Dal fantasma delle ossa fratturate alla funzione ortopedica del gruppo di psicodramma analitico


«Ho visto anch’io, con occhi apertimi dalla divinazione materna, il bambino traumatizzato ch’io partissi a dispetto del suo appello precocemente abbozzato con la voce, e mai più rinnovato per mesi interi- l’ho visto io, molto tempo dopo ancora, quando lo prendevo, questo bambino, sulle mie braccia- l’ho visto lasciar cadere il capo sulla mia spalla per cadere nel sonno, un sonno lui solo capace di restituirgli l’accesso a quel significante vivente che io ero dopo il giorno del trauma»
(J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, p.64)

Trauma e fantasma

Nella prima teoria del trauma Freud stabiliva un rapporto diretto tra trauma, rimozione dei ricordi dolorosi legati ad esso e costituzione dei sintomi, individuando nel trauma di natura sessuale la causa prima dei sintomi. Ma Freud si rese conto che, se questa poteva costituire la causa possibile per l’isteria, non poteva certo essere considerata come causa universale. Freud giunge così a formulare una seconda ipotesi e cioè che non è il trauma in sé (cioè il trauma reale) causa dei sintomi, ma la modalità con cui il soggetto risponde a ciò che fa trauma per lui, cioè la modalità soggettiva con cui il soggetto è segnato da un evento. È l’inconscio del soggetto che risponde a ciò che fa trauma. Dunque da eziologia traumatica a causalità psichica. Di conseguenza non più la ricerca della verità storica in quel che il paziente racconta, ma la possibilità di cogliere la modalità soggettiva di leggere un evento da parte del soggetto. Con I Tre saggi sulla teoria sessuale del 1905, Freud formula in maniera chiara l’ipotesi che ci sia un trauma universale che è il nome dell’incontro con la pulsione e che meglio sarà chiarito con il complesso edipico e con le fantasie incestuose che lo accompagnano. Per cui i desideri incestuosi, legati al complesso edipico, considerate come fantasie universali, segnano il passaggio definitivo dalla causalità eziologica a quella psicologica. La seduzione è considerata da Freud il dispositivo immaginario con cui il bambino annoda la pulsione alla legge. In verità Freud, ancora nel 1917, insiste sulla teoria della seduzione, sottolineando che non sempre si tratta di una fantasia, ma che spesso sono ricordi veri. Bisogna arrivare al 1920 perché formuli una ipotesi più complessa sul reale del trauma, a partire dalle nevrosi traumatiche di guerra. In Al di là del principio di piacere del 1920, parlando delle nevrosi da guerra e dei traumi reali, Freud sottolinea come una conseguenza del trauma sia la coazione a ripetere l’elemento alla base del trauma. Qui il trauma è reale e comporta non la formazione di sintomi (come formazione di compromesso, quindi in qualche modo interpretabili), ma una destrutturazione delle funzioni psichiche. C’è un ammontare energetico in eccesso che produce una ripetizione del trauma stesso in una coazione a ripetere che non si accompagna ad alcuna rappresentazione. Successivamente, partendo da queste considerazioni, Freud coglierà che questa tendenza a ripetere è alla base del funzionamento primario della pulsione che definisce pulsione di morte, come spinta a ripetere, e che è costitutivo del soggetto al momento della sua separazione originale dal suo essere pulsionale. Momento in cui nasce come soggetto ma si aliena nell’Altro. È questo il punto del trauma che può essere considerato come universale negli esseri umani. Lacan riprende questa dimensione di Freud relativa al trauma come esperienza universale che inaugura il passaggio dal vivente al soggetto, ne inaugura la sua nascita, è il punto di inserzione della pulsione. È il trauma del linguaggio che segna definitivamente il soggetto, restituendogli l’esperienza primordiale di inermità, di solitudine, di separazione dall’Altro [1]. Lacan parlerà di troumatisme (trou = buco) a testimonianza del buco nel simbolico che si produce con il trauma. Il trauma è scandito in due tempi: nel primo tempo qualcosa nella vita del soggetto accade. È il momento in cui il soggetto incontra l’inconsistenza dell’Altro, che non può dare risposta alle sue domande fondamentali, per cui, rimuove l’affetto d’angoscia legato all’evento e inconsciamente costruisce il fantasma, come possibile risposta all’inconsistenza dell’Altro. Per Lacan il fantasma è allora la costruzione che il soggetto fa per poter sopravvivere nel mondo e ritagliare, attraverso il simbolico, una pezzo del reale che chiamiamo realtà. La realtà è il tentativo che il soggetto fa di imbrigliare qualcosa del reale attraverso il simbolico, per difendersi dall’inermità e stato di abbandono inaugurale. Il fantasma nasce, dunque, dalle parole dell’Altro che in qualche modo assumono un peso determinante per il soggetto, lo determinano; ed è intorno ad esse che il soggetto costruirà il proprio fantasma. Sono gli occhiali, come dice Lacan o forse più precisamente come sottolinea Luisella Brusa [2] «Si tratta di una costruzione assolutamente particolare, che il soggetto mette a punto nel corso dell’infanzia e che, come un paio di occhiali da sole, gli permette di non essere accecato dalla luce insopportabile che sprigiona il nucleo traumatico del reale». Quindi il fantasma è il proprio sguardo, particolare sul mondo, ma allo stesso tempo è la trappola in cui il soggetto si ritrova fissato alla parola dell’Altro. Il fantasma è il motore della vita di ciascuno, ha a che fare con il desiderio ma è, nella sua costruzione, fisso, ripetitivo, non si modifica. Soggetto della propria vita e assoggettato alla parola dell’Altro. È dunque il fantasma come costruzione immaginaria che ripara il buco dell’inconsistenza dell’Altro. Luisella Brusa [3] parla di “traversata selvaggia del fantasma”, quando la tychè, l’incontro con qualcosa del reale interrompe l’automaton della costruzione fantasmatica, che sorreggeva il soggetto nel mondo e gli permetteva di rapportarsi alla realtà. Il trauma diventa dunque una traversata selvaggia del fantasma, che rompe il simbolico, fa emergere quanto velato nella rimozione originaria, lascia il soggetto senza alcun punto di riferimento, totalmente esposto alla sua inermità iniziale. Quando il fantasma vacilla, il sintomo appare come la risposta del soggetto, come il tentativo di un nuovo aggiustamento che ripari la frattura. Dunque, come sottolinea Franco Lolli [4] il fantasma è la base della costruzione del sintomo che di conseguenza porta con sé tracce del trauma originale.

Dalle ossa rotte dall’Altro, alle ossa rotte all’altro: la storia di Sonia

C’è dunque un reale del trauma, che sono le sue ossa rotte, ma ciò che fa trauma per lei è incontrare la risposta del padre, che le ripeteva in continuazione: «Quelli come te vanno buttati dalla Rupe Tarpea (nda: bisogna farli sfracellare al suolo)». Un padre che, dunque, non è garante di un funzionamento simbolico. Ed è a partire dall’incontro con l’inconsistenza dell’Altro paterno che Sonia costruirà il suo fantasma masochistico, facendosi oggetto, mal-trattato dall’Altro. «Mio padre mi voleva bene – dirà più volte nel corso della sua analisi- anche se era nervoso e mi trattava male, mi vedeva, ci teneva a me».

E Sonia rompe gli altri in continuazione, rompe ai suoi fratelli, chiedendo continuamente di dormire a casa loro, ogni sera. Con i fratelli si atteggia a bambina piccola. Piagnucola, fa le mossette. È l’unica modalità per essere vista, come con suo padre, come con tutti gli uomini della sua vita. Per molti anni, in seduta, porta la sua eterna lamentazione rispetto ai suoi dolori, le sue mancanze, le sue privazioni. E poi, da un po’ di tempo, nella vita di Sonia è entrato l’alcool. Fa coppia ormai solo con la bottiglia. Dopo il lavoro, beve fino a stonarsi, per non pensare, sentirsi un po’ più leggera, per non ripensare alle sue articolazioni che non la reggono, che le impediscono anche di fare trekking, di fare viaggi. Tutto per lei è impedimento e solitudine.

Non vista come soggetto, ma come oggetto, così Sonia si presenterà sempre al mondo e soprattutto nella relazione con gli uomini. Incontrerà sempre uomini che la maltrattano, la lasciano sempre con le ossa rotte. Questo è il tratto significante che si ripete nella sua vita: mettersi con uomini che la maltrattano ma che, come suo padre, la vedono, anche se come oggetto rotto. «Mi piacciono gli uomini bastardi, bastardi dentro. Odio gli uomini servi sciocchi che corrono dietro alle donne». È questo il mantra della sua vita che ripete in continuazione. La prima volta che Sonia pensa al suicidio è quando, appena adolescente, al suo primo ricovero ospedaliero, per l’ennesima frattura, si ritrova sola, in reparto con donne adulte. Le sbarre alle inferriate l’angosciano, per la prima volta ritrova il senso dell’abbandono e della solitudine che caratterizzerà tutta la sua vita futura. La costruzione fantasmatica vacilla, il suicidio le sembra l’unica soluzione alla sua vita triste. Seguiranno lunghi periodi di depressione, uniti a sintomi ossessivi.

E a testimonianza dell’amore paterno, Sonia porta il ricordo di quando, a dieci anni si è fratturata entrambe le braccia, diventando totalmente dipendente dall’altro e quando ha tolto l’ingessatura, i genitori si sono accorti che un braccio era storto. Sonia racconta con soddisfazione la vemenza con cui suo padre aveva telefonato al primario che l’aveva operata, ordinandogli di rimettere immediatamente a posto il braccio di sua figlia, minacciando di rompere a lui le ossa.

Sonia ha 54 anni, single. Vive sola da anni, da quando è morta sua madre, di cui si è occupata per tutta la vita. Laureata, lavora in un ente pubblico, con poche soddisfazioni. Non ha amici, non ha un compagno, non frequenta nessuno se non i suoi due fratelli, entrambi sposati, con figli. Suo padre, morto diversi anni fa, viene descritto come un uomo molto violento ed autoritario, un despota in casa. Nervoso e aggressivo con tutti in famiglia, teneva sempre lontano i bambini perché non li sopportava. Sua madre, apparentemente sottomessa a lui, ha sempre espresso con chiarezza la scarsa stima nei confronti di quest’uomo considerato rozzo e poco colto. Sonia è l’ultima di tre figli, segnata, sin dalla nascita, da una malattia genetica che comporta una fragilità ossea per cui tende a fratturarsi in continuazione. Ad un anno e mezzo si è già fratturata una decina di volte.

Ingresso nel gruppo di psicodramma: «Rompo tutto»

Decidiamo di inserirla in un gruppo di psicodramma, dopo diversi anni di psicoterapia individuale, nell’ipotesi che l’incontro con una parola altra possa interrompere l’automatismo della sua lamentazione e costituire una possibile apertura nel suo inconscio.

«Che devo dire? Che sono dipendente dall’alcool? Ho bevuto tre grappe prima di venire qui! L’alcool mi stona e mi sento meglio, non mi fa pensare».

Sono queste le prime parole che accompagnano il suo ingresso nel gruppo. Non si presenta con un nome, ma con un’insegna sintomatica. È l’insegna che fa da nome. E poi aggiunge: «Sono pazzissima!». Sonia entra, dunque, sulla scena dello psicodramma analitico con una parola spettacolo. Come sottolinea Colette Soler [5], ciò che il soggetto dice, riguarda il significante, cioè qualcosa che indica il rapporto del soggetto con il suo fantasma ed è oggetto di interpretazione, ma il modo di dire, prescinde dal contenuto, include il corpo, il respiro, l’emozione. È qualcosa che va al cuore della struttura del linguaggio ed include anche qualcosa d’altro «eleva talvolta la parola alla dimensione di spettacolo. Nell’approccio dei simili, nei giudizi di simpatia-antipatia al primo sguardo, questa dir-mensione (dit=detto, mension=menzione e dimension=dimensione) è sempre molto presente, ma molto difficile da definire» [6]. Sonia irrompe, dunque, nel gruppo, rompendo le ossa a tutti. Attacca i presenti con un linguaggio violento, volgare, aggressivo, minimizza i problemi degli altri. Al centro, i suoi: l’abbandono, la solitudine, l’emarginazione che sistematicamente i colleghi operano nei suoi confronti. Ripete, quasi ecolalicamente, la stessa frase, senza un apparente emotività: «Mi piacciono gli uomini bastardi, bastardi dentro». Non c’è alcuna emozione che accompagna questa frase, quasi un dire senza senso. «Tutti vanno via, mi abbandonano. Non ho nessuno, sono sola». Fa di tutto Sonia per rendersi antipatica, quasi volesse saggiare la risposta del gruppo. Mette alla prova il gruppo, gli altri, l’Altro. «Mi accetteranno così come sono o mi getteranno anche loro dalla Rupe Tarpea?» sembra essere questo l’interrogativo di Sonia. Temiamo la reazione del gruppo. Anche se i partecipanti lavorano insieme da diversi anni, per un momento si fa strada la preoccupazione che l’inserimento di Sonia possa portare uno scossone al gruppo troppo energico, mettendo in moto un processo espulsivo. Il rischio di una deriva immaginaria è sempre in agguato. Questo comporta una costante vigilanza da parte dell’animatore del gruppo, affinché in ogni momento si possa fermare, sottolineare, contenere, rilanciare il significante che faccia riprendere la catena associativa nel gruppo, evitando rischiosi invischiamenti immaginari.

Dal gioco al mettersi in gioco

Prima seduta, primo gioco. Sonia viene chiamata ad interpretare la parte dello sconosciuto di un sogno (portato da un’altra partecipante), ad occupare immaginariamente il posto dell’assente. E qui, qualcosa improvvisamente accade. Nella scena appare disinvolta. È centrata nei panni dell’altro, con lo sguardo duro di chi è lì a rappresentare il non conosciuto. Proprio nel posto dell’altro sconosciuto, Sonia può cominciare a prendere contatto con le proprie paure, paure sino ad allora anestetizzate attraverso l’alcool. Nelle sedute successive, in un altro gioco, Sonia verrà chiamata, questa a volta, a ricoprire i panni della sorella indifesa, che teme lo sconosciuto. Si coglie un passaggio. Da essere lei la sconosciuta, ora è chiamata a mettersi nei panni di chi teme lo sconosciuto. Uno sconosciuto che riattiva qualcosa di familiare e ad un tempo di minaccioso, che sembra avere a che fare con le paure ancestrali di ciascuno. E questo sconosciuto per Sonia sembra essere l’inedito incontro con un Altro dentro di sé e fuori di sé che nel corso delle sedute si rivelerà barrato, umano, indifeso. Nel gioco, Sonia occupa proprio il posto della sorella bisognosa di protezione e rassicurazione, che è della sua vita familiare. È ai fratelli che Sonia ricorre per non sentire la solitudine, per non ritrovarsi sola con la propria sofferenza. E laddove l’altro abdica a questa funzione di soccorritore, lei sembra ricorrere all’oggetto alcool, che in quanto tale, è lì e non la tradisce e sorprende mai. È difficile con Sonia andare all’osso della questione, tuttavia, proprio da lì, dal posto dell’altro speculare, nell’illusione che niente di quanto emotivamente pericoloso per l’emersione del suo trauma possa emergere, qualcosa del soggetto fa capolino. Rivela qualcosa di sé e del filo che la tiene legata all’Altro. Un tratto, un gesto, un’inflessione emotiva della voce fa segno all’Altro del suo esserci come soggetto. Nelle sedute che seguono sempre più chiaramente emergerà lo scarto tra quello che Sonia dichiara nel suo bla bla bla e ciò che, nella rappresentazione dice, dal posto dell’altro. I suoi detti superano il suo dire. La voce si fa più chiara, il timbro più risoluto. Emergono i primi interrogativi che hanno il sapore di un avvio di rettifica.  Sonia comincia a raccontarsi attraverso la sua storia.

Giochiamo una scena in cui Sonia esce con Maria e le sue amiche. Durante questa uscita Sonia cade e si fa male. La sorella spaventata chiama il padre che ha una forte reazione di angoscia, intrisa di rabbia e spavento. Nel cambio di ruolo, al posto del padre, Sonia porta l’angoscia per qualcosa che si ripete. Le ossa fratturate sembrano evocare la frattura in seno a questa famiglia che fatica a contenere l’angoscia per questa figlia “invalida”. «I miei genitori avevano i terrore di portarmi al pronto soccorso perché i medici più volte si erano chiesti se le mie fratture non fossero state frutto di maltrattamenti. Mi ricordo come fosse oggi che i medici ripetevano: la vostra bambina non deve avere figli!! Come se da me venissero fuori solo cose negative».

Emerge quanto Sonia fosse solo oggetto di preoccupazione dell’Altro, oggetto di sofferenza. La sua narrazione rinvia alla possibilità di cominciare ad essere soggetto della sua sofferenza. Lo scenario che emerge in questa seduta lascia intravedere che anche l’Altro è barrato, sottoposto alla legge del limite, della castrazione.

Nelle sedute successive, Sonia riprende a parlare nuovamente delle le sue idee suicidarie, che precipitano laddove l’Altro soccorritore viene meno. «Adesso che mio fratello è occupato dai suoi problemi e non ha tempo per me, mi sono ritornate le idee di suicidio. Non trovo senso in niente, sento solo un vuoto». Nel gioco con suo fratello, questi è disteso sul letto perché non si sente bene e appare occupato dai suoi pensieri. Sonia continua la sua solita lamentazione, ma il fratello è altrove. Nel cambio di ruolo, al posto di suo fratello, Sonia commenta che sta malissimo e che se suo fratello muore lei si suicida. Qualcuno del gruppo, doppiandola, le sussurra alle spalle che lei deve sempre essere nel posto della “pazzissima” e di chi sta sempre peggio di tutti. L’Altro non può essere visto nella sua fragilità, nella sofferenza. Sonia è incistata nella posizione della bambina con le ossa rotte che vuole solo e sempre essere ascoltata e vista. Sullo sfondo l’impossibilità ad accettare che l’Altro non è lì tutto per noi. Lo scenario che emerge apre la possibilità a Sonia di cominciare a vedersi e a vedere l’Altro. Le convinzioni “cazzute” e rigide cedono, così come cede con le sue cadute. Questo attraversamento le consente di portare nella seduta successiva una riflessione.

«È venuto quello dal nord (riferendosi ad un vecchio fidanzato che si è fatto vivo dopo tantissimi anni) e l’ho aspettato (è un lapsus, in quanto voleva dire ospitato)». «Come al solito sono stata cagata. Non vedevo l’ora che ripartisse, perché non sono abituata a tenere nessuno in casa. Lui che diceva di volermi vedere ma non ha avuto alcuno slancio con me». Sonia da un lato continua a cadere nella stessa ripetizione: si aspetta che l’altro la cerchi per potersi negare e continuare a lamentarsi, ma dall’altro, il suo lapsus lascia intravedere la sua divisione soggettiva. Dice qualcosa del suo desiderio. Qualche seduta più in là dirà.

«Posso cominciare io oggi? Volevo dire che mi sono resa conto che io sono la causa del mio stare male, che sono io che faccio di tutto per mettermi nella condizione di stare male. Sto bevendo di meno».

L’assunzione della propria sofferenza sembra andare di pari passo con la possibilità di stare in relazione con l’Altro. Un Altro che non è più solo relegato alla posizione di soccorritore, pronto a raccogliere i cocci delle sue ossa rotte, ma che può incarnare la proiezione del suo desiderio. Come per incanto, ritornano in auge vecchie fiamme, che Sonia casualmente incontra o sente telefonicamente. Sono ovviamente tutti uomini che continua a definire stronzi e bastardi. Ma qual è la sorpresa che Sonia rivela al gruppo? Racconta di aver incontrato per caso un uomo, conosciuto quando lei era adolescente, che rivedendola le ha confessato di quanto fosse stato innamorato di lei durante l’adolescenza. «Ma veramente qualcuno si è innamorato di me?» – si chiede stupita Sonia. Essere nel conflitto è essere nella vita, agganciata alla vita. Una vita che vuole vivere. Quando Sonia comincia ad aprirsi all’Altro, implicandosi soggettivamente nella propria sofferenza, gli altri cominciano a comparire nella sua vita e di riflesso inizia ad ascoltare il discorso dell’altro e ad agganciarsi ad esso, ritrovando un pezzo di sé.

Il contatto con i fratelli immaginari del gruppo ha attivato processi nuovi e sorprendenti.

L’effetto sul gruppo e del gruppo

Cosa ha rappresentato per i vari componenti del gruppo, l’ingresso di Sonia? «Sonia ha rotto!» – esclama qualcuno! Ma cosa rompe Sonia? Forse rompe anche gli schemi. È questo uno dei primi interrogativi che le irruenti parole di Sonia sollecitano nel gruppo. Come inter-rompere una ripetizione? Il suo ingresso ha un sapore sovversivo, sconquassa la fittizia omeostasi del gruppo, la placida andatura che il gruppo aveva assunto sino a quel momento. Toni pacati e capacità di tessere associazioni pertinenti, avevano reso questo gruppo e i suoi partecipanti capaci di un lavoro simbolico fine e preciso. L’entrata in gruppo così spettacolare di Sonia, che poteva costituire una pericolosa rottura di setting, si è rivelata motivo di passaggio di discorso, importante per il gruppo e per ciascun soggetto, a partire dal gioco e dal processo associativo che ne è derivato e che ha aperto a nuovi significanti. L’irruenza sulla scena di Sonia ha costretto ciascuno del gruppo a fare i conti con le proprie ripetizioni. Ognuno si è trovato confrontato con la propria immagine idealizzata che la parola dell’altro, così direttamente espressa, destituisce. È l’incontro con qualcosa di inatteso che interrompe l’automatismo della ripetizione.

E per Sonia?

Qualcuno, nel gruppo, comincia ad esprimere la sua simpatia per questa modalità apparentemente aggressiva con cui Sonia si rapporta al mondo e si difende dal mondo. L’Altro le tende la mano, ma ad un tempo le rimanda quanto sia ella stessa a non voler vedere che il suo modo di stare al mondo ripropone e alimenta la propria condizione di sofferenza. Una sofferenza che si regge sulla reiterazione del lamento, «Tutti mi lasciano sola, nessuno mi vuole!». È questa la posizione di godimento di Sonia attraverso la quale tende a volere mettere in scacco l’Altro e a cui il gruppo risponde, cominciando ad interrogare Sonia. Nel gruppo, piano piano, Sonia impara ad ascoltare l’altro, si dà il tempo per prendere la parola. Si immette nel discorso dell’Altro rispettandone il tempo, associando con un suo pensiero ed una parola che possa articolarsi con il discorso dell’altro. E se ha bisogno di espellere una parola rabbiosa che preme, lo premette e lo esplicita. Si comincia a vedere come soggetto e si fa vedere dall’altro. È un lavoro di traduzione quello che nella conduzione della cura si fa con lei, una sorta di continuo annodamento tra ciò che emerge nel gioco e nella catena associativa che si sviluppa, con ciò che l’altro del gruppo, l’Altro della sua vita le restituisce. Quando Sonia può cominciare a dire, parlando di un altro partecipante del gruppo, che è colpita dalla sofferenza profonda che l’altro porta, ciò vuol dire che può cominciare ad avvicinarsi al proprio discorso e quindi anche al discorso dell’altro. A mano a mano che qualcosa del simbolico comincia a ricrearsi, Sonia potrà ricordare e recuperare anche la dimensione emotiva.

La rettifica passa dal: – «Mio dio, mio dio perché mi hai abbandonato» – al – «Sono io, sono io che mi sono abbandonata». L’incontro con l’Altro e con i gli altri del gruppo diviene foriero di un processo di elaborazione. Non è più l’Altro che con la sua violenza la fa esistere, ma Sonia può davvero esistere come soggetto laddove incontra la dimensione di finitezza dell’Altro. Questo diviene il passaggio “traumatico” che Sonia fatica ad attraversare, l’osso duro della questione.

«Voi mi direte che sono lamentosa, ma io qui porto il mio disturbo. Io sono da sola. Ho una malattia che mi ha procurato quattordici fratture da ragazzina. Quando avevo nove, dieci anni mi dovettero imboccare perché avevo gli arti superiori ingessati. Non mi hanno mandata all’asilo per questa malattia e mi hanno affidata a mia sorella di tre anni più grande. Mia sorella doveva stare attenta affinché io non mi fratturassi. E se mi fratturavo mio padre le dava mazzate. Però Maria, mia sorella sapeva che doveva farlo. Era accudente e cazzuta. Io uscivo spesso con lei e la sua amica, ma siccome ero lenta e zoppetta, camminavo dietro di loro».

Sonia, finora, non porta la sua sofferenza, piuttosto la esibisce. Esibire sembra essere l’unico modo per farsi vedere attraverso un gioco ripetitivo a tratti infinito che alterna lamentazione e disprezzo verso l’Altro, al quale chiede di osservarla impotente a crogiolarsi nel proprio lamento. Un lamento che sino ad ora non ha fatto altro che ingenerare rifiuto e allontanamento. Un Altro che prende le sembianze di un padre che, su un versante la proteggeva dal mondo esterno a causa della sua malattia genetica che le aveva procurato sin dalla nascita innumerevoli fratture, ma sull’altro versante era autorizzato a picchiarla per le sue intemperanze, cosa accaduta sino all’età di trent’anni.

Alcune considerazioni a partire dal caso clinico

L’esperienza traumatica ha comportato per Sonia una rottura della dimensione simbolica, come spesso accade nei soggetti traumatizzati. Prevalgono il registro dell’immaginario e quello del reale. È come se il trauma incidesse sul linguaggio che perde la sua possibilità di espressione. Il trauma è irrappresentabile, innominabile. Le sue tracce possono solo prendere le forme della coazione a ripetere o trasformarsi in agito, come Sonia dà in continuazione testimonianza, creando una sorta di funzionamento psicotizzato, come lo definisce Brusa [7], privo di risonanza affettiva ed emotiva. Il soggetto sparisce dalla scena, diventa oggetto, totalmente preso e sovrastato dall’evento traumatico. È come se, da un lato, ci fosse un funzionamento sul versante sociale perfettamente adeguato alle richieste ambientali, ma più profondamente c’è un vuoto. I ricordi sono vividi a livello descrittivo, ma non accompagnati da una componente emotiva. C’è come una prevalenza della dissociazione sulla rimozione. La funzione della dissociazione diventa quasi protettiva nei confronti del soggetto per assicurargli che il materiale affettivo legato al trauma non emerga. Per cui anche se nel percorso terapeutico affiorano i ricordi, essi sono sganciati dal simbolico, sono senza alcuna coloritura emotiva. Sonia, quando parla della violenza paterna, lo ripete in modo ripetitivo, come una coazione, non accompagnata da alcuna emozione. Quando racconta, è nel reale del suo racconto, racconta i fatti. È, dunque, stato necessario reperire per lei, altre forme in cui il trauma potesse trovare rappresentabilità. Una sorta di ricostruzione del linguaggio che permettesse una nuova possibile narrazione della sua storia. Lo psicodramma analitico può essere, in questo senso, una forma nuova per provare a dire qualcosa dell’indicibile, attraverso il gioco psicodrammatico. Vorremmo riprendere alcune considerazioni sul gioco, proprio a partire dal famoso gioco del Fort–Da. Il più delle volte, però, l’attenzione si è rivolta fondamentalmente all’oggetto rocchetto che va e torna, ad indicare quanto il soggetto cerchi ciò che gli manca nel campo dell’Altro, nel tentativo, mai pienamente soddisfatto, di recuperare qualcosa di perduto. Forse però, l’elemento essenziale che marca e determina il gioco ripetitivo di Ernest e della nostra vita, non è solo l’oggetto rocchetto, ma è quel filo arrotolato intorno al rocchetto che ci conduce, attraverso il rocchetto, nel campo dell’Altro. Cosa rappresenta allora questo filo? Il filo è ciò che unisce e separa il proprio corpo dall’oggetto rocchetto, oggetto perduto e cercato nel campo dell’Altro, è ciò che crea la beanza tra la presenza e l’assenza, lo spazio vuoto, creato dall’Altro che se ne va. «Ciò che viene a cadere non è l’altro in quanto figura in cui il soggetto si proietta, ma la bobina legata a lui da un filo ch’egli trattiene- in cui si esprime ciò che di lui in questa prova si stacca, l’automutilazione a partire da cui l’ordine della significazione va a mettersi in prospettiva» [8]. Ciò che ci sembra interessante riprendere, a partire dalle considerazioni di Lacan nello stesso seminario, è che questo gioco sulla ripetizione non è un esercizio di padronanza rispetto all’allontanamento della madre, ma è un esercizio di allenamento all’alienazione fondamentale dall’Altro, che mette in luce il vacillamento radicale del soggetto. Lacan sottolinea qui come questo gioco rappresenti la prima forma di opposizione, in cui il soggetto è nell’oggetto bobina che si ritrova come soggetto, ma è anche in quel filo che lui trattiene o srotola e che indica la possibilità del soggetto di regolare la distanza possibile dall’Altro. È la forza con cui lancerà il rocchetto che deciderà, in altre parole, la sua distanza dall’Altro. È nella ripetizione del gioco, nel lancio del rocchetto e del suo filo che qualcosa di nuovo accade, qualcosa che mette in luce il vacillamento radicale del soggetto. Perché «la ripetizione domanda del nuovo. Si rivolge al ludico che di questo nuovo fa la sua dimensione» [9]. È infatti proprio nel gioco psicodrammatico, quando Sonia viene chiamata a “fare il rocchetto”, ad occupare immaginariamente il posto dell’assente, qualcosa di sé appare. Ma è in quel filo, nella forza che Sonia adopererà per lanciarsi nel campo dell’Altro che si rivelerà la sua possibilità di poter accorciare la distanza dagli altri, dall’Altro, aprendo nuovi orizzonti.

ANTONIA GUARINI, Psicoanalista, Psicodrammatista Didatta S.I.Ps.A., Responsabile Jonas Bari, Docente IRPA (Istituto di Ricerca di Psicanalisi applicata)

ILENIA LINCIANO, Psicoterapeuta C.O.I.R.A.G. con formazione in Psicodramma Analitico, Socio fondatore Jonas Bari, Docente tutor IRPA (Istituto di Ricerca di Psicanalisi applicata)


Note

  1. Lacan J. (1979: pag.62, 63, 243) Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 1979  []
  2. Brusa L. (2006), Il trauma nella clinica psicoanalitica in “Civiltà e disagio. Forme contemporanee della psicopatologia” ed. Bruno Mondadori, Roma, p.66  []
  3. Ibid., p.67  []
  4. Lolli F.(2014), L’infanzia del sintomo in “La clinica psicoanalitica nella cura del bambino e dell’adolescente”, ed. Mimesis  []
  5. Soler C. (2010 pag. 47) Lacan, l’inconscio reiventato Franco Angeli, Milano  []
  6. Ibid., pp.46-47  []
  7. Brusa L., op. cit.  []
  8. Lacan J., op. cit., p.63  []
  9. Ibid., p. 62  []


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