Contro la religione della morte


Su gentile concessione dell’autore e della rivista Altraparola, pubblichiamo questo articolo di Paolo Godani.

1.

La critica della religione si è presentata quasi sempre come dissoluzione di edificanti illusioni. Dio, l’immortalità dell’anima, la vita oltre la morte, la ricompensa nel giorno del giudizio, l’al di là paradisiaco erano da intendersi come variazioni di un’unica falsa credenza: quella nell’esistenza di una trascendenza rispetto a questa vita e a questo mondo.

Lo stile di tale critica è stato di volta in volta compassionevole, come nel caso in cui si faceva mostra di comprendere che l’uomo preferisse sperare in qualcosa di meglio della tragica esistenza nella quale si trova a vivere, oppure orgoglioso, come nel caso in cui, alzando i pugni al cielo, si esaltasse il rifiuto che non si piega all’inganno consueto. Ma il punto è che la critica della religione ha sempre dato per scontato il senso di questo mondo, senza avvedersi di quanto la costruzione di questo senso dovesse a quella stessa religione che si pretendeva di dissolvere.

Raramente ci si è resi conto del fatto che i danni provocati dalla religione non sono dovuti soltanto alla fantasticheria di un altro mondo, ma anche e soprattutto alla ripercussione che quell’altro mondo ha su questo. Più precisamente, ciò di cui quella critica non si è avveduta è che l’altro mondo fantastico, prospettato dalla religione, implicava un’immagine distorta e degradata della natura di questo mondo e di questa vita. Ne è conseguita l’accettazione pedissequa dell’immagine religiosa di questo mondo, solo privata della sua aureola. Per quanto ormai impossibilitati a rivolgere il nostro saluto e la nostra preghiera alla Regina, Madre di Misericordia, abbiamo continuato a essere «gementi e piangenti in questa valle di lacrime». Molto spesso è parso che il «realismo» materialistico e ateo, una volta rifiutata la consolazione, non potesse che guardare con lucido pessimismo alle cose di questo mondo. Ma questo ha significato, precisamente, l’accettazione acritica di un’immagine religiosa dell’al di qua.

L’immagine religiosa del mondo implica precisamente che la creatura, essendo peccatrice, sia destinata ad una vita sofferente e mortale (quando non venga salvata dalla grazia divina). È un’immagine di cui la speranza della salvezza non riesce a nascondere il carattere fondamentalmente nichilistico. Per l’uomo religioso, di cui il cristiano è un esempio paradigmatico, questa vita, qualora non venga rinnovata dallo spirito, è letteralmente nulla o, nel migliore dei casi, è un cammino di dolore che espiando il peccato legittima la speranza in un’altra vita. Per l’uomo religioso, e per tutti noi dal momento in cui abbiamo rinunciato a contestare il nichilismo implicito in ogni religione trascendente, è un’evidenza indiscutibile che le nostre esistenze, i nostri corpi, come del resto tutte le altre cose di questo mondo, siano destinate alla miseria e alla distruzione.

Ogni istanza spirituale e metafisica, essendo, per così dire, sequestrata dall’altro mondo, lascia questo nelle sole mani del male, della sofferenza, della morte. La critica della religione accetta anche questo destino assegnatole dalla sua nemica, e rinuncia sdegnata a ogni spiritualità mondana e a ogni metafisica immanente. Così, non si accorge di lasciare alla nemica le uniche armi di cui si potrebbe giovare nella sua lotta. Se la spiritualità e la metafisica parlano solo dell’altro mondo, allora certo bisognerà disfarsene. Ma, in tal caso, a parlare di questo mondo resterà solo il discorso che il pensiero critico deriva senza saperlo dalla religione stessa. Di più, senza la speranza in un’altra vita, quel pensiero critico si presenterà come una religione della morte.

Eppure, nella storia della nostra cultura, la critica della religione, l’ateismo e il materialismo hanno presentato anche un altro volto.

2.

A proposito della religione della morte, l’intuito di Furio Jesi ha aperto una strada che lui stesso, forse, non ha potuto percorrere sino in fondo.

Quello di «religione della morte» è un concetto complesso, estratto dal confronto con una molteplicità di fonti, che ha la funzione di indicare una postura etica storicamente determinata, dalla quale, per Jesi, si può riconoscere innanzitutto una cultura di destra.

In un’intervista rilasciata all’Espresso nel 1979 (ora in Cultura di destra, Nottetempo, 2011), Jesi è esplicito nel dichiarare che una «cultura in cui prevale una religione della morte» è una cultura « di destra » (ivi, p. 287). Ma questo potrebbe significare soltanto che nelle culture di destra è implicita l’esigenza del sacrificio per la causa, cioè, fondamentalmente, per la patria. In realtà, senza sciogliere questo nesso con i fondamenti della destra, il concetto di religione della morte ha un significato che non coincide del tutto con quello politico del sacrificio.

La religione della morte è costituita, fondamentalmente, da due elementi. Il primo consiste nell’idea secondo cui la morte sarebbe «qualcosa e insieme nulla»; il secondo, nell’idea per cui, rispetto a questo qualcosa che insieme è nulla, sia possibile adottare un «comportamento» tale da elevare la morte alla sua «verità superiore» (entrambi questi tratti fondamentali Jesi li trae dallo scritto di K. Kerényi, Il mito della Areté, ora in Scritti italiani, Guida, 1993).

Potremmo dire che la religione della morte non implica soltanto la possibilità di un uso effettivo della morte (che si concretizza nell’uccisione dei nemici, oltre che nel sacrificio di sé), ma anche e forse soprattutto l’idea di una sua funzione più generale.

Sembra in effetti che Jesi distingua tra uso e funzione della morte quando, parlando di due personaggi così diversi come Pound e Kerényi, suggerisce che al fondo della loro comune adesione alla religio mortis non sta tanto l’attrazione verso l’omicidio, il sacrificio e la guerra (cioè verso il « mucchio di morti » di cui parla Canetti), quanto l’esigenza di porre un argine alla paura della morte (cfr. Jesi, Materiali mitologici, Einaudi, 2001, p. 30). In questo senso, la religione o il mito della morte non si concretizzerebbe soltanto nel «siam pronti alla morte» dell’inno italico o nel «Viva la muerte» dei falangisti spagnoli, e neppure nel carattere suicidario dell’ultima strategia nazista, ma anche nella funzione costituente che la morte eserciterebbe quando si presenta come ciò a cui la vita resiste. Più precisamente, Jesi suggerisce che Pound e Kerenyi condividono l’idea secondo cui la cultura umana (e segnatamente la poesia e la mitologia) esiste solo in virtù del fatto che l’esistenza dell’uomo è costantemente minacciata dalla morte. A proposito di Kerényi, Jesi scrive per esempio: «La mitologia è il cerchio contro la morte; ma anche: la mitologia è il cerchio che è tale poiché attorno ad esso preme la morte» (ivi, p. 31).

Così compresa, la religione della morte sussume uno spettro di fenomeni ben più ampio di quello che comprende la mistica della guerra e del sacrificio. È per questo che Jesi può azzardare tranquillamente un allargamento di campo e può dire che lo stesso Kerényi (come per altri versi Pavese, su cui vedi i saggi contenuti in Letteratura e mito, Einaudi 1968) «non era estraneo a quella religione della morte di cui si possono seguire le orme nella cultura tedesca da Creuzer a Nietzsche, a Frobenius a Rilke» (Jesi, Materiali mitologici, cit., p. 27).

In questa tradizione della religione della morte, ha un posto anche Thomas Mann, il quale però, almeno nel Doktor Faustus, compie un’inversione fondamentale che lo allontana da Kerényi. Quest’ultimo, che, dopo aver letto il Doctor Faustus e aver confessato di fronte al suo stesso autore l’impressione che si trattasse di un «romanzo cristiano», veniva invitato da Mann a scriverne, non si risolverà mai a farlo, forse proprio in ragione di quell’inversione. Questa, almeno, è l’ipotesi avanzata da Jesi, fondata sull’idea che il Doctor Faustus sia sì una «evocazione altissima» (ivi, p. 17) della religione della morte, ma che lo sia in modo tale che «quella virtù mitica si trovi con il segno opposto : ‘abominazione della desolazione’ » (ibidem). In altre parole, Kerényi non avrebbe scritto nulla sul romanzo di Mann perché si sarebbe trovato di fronte ad una contestazione del mito della morte, fondata sulla constatazione dell’abominio a cui essa inevitabilmente conduce.

Se ora ci allontaniamo dai sentieri battuti da Jesi è per notare che se il mito della morte non si riduce alla volontà di morte, insieme omicida e suicidaria, tipica del fascismo, ma consiste nel considerare la morte come qualcosa e insieme nulla e nell’affermare che essa possa assumere la sua verità superiore in funzione del comportamento che si adotta rispetto ad essa, cioè se la religione della morte non implica solo un uso della morte, ma anche il conferimento ad essa di una funzione relativa alla vita, allora nessuna religione trascendente potrà presentarsi come un antidoto alla religione della morte.

3.

Tutte le volte che il materialismo non ha saputo fare di meglio se non lottare contro certi suoi nemici, si è limitato a negare, spesso con mal posto furore, l’esistenza dello spirito. In questo modo, si è privato dell’unica arma che poteva permettergli di evitare l’intelligenza con altri nemici e, in particolare, con quel nemico che ha elevato un’ontologia nichilista della finitudine a dottrina universale, cioè il cristianesimo (cfr. P. Godani, Il corpo e il cosmo, Neri Pozza 2021). Viceversa, quando il materialismo ha saputo presentarsi con una posizione metafisica autonoma, ha compreso lo spirito per ciò che è: un’altra interpretazione del corpo – altra, appunto, rispetto a quella che fa del corpo un involucro effimero e peccatore, destinato (qualora non sia salvato dal miracolo della grazia) alla sofferenza e alla morte. Per un materialismo che veda con chiarezza le proprie necessità, lo spirito è sempre stato il corpo stesso visto con gli occhi della mente, cioè compreso sub specie aeternitatis.

Da Epicuro a Spinoza e oltre, il materialismo avveduto non ha mancato di ricordare che credere al corpo, per chi non sia tristemente tormentato delle sorti della propria carne e dunque perduto nelle nebbie sublimi dell’al di là, significa, letteralmente, credere all’indistruttibile.

Quando Epicuro, per iniziare da lui, afferma che il saggio vive come un dio tra gli uomini, dal momento che fruisce del piacere catastematico, cioè stabile, consustanziale all’esistenza stessa del suo corpo, indica precisamente che un uomo del genere possiede le due qualità proprie della divinità: l’indistruttibilità e la beatitudine. Per Epicuro, infatti, indistruttibile non è solo ciò che dura per un tempo infinito, ma anche ciò che, nel tempo che gli è dato, esiste senza essere toccato dal nulla, dal male e dalla morte. Indistruttibile è ciò che è integro, anche quando si tratta di un essere la cui durata è limitata nel tempo. Per questo l’epicureo non piangerà l’amico che avrà avuto una vita più breve dell’ordinario, se questa vita non è stata avvelenata dall’inimicizia, dalla stupidità, dalla paura.

E anche la beatitudine che il saggio condivide con la divinità, in fondo, non è altro che la fruizione o il godimento di quella stessa essenza, integra e indistruttibile.

Ma com’è possibile sostenere che la natura umana, pur essendo finita, è indistruttibile come quella divina?

Una possibilità potrebbe essere quella di intendere l’argomento epicureo come un argomento eleatico o megarico. Dire, come fa Epicuro, che non dobbiamo temere la morte, perché «quando ci siamo noi, lei non c’è, e quando ci sarà lei, non ci saremo più noi», avrebbe più o meno lo stesso significato del seguente argomento megarico: « se il muro viene distrutto, questo accade o quando le pietre sono ancora in contatto e connesse le une con le altre, o quando sono ormai separate e sconnesse. Ora, il muro non viene distrutto né nel primo caso [perché il muro è ancora integro] né nel secondo [perché non c’è più alcun muro]. Dunque il muro non viene affatto distrutto».

C’è del resto un altro detto megarico che è ancora più chiaro e che dice: «ciò che vive non muore né nel tempo in cui è vivo, né nel tempo in cui non lo è, dunque ciò che vive non muore mai».

Non ho nulla in contrario a questa possibile interpretazione, ma vorrei proporne una seconda.

Si potrebbe leggere l’affermazione epicurea relativa alla nostra indistruttibilità alla luce del pensiero di Spinoza. Potremmo dire che ogni cosa singolare è indistruttibile, e dunque eterna, nel senso che non alberga in sé nulla che possa distruggerla. Potremmo dire, cioè: per quanto sia vero che ogni cosa singolare finita non è destinata a durare in eterno, nondimeno, è altrettanto vero che la sua durata limitata non dipende da una « fragilità » che sarebbe connaturata alla sua essenza, ma dipende da ragioni o cause che le sono del tutto esteriori (cfr. Ethica III, 4 e dim.).

Oppure potremmo dire ancora, in maniera forse più convincente, che il fatto che una cosa singolare possa non essere più attualmente esistente non significa che sia caduta nell’abisso del nulla. Giulio Cesare, ad esempio, per quanto non sia più attualmente presente, resta Giulio Cesare, fissato nello spazio di tempo che è stato il suo proprio, senza perdere nulla della sua essenza singolare.

E questo accade perché ogni cosa esistente è espressione di un unico essere, ovvero di quell’unica potenza di esistere che è la Natura.

La peculiare eternità di ogni cosa, anche di una cosa finita, risiede dunque nella sua stessa potenza di esistere ; risiede cioè nel fatto che l’essenza di ogni singola cosa, se esiste, è scolpita nella potenza generale della Natura.

Non diversamente da Epicuro, Spinoza non nega affatto l’esistenza dello spirito, ovvero della mente, né lo presenta come altra cosa rispetto al corpo. Al contrario, quando parla del corpo e della sua mente, si riferisce a una stessa identica cosa, per quanto concepita sotto due attributi differenti, cioè in maniera formalmente diversa. Ma soprattutto, la qualità propria della mente, la sua qualità propriamente spirituale, non consiste nella facoltà di intendere il corpo in relazione allo spazio e al tempo, dunque come un corpo finito, ma nella capacità di concepirne l’essenza sotto l’aspetto dell’eternità. In questo modo, la qualità spirituale della mente le consentirà di sentire la sua propria eternità e, insieme ad essa, l’eternità e l’indistruttibilità dell’essenza del corpo.

E anche nel caso di Spinoza, non diversamente da quanto accade in Epicuro, la beatitudine consisterà nella fruitio essendi, ovvero nel godimento dell’integrità del proprio essere. Spinoza, in questo senso, parla di una acquiescentia in se ipso, cioè appunto di uno stabile godimento della propria natura ovvero di una contemplazione della propria potenza di agire – in opposizione frontale alla humilitas cristiana, che intende invece esaltare come virtù la contemplazione della propria impotenza (e in questo senso la critica della religione è davvero la critica della valle di lacrime). La beatitudine del saggio, insomma, coincide con la sua capacità di guardare alla propria natura non per quanto in essa sembra esservi di mutilo e imperfetto, non per le mancanze da cui sarebbe afflitta, ma proprio e solo per quanto di indistruttibile vi è in essa, per la perfezione che ne definisce l’essenza.

4.

I casi di Epicuro e Spinoza non ci dicono soltanto che una certa spiritualità è necessaria alla coerenza di un materialismo consapevole, ma ci avvertono anche del fatto che la stessa rilevanza politica del materialismo, della critica alla religione e dell’ateismo, quella che ha sempre costituito il loro scandalo, dipende proprio da quella spiritualità. Quando nella Lettera a Meneceo Epicuro invita il suo interlocutore ad abituarsi a ritenere che nulla sia per noi la morte, e quando alla fine della quarta parte dell’Etica Spinoza spiega che il saggio a nulla pensa meno che alla morte, entrambi stanno delineando, insieme ad una prospettiva metafisica, l’immagine politica dell’uomo libero. In entrambi i casi, l’uomo libero non è un santo sovraumano che vive in solitudine, ma è innanzitutto il costruttore di una comunità di amici – dove amici sono coloro che, proprio perché riconoscono l’indistruttibile che è in noi, non desiderano che vivere una vita comune.

In questo senso, se si fa, come suggerisce giustamente Jesi, della religione della morte il tratto caratteristico di una cultura di destra, allora una cultura che le si oppone non potrà che dotarsi di una logica dell’indistruttibile. Non, si badi, di una religione della vita, dato che la «vita», per come si è venuta costituendo nella nostra cultura moderna, non è che il correlativo della morte, ma una filosofia che, demistificando il pathos della morte e, insieme ad esso, quello di una vita sempre in bilico sul nulla, sia capace di affermare un’altra immagine di questo mondo, rispetto a quella prospettata dalla religione.