienza vissuta. Il soggetto che denega (così, solitamente, nell’universo psicoanalitico, si indica questo tipo di reazione inconscia) ‘crea’ di sana pianta uno scenario che, letteralmente, ripudia l’orrore esperito, affiancandosi ad esso e, al contempo, oscurandolo. La Verleugnung consiste, dunque, nel rigetto di un sapere e nella sua sostituzione con un nuovo sapere: pone, dunque, un serio problema sul piano della verità, che il soggetto può – inconsciamente – manipolare, al fine di evitare l’eventuale impatto traumatico da essa causato. Su questo punto, Freud è stato molto chiaro. La Verleugnung è responsabile della scissione dell’io (Ich-Spaltung): l’io, per l’appunto, si divide in due parti, delle quali l’una – quella che ‘sa’ – entra in una specie di letargo, mentre l’altra prende l’assoluto sopravvento, imponendo la propria visione. Freud specifica anche che, nei casi più gravi, tale scissione può esitare nello sviluppo di condizioni psicopatologiche importanti. Nei casi più gravi, si badi bene: perché, in effetti, lo stesso Freud si affretta a precisare che il meccanismo di denegazione agisce sotterraneamente in ogni essere umano, consentendo di ‘scansare’ le questioni più angoscianti (ad esempio, il pensiero della propria morte) e di organizzare la propria esistenza ‘facendo come se’ esse non lo riguardassero (non pensando, cioè, in ogni momento ed in maniera assillante, a quella fatale possibilità).
La Verleugnung – prosegue Freud – è all’origine della strutturazione della perversione. La quale, essenzialmente, consiste nella ‘smentita’ di quelle percezioni che pongono il soggetto al cospetto di una situazione emotivo-affettiva inaffrontabile: sostanzialmente, in una condizione di inermità e di impotenza. Ad esempio, il bambino futuro feticista è colui che – aggiunge Freud – di fronte alla realtà della castrazione materna (che risuona in lui come un’implicita minaccia alla propria integrità psico-fisica), si difenderà negando tale mancanza nel corpo e collocando in quel vuoto angosciante un nuovo oggetto di desiderio (la scarpa, per l’appunto, o le calze a rete, o la biancheria intima, o qualunque artificio capace di velare l’orrore intravisto). La lezione che possiamo trarre da tali osservazioni di Freud (per certi versi, sicuramente datate) è, in ogni caso, questa: il perverso è colui che costruisce un nuovo sistema, un nuovo ordine, una nuova legge, della quale egli stesso sarà il più meticoloso osservante.
Il negazionista, a ben guardare, è agito dallo stesso meccanismo psichico: la problematica realtà con la quale è costretto a confrontarsi (la pandemia, ad esempio) provoca in lui una reazione inconscia di rifiuto (essenzialmente, del sentirsi in balia di un evento incontrollabile) e di simultanea ricerca di un riparo (di tipo cognitivo: una nuova credenza, una teoria alternativa, una convinzione che confuti l’ineluttabilità dei fatti) in grado di fornirgli una prospettiva interpretativa grazie alla quale ribaltare la propria posizione di passività. Si vuol forse dire, allora, che il negazionismo sia una forma di perversione? Assolutamente no: ciò che qui s’intende affermare è, semplicemente, che il meccanismo della Verleugnung può aiutarci a comprendere un elemento fondamentale in azione nel classico ‘funzionamento negazionista’.
Nella Verleugnung, la realtà ‘artificialmente costruita’ convive con quella negata: il che vuol dire che due realtà (due verità, di conseguenza) opposte, e in contraddizione tra loro, possono coesistere l’una al fianco dell’altra, in una specie di ‘aporia’ basilare di cui il soggetto è perfettamente inconsapevole. Questo è il grande ‘enigma’ della denegazione: il fatto che, in altre parole, una consapevolezza perturbante possa essere rigettata e sostituita da una convinzione tranquillizzante, senza che questo ponga al soggetto il minimo problema di coerenza. Nessun dubbio, nessun conflitto interiore, nessuna incertezza: il progetto di estromissione degli elementi nocivi al proprio equilibrio non ammette alcuna forma di autocritica. Per proteggersi dall’impotenza che la percezione traumatica della realtà ha provocato, risulta giustificato il ricorso a qualunque argomento si dimostri in grado di disconoscerla.
Il negazionista respinge l’attacco emotivo-affettivo subìto, sviluppando un sapere, inconsistente sul piano della logica, ma promettente sul piano del ristabilimento della rassicurazione. Tale presunta ‘innocenza’, del resto, è il tratto che più colpisce nel discorso del negazionista: un discorso sostenuto da quella chiara ‘buona fede’ che – a ben vedere – amplifica ulteriormente l’effetto inquietante che, già di per se, produce. L’ingenuità del suo ragionamento (che caparbiamente rifiuta l’evidenza dei numeri, delle prove scientifiche, storiche e di analisi socio-culturale) è fomentata dall’inconscia necessità di tutelare la propria integrità (tanto fisica, quanto psichica). Cedere all’inconfutabilità della reale esistenza di un pericolo incontrollabile rappresenterebbe un’evenienza troppo dolorosa: per esorcizzare la quale, si infiltra allora, nel suo pensiero, la possibilità di invertire i termini della questione. Non solo ciò che ha ‘visto’ (saputo, sentito, incontrato, ecc.) non può esser vero (vista l’enormità del pericolo che altrimenti si scatenerebbe su di lui): nell’atto stesso del negare, il negazionista, infatti, recupera un ruolo attivo che l’esposizione al pericolo gli aveva del tutto impedito di esercitare (riducendolo, al contrario, a puro ricettacolo di un imminente disastro soggettivo). Ecco allora che egli sconfigge la passività alla quale era stato confinato, affermandosi, per il tramite della denegazione, come parte attiva, come rinnovato protagonista di un supposto processo di ‘disvelamento’ della verità vera (che un fantomatico potere occulto vorrebbe nascondere all’opinione pubblica).
Conviene tener conto di questi (apparentemente insignificanti) dettagli e considerare che:
- Chi nega, lo fa perché ha ‘visto’ (saputo, sentito, incontrato, ecc.) qualcosa di intollerabile.
- Chi nega, non sa di negare.
È possibile ricavare due semplici considerazioni da tali osservazioni. La prima: non si possono modificare posizioni negazioniste utilizzando, come arma persuasiva, l’aumento del livello di ‘esposizione’ alla realtà. Nel mood negazionista, ogni dato che intende confutare l’opinione consolidata viene rifiutato e la sua (rinforzata) presentazione viene utilizzata come ulteriore conferma della presenza di una volontà ingannatrice. Più vengono mostrati i reparti ospedalieri al collasso, più il negazionista vede in quelle immagini la dimostrazione di una trama cospirazionista: più si mostrano enormi porzioni di ghiacciai alla deriva negli oceani a causa del riscaldamento globale, più il negazionista sospetterà l’esistenza di un piano mondiale di attacco all’economia del proprio Paese: e così via.
La seconda: occorre distinguere la genesi teorica delle varie idee negazioniste dal fenomeno negazionista di massa. Nel primo caso, il negazionismo è al servizio (opportunistico e strumentale) di una causa specifica (ideologica, politica, economica, religiosa, ecc.). Interessi di particolari categorie e lobby infettano progressivamente il discorso sociale, iniettando dubbi e sospetti sulla sua veridicità e partorendo nuove teorie il cui unico obiettivo è il tornaconto del gruppo d’appartenenza. La genesi teorica dei vari negazionismi si radica, dunque, in una malcelata postura di attacco mosso contro il ‘sistema’ e finalizzata all’ottenimento di benefici di una parte ai danni di un’altra.
Nel secondo caso, l’adesione dei singoli cittadini alle teorie così concepite risponde ad una logica differente, già in parte commentata. Essa avviene all’insegna della necessità (inconscia) di difesa, come protezione, cioè, dall’angoscia del sentirsi alla mercé di eventi, di scelte e di azioni politiche e/o economiche vissute come intrusive e minacciose. Il negazionista che sostiene teorie complottiste intende semplicemente fuggire da una realtà che gli procura sensazioni inaffrontabili di pericolo. E ci riesce appropriandosi di una delle (bizzarre e stravaganti) interpretazioni del mondo che affollano il Web, neutralizzando, in tal modo, il penoso carico emotivo legato alle percezioni originarie. L’interesse del singolo cittadino (che è, fondamentalmente, quello di disangosciarsi) si intreccia, così, agli interessi (ben più complessi e stratificati) di chi ha generato le teorie stesse: diventando loro sostenitore, egli finisce col sostenere il progetto ideologico di cui esse sono espressione, facendo, così, del proprio ‘attivismo’ reattivo (esito, cioè, del meccanismo difensivo illustrato) un inconsapevole ‘atto politico’.
Il negazionismo, allora, si combatte su due fronti. Su un primo fronte, si rende necessaria un’azione di denuncia tempestiva, puntuale e documentata dei reali interessi (di natura economica, politica, elettorale, ideologica, ecc.) di coloro che mettono in circolazione teorie complottiste e cripto-paranoidi. Sull’altro fronte, bisogna promuovere una campagna di sensibilizzazione massmediatica alla riduzione ragionata e responsabile dell’esibizione dell’orrore. Nel primo caso, occorre svelare e rivelare l’intenzione che è all’origine della nascita e della diffusione di tesi fondate su intrighi e congiure; nel secondo caso, combattere quella tendenza che definirei pornografia del notiziario, che consiste nello spettacolarizzare il dolore e nell’enfatizzare il versante tragico della cronaca, offrendo in maniera cinica e spudorata ad una platea di spettatori non sempre capaci di elaborazione, un materiale il cui enorme carico emotivo-affettivo può indurre in alcuni la reazione difensiva di diniego. Non che, ovviamente, il negazionismo possa essere considerato il prodotto del sempre più aggressivo giornalismo (sedicente) d’inchiesta, che spia nel buco della serratura o attraverso la porta socchiusa, per cogliere il fatto nel suo brutale accadere. Ma è altrettanto innegabile che la sovraesposizione del e al peggio (che un certo ‘giornalismo d’assalto’ sembra sempre più rincorrere) può – come visto – provocare, in ampie fasce della popolazione, l’urgenza soggettiva di sottrarvisi, aderendo a interpretazioni che, seppure illogiche, hanno, però, il merito di svuotarlo del suo valore angosciante: ed è altrettanto innegabile che la diffusione planetaria dei complottismi non possa non essere posta in una correlazione significativa con l’analoga diffusione planetaria della ‘bulimia informativa’, ovvero della costante ricerca dello scoop choccante da sottoporre allo sguardo angosciato (e altrettanto ‘bulimico’) dello spettatore. Come hanno dimostrato gli storici insuccessi delle cosiddette Pubblicità Progresso dei decenni passati, l’ostentazione dei danni causati da un certo tipo di condotta (ad esempio, la tossicomania) non induce ad una reale trasformazione soggettiva in senso ‘virtuoso’: analogamente, il servizio giornalistico – solo per fare un esempio – che mostra il lato efferato dell’evento, nell’ingenua convinzione di un suo presunto potere pedagogico-educativo (che mal cela, in realtà, l’assai meno nobile intento ‘spettacolare’), può stimolare, nell’utente ‘sprovveduto’ dal punto di vista emotivo, una reazione paradossale di sconfessione.
“Ma come? – mi si obietterà – Come si possono porre simili argomentazioni (decisamente marginali) senza considerare, invece, il peso decisivo dell’atteggiamento che, in realtà, caratterizza la postura negazionista? Il suo essere, cioè, antiscientifica?”. Giusta obiezione. Ma anche su questo punto occorre fare una precisazione. Il negazionista – lo abbiamo già detto – rifiuta il parere della scienza, contesta l’evidenza delle sue procedure e confuta (arbitrariamente) le sue tesi. Ma perché? In virtù di cosa egli si oppone ad essa? La risposta a questa domanda – come vedremo – ci introduce ad un ulteriore livello di analisi del fenomeno: la realtà alla quale il negazionista aderisce per opporsi a quella ‘scientifica’ è, infatti, una realtà religiosa, nel senso che Lacan ha attribuito a questo termine, nel suo noto testo Il trionfo della religione. Il negazionismo, in altre parole, è una forma di religione che, in risposta alle inquietanti domande che la scienza solleva (e alle quali non sa rispondere in termini di senso), fonda un sistema di pensiero all’interno del quale stabilisce, per l’appunto la “corrispondenza del tutto con tutto”. Ogni cosa è al suo posto, ogni evento ha sempre una spiegazione: niente sfugge alla comprensione, né si pone in una dimensione enigmatica. Il negazionista crede nell’esistenza di un’entità (più spesso, maligna) trascendente (generalmente identificata in un non meglio identificato “loro”), la cui azione subdola si infiltra nella vita dell’essere umano: solo l’attenta (e, in verità, paranoide) correlazione di fatti ed eventi apparentemente disgiunti e casuali può farla emergere nel suo vero (seppur camuffato) significato. Il negazionista è un credente genuino, il fedele autentico di una religione senza dio, in grado, però, di spiegare perché la terra è piatta, a qual fine gli aerei lasciano una scia visibile ad occhio nudo, come mai ci hanno fatto credere all’esistenza dei campi di concentramento nazisti, chi è che in realtà ha scatenato la recente pandemia, chi ci guadagna veramente se si rinuncia al carbone come fonte energetica principale, e così via.
Il successo contemporaneo del negazionismo manifesta, allora, la potenza del ritorno del senso religioso nelle società secolarizzate e di un sentimento anti-illuminista conseguente alla deludente deriva scientista (pertanto, cripto-religiosa anch’essa) del discorso scientifico: in sostanza, del fallimento del progetto di laicità che la modernità (in Occidente) si era illusa di poter realizzare. È la porzione clamorosamente visibile di un meccanismo che agisce in gran parte nell’ombra, il riflesso speculare di un’attitudine di tipo religioso che impregna di se – seppure sotto traccia – ogni ambito della vita contemporanea. Il negazionismo segnala, nel parossismo tragicomico delle sue plateali manifestazioni, il tenace e diffuso rifiuto dell’essere umano ad assumere come dato ineludibile della sua esistenza, la propria inconsistenza e infondatezza. Il negazionismo, alla sua radice, nega questo: nega l’insensatezza dell’esistenza, la casualità di certi avvenimenti, la mancanza di garanzia alla quale la vita umana si trova drammaticamente esposta. Il negazionismo nega l’assoluta marginalità dell’essere umano nell’economia complessiva del mondo in cui è immerso. Il che, di conseguenza, rende molti dei discorsi politically correct che vorrebbero opporsi ad esso (e che trovano grande consenso nelle presunte elité culturali), dei travestimenti (più o meno riusciti) del medesimo spirito del tempo.
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