La psicoanalisi e il fatto religioso


Originariamente pubblicato nel numero 34 della rivista «Figures de la psychanalyse», l’articolo dello psicoanalista francese Alain Vanier, La psicoanalisi e il fatto religioso, rappresenta un originale quanto complesso contributo alla discussione sul ritorno del religioso nella nostra epoca, e in particolare in un Occidente che, pure, continua stancamente a definirsi laico. Su un tale ritorno non può non interrogarsi la psicoanalisi, per il terreno che il suo dispositivo teorico e istituzionale sembra condividere con la religione e che, se non rigorosamente analizzato, rischia di sovvertirlo dall’interno.
Litorale ringrazia l’Autore per la gentile concessione.

Traduzione di Luigi Francesco Clemente

Illusione! Per Freud la religione è un’illusione, ma «un’illusione non è la stessa cosa di un errore, e non è nemmeno necessariamente un errore. […] L’illusione non deve essere necessariamente falsa, cioè irrealizzabile o in contraddizione con la realtà». Ricordiamo che “illusione” — illusion in francese, la parola tedesca è identica — viene dal latino illusio, a sua volta derivante da ludere, giocare, e in retorica sta per “ironia”, vale a dire: far intendere il contrario di ciò che si dice. Il che apre e al tempo stesso lascia in sospeso la questione della verità. Proprio dell’illusione è il fatto di derivare dai desiderii umani: «Chiamiamo dunque illusione una credenza, quando nella sua motivazione prevale l’appagamento del desiderio», prescindendo «dal suo rapporto con la realtà», ciò in cui consiste la forza delle illusioni. [1] L’illusione rinvia alla potenza dell’amore per il padre, amore che prende il posto dell’odio, stando al modello elaborato in Totem e tabù: l’odio porta all’assassinio del padre primitivo, e, a seguito del compimento del crimine, l’amore riappare nel senso di colpa, in quanto rimorso legato al crimine. Totem e tabù mostra che Dio è il rimosso [2].

È in questo senso che Lacan potrà sostenere che il religioso — che egli distingue dal nevrotico ossessivo — installa la verità in uno statuto di colpa, da cui la sua diffidenza rispetto al sapere. Freud non dice altro, in effetti, quando scrive che «per godere di tutte le beatitudini della grazia divina, il peccato è indispensabile». Infatti, come mostra l’esempio dell’interiorità russa, «si peccava e allora si faceva un sacrificio […] e allora si era liberi di peccare di nuovo». Ecco perché «nella religione l’immoralità ha trovato in tutti i tempi sostegno non meno della moralità» [3]. Il religioso rimette a Dio la causa del proprio desiderio, ciò che è esattamente l’oggetto del sacrificio. Giacché il sacrificio e il recupero della libbra di carne — o almeno la promessa di recuperare questo godimento perduto — «è l’unico tratto comune a tutte le religioni» [4]. È il prezzo di una promessa e una marca del desiderio.

«Dio è il rimosso» significa che ogni religione si fonda su un oblio. Proprio come l’analisi, dal momento che un simile oblio è la condizione della cura. Ma la cura non è un semplice trattamento dell’oblio, essa punta al di là del Nome, al buco dell’enunciazione, alla beanza che sta al cuore dell’essere da dove l’Es ha parlato. Lacan è ritornato più volte su una questione ben precisa: quella di sapere che ne è della religiosità, che ne è del rapporto col religioso alla fine dell’analisi. Rimaniamo credenti alla fine dell’analisi? Arriviamo a sbarazzarci del fardello religioso? È la questione dell’ateismo dello psicoanalista: la cura produce un «ateo praticabile»[5]? E cosa vuol dire «ateo praticabile»?

Per Freud la religione è dunque una teoria sessuale infantile, e il progresso della scienza, il progresso della ragione — ecco la sua speranza — metterà fine all’illusione religiosa che sostiene la vita degli uomini. Per Lacan, che si colloca in un diverso momento storico, il dato lampante è un altro: il progresso della conoscenza, l’avanzata verso l’ideale dei Lumi, non è accompagnato da un parallelo progresso morale, né dalla fine delle credenze. Lo dimostra il fatto che «tutti, o quasi, da noi, […] cred[ono] al Dio in cui tutti credono senza crederci, ossia a quell’occhio universale posto su tutte le nostre azioni»[6]. D’altronde, forse che ci liberiamo del fatto religioso — che costatiamo ogni giorno al centro del transfert — semplicemente in virtù di una professione di fede atea? Lacan pensa che scienza e religione vadano tranquillamente insieme, poiché la scienza è sospesa all’idea di Dio. Si noti che ne L’avvenire di un’illusione Freud allude al dubbio cartesiano, ma non si interroga né sulla funzione di copertura dei soggetti nel cogito, né sul ruolo del genio maligno nell’instaurazione del Dio non ingannatore, necessario alla scienza. È così che, contrariamente all’Illuminismo, Lacan potrà dire che scienza e religione costituiscono un Dieu-lire [7].

Un’altra questione consiste nel sapere se esistano o meno società senza religione. Al riguardo, in Totem e tabù Freud evidenzia il fatto che gli studi sulle società più antiche puntualmente mostrano l’esistenza di un sistema totemico. E se è vero che Freud ritiene che il progresso della ragione ridurrà l’illusione religiosa, lo è altrettanto che nella sua lettera a Einstein egli attenua questa sua tesi aggiungendo che non sarà così per tutti. Non si dà quindi società senza religione: ecco un fatto che non possiamo e non dobbiamo eludere, e questo vale anche per noi analisti, per i vari gruppi di cui facciamo parte, poiché si tratta di qualcosa che la struttura dei gruppi produce e, al contempo, della condizione della loro stessa organizzazione. È forse qui che va ricercata l’origine della nostalgia che non di rado tormenta la comunità analitica? Nostalgia di una figura solida dell’Altro, che probabilmente è solo il sintomo di una verità del gruppo. Ora, il nostro mondo è quello di una mutazione che spinge il soggetto a orientarsi in funzione dell’oggetto e non più solamente in funzione dell’Altro. Di qui l’aspirazione che può portare al ritorno del funesto passato di Dio[8].

Cosa possiamo aspettarci allora dalla psicoanalisi nel momento in cui un simile ritorno è diventato terribilmente attuale? Terrorismo dello Stato Islamico o di Al-Qaeda, manifestazioni di Manif pour tous in Francia e ascesa dei populismi nell’Occidente cristiano, il sionismo delle origini sostituito dall’appello ai confini biblici di Israele, ecc. Dappertutto la passione identitaria trova la sua giustificazione nei significanti religiosi — e questo accade, in particolare, nella nostra area culturale monoteista. Ebbene, secondo Jan Assmann, nei tre monoteismi è presente una sorta di esplosivo linguistico, che appartiene esclusivamente ad essi e che rinvia in primo luogo alla distinzione tra amici e nemici, ma anche alla “distinzione mosaica”: quella tra il vero e e il falso[9]. Il Dio creatore è il vero Dio — tutti gli altri dèi sono falsi, semplici idoli — ed è un Dio geloso, che non vuole condividere assolutamente nulla con gli altri dèi. Prima dell’avvento del monoteismo a nessuno sarebbe mai venuto in mente di proclamare che gli dèi di un’altra cultura erano falsi dèi. Erano, piuttosto, potenze reali con le quali dover fare i conti. Sicché, la “distinzione mosaica” attribuisce ai monoteismi delle potenzialità assolutamente violente, e permette di offrire una prospettiva inedita su alcune formule di Lacan — formule come “la verità conduce alla religione”[10] o “la religione è vera” [11]— formule che sollevano la questione dello statuto della verità nell’orientamento della cura. La psicoanalisi è forse una nuova religione che suggerisce il senso attraverso l’interpretazione, attraverso la parola? Sennonché, per la psicoanalisi, «la verità può essere detta solo a metà. Ciò significa confermare che non c’è verità se non matematizzata, ossia scritta, vale a dire che, come verità, è sospesa agli assiomi. Ovvero, non c’è verità che di ciò che non ha alcun senso. Vale a dire, di ciò da cui non si possono trarre altre conseguenze all’infuori del suo registro, il registro della deduzione matematica — e come può allora la psicoanalisi immaginarsi che essa proceda dalla verità?» [12].

Ma, allora, cosa possiamo aspettarci dalla psicoanalisi, che sostiene — effetto dell’esperienza, effetto dell’inedita articolazione che essa instaura tra sapere e verità — che non c’è rapporto sessuale, al contrario della religione, che lo promette o — come nel caso della Chiesa cattolica — che lo situa all’interno della riproduzione? Così, non è esatto considerare la psicoanalisi come il negativo della religione, il che non significa che sia vero il contrario. Senza speranza? Lacan era solito osservare che la speranza porta al suicidio…

In uno dei suoi ultimi seminari, Lacan ha sollevato due questioni. La prima: Freud era religioso? Tale questione riguarda il fatto che Freud ha cercato di salvare il padre nel momento stesso in cui lo ha decostruito — pensiamo al padre gaudente e onnipotente dell’orda primitiva, i due Mosè, ecc., — ma riguarda anche il suo scientismo. Seconda questione: tutti gli uomini cadono «sotto il fardello»[13] dell’essere religiosi? Ricordiamo che, ogniqualvolta parla di religione, Lacan insiste nel dire che non sta facendo una storia delle religioni, che questa cosa non gli interessa. Egli parla di ciò che appartiene alla nostra area culturale, nella misura in cui la religione si presenta all’interno delle cure. In effetti, senza il fatto religioso non ci sarebbe analisi. Quella che è la condizione della religione è la condizione stessa dell’analisi: l’attesa insita nella credenza, dunque il transfert, e questo significa che nessuno può dirsi immune dalla religione. Ed è forse proprio questo il problema del nostro tempo, in un mondo che, di fronte al terrorismo islamico, si autodefinisce laico. Ma cosa significa raccogliersi sotto questo significante? È un significante sostenibile? E cosa sostiene? Queste domande non vengono lasciate completamente in sospeso da Lacan, ma — se pensiamo ai primi anni del seminario — non possiamo sottovalutare il fatto che riappaiano ancora alla fine del suo insegnamento.

Tuttavia, pur occupando lo stesso terreno, religione e psicoanalisi sono assolutamente incompatibili, giacché la religione occulta il reale con l’elezione di un significante, e sostiene il rapporto, l’unione. In questo senso, la religione, nevrosi ossessiva dell’umanità, è uno spostamento, un décalage, che sostiene una promessa nel nome di un Nome. Per concludere, riprenderò una proposta che ho fatto qualche tempo fa[14], una proposta riguardante il valore allegorico — allegorico nel senso di Walter Benjamin[15] — che nella nostra modernità assume questa invenzione di Freud, la nevrosi ossessiva, e che secondo Lacan è l’unica forma di nevrosi che sicuramente esiste ancora. E se la nevrosi ossessiva fosse la testimonianza della nostra moderna religiosità? La nevrosi ossessiva come allegoria di ciò che resta della religione in colui che, anche se non credente, è ben lontano dal separarsi dagli oggetti che lo orientano, oggetti come lo sguardo, questo occhio universale posto sulle nostre azioni; la nevrosi ossessiva come allegoria di ciò che resta della religione in colui che tenta di rianimare un Altro costantemente sul punto di scoprirsi inesistente, cercando di scongiurare questo rischio interpretandone i segni — da cui le superstizioni e i rituali, salvo poi chiamare laicità quanto gli sta difronte, vicino e lontano al tempo stesso, da mantenere ignorato o evitato. Dire che questa nevrosi esiste ne fa la posta in gioco della psicoanalisi oggi, non si tratta tanto del fatto che la sua frequenza sia in aumento o che la clinica vi si riduca, ma questo dialetto dell’isteria è la lingua che ci parla della psicoanalisi da reinventare, aprendo la delicata questione dell’articolazione della teoria e dell’esperienza.


Note

  1. S. Freud, L’avvenire di un’illusione, in Il Disagio della Civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pp. 170-171.  []
  2. J. Lacan, Le Séminaire, Livre XXII, RSI (1974-1975), lezione del 7 dicembre 1974 (inedito).  []
  3. S. Freud, L’avvenire di un’illusione, cit., p. 178.  []
  4. J. Lacan, Il Seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), a c. di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1994, p. 405.  []
  5. Id., Conférences et entretiens dans des universités nord-américaines. Yale University (1974), in «Scilicet», 6/7, 1976, p. 32.  []
  6. Id., Il Seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963), a c. di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2007, p. 336.  []
  7. Id., Le Séminaire, Livre XXIV, L’insu que sait de l’une-bévue s’aile à mourre (1976- 1977), lezione del 17 maggio 1977 (inedito).  []
  8. Id., Televisione, in Altri scritti, a c. di A.Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013, p. 529.  []
  9. J. Assman, Mosè l’egizio, Adelphi, Milano 2000.  []
  10. J. Lacan, Le Séminaire, Livre XXI, Les non-dupes errent (1973-1974), lezione del 9 aprile 1974 (inedito).  []
  11. Id., Le Séminaire. Livre XXII, RSI (1974-1975), lezione del 17 dicembre 1974.  []
  12. Id., Les non-dupes errent, lezione dell’11 dicembre 1973.  []
  13. Id., Le Séminaire, Livre xxv, Le moment de conclure, (1977-1978), lezione dell’11 aprile 1978 (inedito).  []
  14. Cfr. A. Vanier, Aujourd’hui, la névrose obsessionnelle, in «L’Évolution psychiatrique», vol. 70, 1, gennaio-marzo 2005; Névrose obsessionnelle, névrose idéale, «Figures de la psychanalyse», 12, 2006; Conferenza inedita La névrose obsessionnelle comme névrose fin de siècle, tenuta al VII Congreso Internacional de Investigacion y Practica Profesional y Psicologia, Università di Buenos Aires, 25 novembre 2015; ecc.  []
  15. «Le allegorie sono nel regno del pensiero quello che le rovine sono nel regno delle cose» (W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1971, p. 184).  []