Un destino sì funesto


Esce in questi giorni, per la casa editrice Orthotes, Un destino sì funesto, di François Roustang, a cura di Luigi Francesco Clemente e Franco Lolli.
Un libro, quello del terapeuta dissidente della psicoanalisi, che, sin dalla sua comparsa in Francia nel 1976, ha polarizzato le opinioni tra quanti si sono riconosciuti nei meccanismi istituzionali descritti dall’Autore e quanti vi hanno scorto un subdolo tradimento della Causa analitica.
Il testo che pubblichiamo è un estratto dal secondo Capitolo.

Se dunque confrontiamo le analisi che Freud ha dedicato alla Chiesa e all’esercito in Psicologia delle masse e analisi dell’Io e il progetto di costituzione di una società di psicoanalisi esposto in Per la storia del movimento psicoanalitico, dobbiamo constatare che tra di essi sussiste una strana relazione. Fedeltà al fondatore, sottomissione al capo, unità di dottrina, cacciata dei dissidenti, ecc.: tutti questi tratti che definiscono la nuova società psicoanalitica non possono trovare altra spiegazione analitica che nell’identificazione al capo considerato come oggetto d’amore e in quanto occupa per ciascuno il posto dell’ideale dell’Io. È come se Freud, che aveva criticato in maniera radicale i fondamenti di due società-tipo della nostra civiltà, non avesse potuto tuttavia trovare altri modelli per mettere in piedi una società composta dai rappresentanti di una pratica, di una tecnica e di una teoria che, pure, aveva smontato i meccanismi indispensabili al funzionamento della società occidentale.

Qui vi è ben più che un paradosso: vi è una questione posta alla psicoanalisi e al suo funzionamento. Infatti, se ogni società di psicoanalisi riproduce la Chiesa o l’esercito, se essa ridistilla nei suoi membri, tramite la propria struttura, gli effetti e i misfatti dell’identificazione e dell’amore, non vi è alcun dubbio che sia proprio la psicoanalisi a venir minacciata o sovvertita, e che la sua incisività si trovi smorzata.

È ovviamente possibile obiettare, sghignazzando, che la Società di psicoanalisi non ha nulla a che spartire con la Chiesa: per esempio, essa non riconosce né dio né Cristo, non impone né dogma né morale, non ha riti collettivi ereditati dagli avi, non possiede nessuna sacra scrittura. Ma, se guardiamo le cose più da vicino, senza voltare la faccia davanti alle convergenze spiacevoli o che molto semplicemente pongono questioni da prendere sul serio, che cosa scopriamo?

Oggigiorno, sono numerosi i cristiani che, riprendendo le tesi di Karl Barth sulla distinzione tra fede e credenza, non si preoccupano più dei dogmi (la cui formulazione viene relegata a tempi oramai tramontati) né sentono più i vincoli della morale tradizionale e pensano che solo l’amore di cui ciascuno è giudice può imporre la sua legge; la maggior parte dei cristiani considera i riti come qualcosa da modificare in tutti i sensi possibili, a seconda del gusto e dei bisogni propri di ogni singola comunità, di modo che le regole dettate dall’alto non contengano più alcun carattere imperativo. Rimane solo la fede come legame della comunità ecclesiastica. Dire che questa fede non ha alcun contenuto sarebbe un errore, così come sarebbe un errore pensare che non sia più una fede religiosa, poiché è in gioco oggi come ieri la fede nel Cristo latore di salvezza.

Non basta quindi l’assenza di dogmi, di riti e di morale per sostenere che la psicoanalisi è al riparo da una ripresa surrettizia del fatto religioso. Bisogna andare a vedere dalle parti della fede e del transfert. La fede, per come appare oggi in molti cristiani, ridotta com’è alla sua più semplice espressione, si definisce come fedeltà al Cristo e come fedeltà al Vangelo — un Vangelo spogliato dall’inflazione interpretativa dei secoli precedenti e reinterpretato in maniera differente da ciascuno o da ciascun gruppo di credenti. Conta poco che queste interpretazioni divergano tra loro, l’essenziale è il riferimento sempre costante allo stesso testo e alla stessa persona, nel suo nome. Il Cristo è supposto aver detto le parole della vita, il testo è supposto contenere le parole che danno senso all’esistenza umana.

È lo stesso Freud ad aver sottolineato il legame tra transfert e fede: «Finché la traslazione [del paziente] è preceduta dal segno positivo, essa riveste il medico di autorità e si converte in fiducia nelle sue comunicazioni e concezioni. Senza tale traslazione, o se questa è negativa, il paziente non presterebbe nemmeno ascolto al medico e ai suoi argomenti. La fiducia ripete qui la storia della propria origine: è un derivato dell’amore e all’inizio non ha avuto bisogno di argomenti. Solo in seguito egli ha fatto un certo spazio a questi ultimi, sottoponendoli a verifica quando erano esposti da una persona cara»[1]. Infatti, il transfert ha una storia e si modifica nel corso dell’analisi, staccandosi progressivamente dalla fede che sostanzia l’autorità dell’analista e che, addirittura, condiziona la possibilità di parlare.

In un primo tempo il transfert istituisce l’analista, per riprendere l’espressione di Lacan, come soggetto supposto sapere quanto l’analizzante ignora, e che sarebbe capace di sciogliere i nodi dai quali questi è intrappolato; l’analista è supposto sapere ciò che, una volta saputo, permetterebbe all’analizzante di sbarazzarsi della sua nevrosi. In questo senso, l’analizzante ha fede nell’analista, gli accorda la sua fiducia e ripone la propria speranza in lui. Senza questo motore, è assolutamente certo che l’analisi non sarebbe possibile.

Ma la fede che è in questione nell’analisi si distingue radicalmente dalla fede religiosa, e questo perché il processo analitico deve condurre alla risoluzione del transfert, come a «uno dei compiti principali della cura»[2]. Parlare di liquidazione, di dissoluzione, di decomposizione, di risoluzione del transfert (Lösung, Ablösung, Auflösung) non significa altro che parlare della sua analisi, o anche dell’analisi tout court, la quale consiste nello smontare una situazione artificialmente creata all’inizio. Niente analisi senza analisi del transfert: questo significa che non si è fatto nulla fino a quando non sono stati sciolti gli intrighi dei miei desideri e dei miei pensieri con quelli delle persone e dei personaggi che mi hanno amato o odiato, e che in questo modo mi hanno formato o deformato; personaggi dei quali l’analista prende il posto o i posti, nella loro globalità o in successione, manipolandone in maniera intricata i tratti peculiari. La nevrosi consiste sempre nell’impossibilità di parlare, di fantasmatizzare, di desiderare a partire da sé, e nella volontà — nel gusto inveterato — di farsi eco o riflesso di ciò che dicono o pensano gli altri. Se, come sostiene Lacan, il desiderio è il desiderio dell’Altro, la risoluzione del transfert si basa sul radicale cambiamento di senso del secondo termine della frase: si tratta, in effetti, di far passare questo Altro all’inesistenza, di modo che l’Altro che mi permette di desiderare non sia nessuno, oppure sia una pura contingenza, grazie alla caduta di qualsiasi oggetto di desiderio, conseguente a quella del supposto sapere e di ogni supposto.

La fede religiosa, anche nella sua forma più apofatica, si regge sul mantenimento dell’oggetto del desiderio, anche e soprattutto se questo oggetto è inconoscibile, qualcosa, cioè, di cui non si può dire nulla e che acceca; si regge quindi sulla permanenza di un soggetto supposto sapere, un soggetto che è sempre collocato al di là di tutte le disillusioni, di tutte le contraddizioni, di tutte le avversità e di tutte le cadute della speranza. È un “eppure, c’è” che compie il periplo della fede, rinforzato dal passaggio per le purificazioni e le messe alla prova. Dio o il Cristo o la Scrittura sono supposti sapere nella misura in cui il credente non comprende nulla, non sa nulla e non vede più nulla. Il culmine di questa fede è l’estinzione del proprio desiderio.

La fede necessaria all’avvio dell’analisi, in quanto ne è la materia stessa, si opporrebbe dunque alla fede religiosa. La prima è artificialmente provocata affinché l’analizzante vi si imbarchi al fine di liberarsi da qualsiasi fede. La seconda è fatta per non venir mai meno e per rafforzarsi ogniqualvolta si trovi messa in scacco: non la si analizza, la si mette alla prova.

Ma cosa accade quando proprio l’analisi perdura, vale dire quando, lungi dal condurre alla dissoluzione del transfert, la relazione si mantiene sotto forma di “controlli”, di “seconda tranche”, di “passe”, oppure quando più semplicemente si fa parte di una società psicoanalitica il cui capo è l’unico, definitivo, punto di riferimento teorico, il modello per ogni possibile analista? Il fatto di divenire analista, che in prima istanza sembra il miglior modo per portare avanti l’analisi, potrebbe, allo stesso tempo e a causa dell’attuazione di transfert nuovi e stabili, segnarne la fine. La psicoanalisi didattica, lungi dall’essere la psicoanalisi pura, rischia di diventare, in questo modo, quella più oscurantista, in quanto reintroduce la fede religiosa sotto la sua forma più sottile di denegazione. Viceversa, l’analisi detta terapeutica, limitata nel tempo e dimentica di sé, non ha alcuna pretesa di battezzare come “analitici” i ritorni del rimosso e le risocializzazioni che la seguono. Non è certo l’interruzione dell’analisi che può segnare la soluzione del transfert, ma, se non altro, nel caso dell’analisi terapeutica, non ci si vede costretti a rinunciare a parlare di dissoluzione del transfert col rischio di vedersi accusati di minacciare i fondamenti e la coesione della società analitica. Ecco allora il paradosso: la trasmissione dell’analisi sarebbe la più grande minaccia per l’analisi stessa, in virtù del fatto che proprio il suo ambiente si regge sul rafforzamento del transfert invece che sulla sua dissoluzione.

Ciò che costitutiva la società psicoanalitica al tempo di Freud era l’adesione ad alcune verità fondamentali come il transfert, il rimosso, la sessualità infantile — tutte teorie inventate e difese dallo stesso Freud. In queste credenze, basate su fatti d’esperienza e delle quali non si possono dare prove apodittiche, a essere in gioco è il transfert verso Freud. Fa parte della società in questione colui che si riconosce e che è riconosciuto come allievo e discepolo del fondatore, colui che si sottomette alla sua persona, vale a dire: colui che ha fede in lui in quanto detentore della verità della psicoanalisi e in quanto arbitro di eventuali conflitti tra i membri della società, colui che è pertanto disposto a sottomettersi in anticipo alle sue parole e ai suoi giudizi [3]. È questo “in anticipo”, par avance, che costituisce il mantenimento del transfert o, in altre parole, la fede: accada quel che accada, è lui che io servirò, poiché è lui che sa e che ha ragione.


Note

  1. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Opere. Vol. 8. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti. 1915-1917, a cura di C.L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 403.  []
  2. Id., Tecnica della psicoanalisi, in Opere. Vol. 6. Casi clinici e altri scritti. 1909-1912, a cura di C.L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 2016, p. 539.  []
  3. Cfr. questa espressione compare in una lettera inviata da Abraham a Freud: «Vi prometto in anticipo di servire i Suoi interessi» (S. Freud – K. Abraham, Briefe 1907-1926, S. Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1965, p. 327).   []