Psicosi invisibili
Capitoli singoli
Franco Lolli
Il sentimento della vita
e le sue perturbazioni
nelle psicosi non scatenate
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Franco Lolli individua un elemento specifico che contraddistingue molte di quelle “vite apparentemente normali” dietro le quali si camuffa una struttura psicotica: si tratta della perdita del senso dell’ovvietà delle cose, un fenomeno clinico concettualmente affine a quello che Ernesto De Martino ha definito crisi della presenza. Rispetto a questa crisi il soggetto si impegna nella realizzazione di un riscatto che consiste nella creazione di un nuovo sistema di senso capace di ‘rispondere’ efficacemente all’irruzione dell’evento traumatico. Infatti, nel caso delle psicosi non scatenate, il collasso della significazione non genera un vero scompenso, non produce un delirio o un’allucinazione, ma si cronicizza all’interno di una finta normalità. La significazione della vita da parte dell’Altro si acquisisce, secondo la teoria lacaniana, nella fase dello specchio, nel momento in cui l’io si riconosce nell’immagine riflessa grazie al riconoscimento offerto dall’Altro, quell’atto simbolico espresso, generalmente, dalla frase: “tu sei quell’immagine lì”. È il desiderio dell’Altro che consente al soggetto di trovare il proprio posto nell’universo simbolico che l’accoglie. Ciò non significa che nel caso delle psicosi invisibili siano necessariamente mancate le attenzioni e i ‘buoni sentimenti’, piuttosto, al contrario, si è trattata di un’offerta intrusiva, eccessiva, asfissiante, motivata dal bisogno genitoriale di trovare nel proprio figlio una protesi sulla quale appoggiarsi.
Marco Francesconi
La psicosi ambigua: sottili irruzioni
della psicopatologia nell’odierno
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Marco Francesconi inizia il suo intervento rivisitando il concetto di disagio a partire dal testo freudiano Il disagio della civiltà, concetto declinato nell’articolo in più direzioni e differenti prospettive. L’epoca contemporanea sembra attraversata da una cronicizzazione ambigua del disagio, diretta ad una certa “normalizzazione” dello stesso, fino a renderlo addirittura attraente, imponendolo come nuova e prepotente forma di godimento che scalza e sovverte la desueta logica del piacere, così come descritta da Freud.
L’intensa ed eccessiva visibilizzazione della follia porta a domandarsi se e cosa sia rimasto ancora di invisibile. La visibilità a tutto campo rischia di condurre ad un accecamento da abbagliamento per troppo pieno, piuttosto che ad una ricca disponibilità di oggetti da esplorare.
L’Autore prosegue il suo intervento seguendo la premessa se sia legittimo declinare su dimensioni gruppali o sociali concetti psicoanalitici nati dall’esperienza con soggetti singoli. La possibilità di arrischiarsi in questo campo ha portato alcuni autori a parlare negli ultimi anni di nuove forme contemporanee di psicopatologia, lontane dal concetto di rimozione, che consentiva la risoluzione (nevrotica) del conflitto tra pulsione e inibizione (individuale e/o sociale) attraverso la soppressione del moto pulsionale ed una sua forma sostitutiva di soddisfacimento, con la formazione di sintomi densi di significazioni simboliche.
Francesconi ritiene che non sia necessario appellarsi ad una nuova clinica, quanto piuttosto ricercare nella perversione la matrice per affrontare le nuove patologie. Declina nell’intervento i punti di contatto e di differenza tra le strutture (nevrosi, psicosi e perversione), fornendo anche per una via terapeutica possibile. Ad esempio ritenendo che il lavoro interpretativo debba avere, in questi casi, più che il carattere affermativo di una neolettura, quello di smentita, smentire l’ipotesi pessimistica di qualcosa che ha a che fare con il sé del paziente, come se questi chiedesse inconsciamente al terapeuta:“mostrami che non sono così!”.
Un testo denso di riferimenti bibliografici che consentono la letture di differenti e varie declinazioni del tema.
Matteo Bonazzi
La psicotizzazione del legame
e il suo rovescio
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Matteo Bonazzi inizia il suo intervento con una considerazione: ogni epoca è una forma di legame e la psicosi ordinaria è un modo di nominare un cambiamento epocale, un tentativo di leggere una trasformazione in atto.
Il punto centrale dell’articolo è la necessità di ridefinire le modalità di soggettivazione secondo un’etica che non sia più “classica”. Il primo paradigma che l’Autore prende in considerazione è quello della soggettivazione attraverso lo specchio, secondo cui è la definizione del corpo a costituire il fondamento della soggettività stessa; si tratta di un processo di soggettivazione che opera sempre tramite tre elementi: io, l’altro e l’Altro, e, in quanto triadico, è un paradigma dialettico. A partire dall’osservazione di Lacan secondo cui “il corpo è un buco” e non un’immagine, Bonazzi procede verso il secondo paradigma della soggettivazione, non più centrato sull’immagine, ma sulla scrittura, sulla topologia dei nodi, un paradigma a quattro e non a tre, un paradigma che ci aiuta a sintonizzarci sulla soggettività della nostra epoca. Per comprendere questo paradigma occorre seguire l’operazione di Lacan, il quale non realizza l’integrazione di ciò che Freud ha scoperto con altri e nuovi elementi, ma propriamente lo rovescia. Se nell’etica classica il riferimento portante era proprio la parola e il linguaggio che ci poteva salvare dalle pastoie del godimento immaginario, quando tutto si rovescia la parola diventa la forma di cancro che affligge l’essere umano, la sua condanna, non la sua salvezza. Per arrivare alla psicosi ordinaria, allora, bisogna seguire la pista di Joyce: dal primato dell’immagine, che orientava il paradigma classico, occorre passare al primato della scrittura.
Si tratta di spostarsi dalla centratura freudiana per cogliere ciò che rendeva operativa la funzione paterna, rintracciandola proprio nell’arte, nel saperci fare di una scrittura che si genera, spontaneamente, a partire dall’oggetto a.
Emanuela Mundo
Commento teorico-clinico
a un caso di psicosi invisibile
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L’intervento di Emanuela Mundo si basa su un caso clinico che viene diviso in due tempi, non cronologici: quello della narrazione della storia e quello della cura. Il primo tempo lascia emergere quello spaesamento, o “intorpidimento della soggettività”, che può essere descritto come una parziale distruzione del fattore soggettivo che implica un vuoto interiore, un senso di sé smarrito, una scarsa inclinazione a vivere l’esperienza soggettiva, un’identità che non poggia sul lavoro mentale. Particolare rilievo viene dato alla narrazione del paziente riguardo al padre, descritto come un uomo debole, fisicamente fragile, assente, irascibile. Eppure, non è questo che fa del padre una presenza o assenza simbolica, una metafora paterna operativa o meno. Quello che rende la metafora paterna non operativa, in questo caso clinico, è la caduta nel vuoto delle domande e l’assenza di una posizione precisa, in quanto terza, che separi il paziente dalla madre, che pacifichi, delimitandolo, l’enigma sul desiderio della madre. Questo scacco della “metafora paterna” impedisce di fare esperienza della domanda che ci si farebbe se fossimo nell’ambito delle nevrosi: “cosa vuole l’Altro da me?”. Anche se le domande al padre cadono nel vuoto, il paziente non troverà le risposte alle sue domande con una certezza delirante (come avverrebbe se la psicosi fosse visibile, scatenata) ma con una “supplenza”: un elemento, un’attività, qualcosa che lo stabilizza, che gli permette di avere un filtro rispetto al reale.
L’Autrice passa poi a trattare la particolarità della cura psicoanalitica di questa psicosi invisibile, sottolineando come l’Altro, per lo psicotico, non sia il detentore del sapere poiché è lo psicotico stesso a detenere il sapere. L’analista deve quindi fare un po’ da “segretario dell’alienato”, come dice Lacan, deve mettere in ordine ciò che è in disordine, non deve interpretare (anche e proprio perché non è nella posizione di “soggetto supposto sapere”) ma deve guidare, indicare la strada del saper fare, del sapersi muovere.