Il paradosso della fondazione tra psicoanalisi e fenomenologia.
Note su L’inconscio e il trascendentale di Giovanni Leghissa


L’ultimo libro di Giovanni Leghissa, L’inconscio e il trascendentale (Orthotes 2023) mette a tema un intreccio fecondo tra due discipline, la filosofia e la psicoanalisi, a partire da due punti di eccentricità reciproci: il trascendentale è l’eccentrico per la clinica di orientamento psicoanalitico (e per qualsiasi clinica, in verità)[1] e l’inconscio non è un termine tecnico della filosofia, a differenza del primo, bensì è il concetto principe su cui lavora la psicoanalisi. Cosa potrebbe dunque legare l’inconscio e il trascendentale? Il sottotitolo – Saggi tra filosofia e psicoanalisi – è eloquente in questo senso perché allude alla possibilità di attraversare la filosofia “forti” dell’esperienza dell’inconscio, e viceversa di non dimenticare che la psicoanalisi, proprio in quanto scienza dell’inconscio, integra, sorprendentemente, il gesto trascendentale stesso. Cosa hanno in comune l’inconscio e il trascendentale, o meglio in che modo l’inconscio getta luce sul gesto trascendentale? Per dirla in termini fenomenologici, l’inconscio getterebbe luce sulla natura antepredicativa di ogni atto di fondazione trascendentale, ovvero sul fatto che ogni gesto con cui avviamo una conoscenza possibile di qualcosa mantiene un legame con ciò che non può essere ricompreso nelle condizioni di possibilità di tale conoscenza. Il “sostrato antepredicativo” (p. 112) che fonda ogni conoscenza possibile e da cui si parte per fondare ogni conoscenza possibile è il retroscena inconscio di qualsivoglia gesto di fondazione trascendentale: detto in altri termini, è la sua camera oscura, la sua “macchia cieca”, il suo inconscio. Con inconscio non intendiamo qui nulla di recondito o inaccessibile, né tantomeno illogico o irrazionale, ma intendiamo propriamente ciò di cui fa esperienza un analizzante sul lettino: l’emergere di qualcosa di involontario, di inconsapevole, di fortuito e arbitrario, che rende incompleta la sua pretesa di conoscenza integrale di se stesso e del mondo. Proprio come l’inconscio è l’inciampo di un io che si vorrebbe autocosciente e che avrebbe il miraggio di una cattura totale del sé, allo stesso modo l’inconscio è l’inciampo del trascendentale qualora questo si presenti come strumento conoscitivo dello stesso io autocosciente che abbiamo appena descritto. L’inconscio è l’inciampo del trascendentale nella misura in cui fa sì che le condizioni di possibilità del pensabile formulate da un qualunque soggetto della conoscenza – o da chi ne rivesta uguale funzione – non siano richiudibili una volta per tutte, ma sempre esposte a essere intaccate dall’empirico da cui sono inevitabilmente determinate e a cui si intrecciano in maniera non disgiungibile, in un groviglio o in un’embricazione che non è diversa da quella tra inconscio e coscienza nella costituzione identitaria e nell’esperienza analitica. Si precisa così in maniera ulteriore il legame tra inconscio e trascendentale che struttura il saggio: da un lato, l’inconscio del trascendentale svela il meccanismo che sta alla base della fondazione del sapere e di ogni pratica di autoposizionamento del soggetto, ovvero un meccanismo di aggancio necessario a un antepredicativo, un infondato, un “precategoriale” che il soggetto non potrà dominare interamente e da cui sarà accompagnato in ogni gesto e in ogni atto di conoscenza, tanto sul lettino quanto fuori, in posizione eretta. Dall’altro lato, il trascendentale dell’inconscio fa sì che qualcosa dell’inconscio resti valido e ripetibile di esperienza in esperienza, di volta in volta. Il trascendentale dell’inconscio assicura insomma che ci sia ripetizione delle strutture dell’esperienza, che ci sia trasmissione delle stesse e soprattutto che di esse si possa fare “scienza” nella misura in cui esse sono conoscibili: è proprio per aver precisato questo legame che Giovanni Leghissa può insistere sulla geniale definizione lacaniana di psicoanalisi come “scienza senza sapere” (p. 7). Il gesto trascendentale è di natura inconscia, ribadiamolo: non nel senso che si tratti di un gesto ineffabile, di cui non si può dire – cadendo così in una mistica della fondazione – bensì nel senso che esso non è trasparente a se stesso, è portatore di una dose non eliminabile di opacità; non è, insomma, un gesto coscienziale. Nel corso del suo saggio, Leghissa smentisce acutamente l’ipotesi di Husserl, espressa nell’Appendice XXI dell’Husserliana, secondo cui “non ha molto senso, per il fenomenologo, occuparsi dell’inconscio” (p. 5) e lo fa mostrando quanto sia proficuo, non solo per la figura del fenomenologo, ma del filosofo in generale, occuparsi di inconscio. Leghissa ricorda infatti quello che è il paradosso di fondo che investe la figura del fenomenologo, paradosso tale per cui egli vorrebbe ambire alla fondazione di una scienza pura e rigorosa ma, nel far questo, si “sporca le mani” con atti di fondazione che hanno carattere anche empirico, senza che tuttavia il loro carattere empirico ne comprometta quello trascendentale, ma anzi avvalorando quest’ultimo nel suo rigore. Leghissa percorre nel suo saggio la circolarità non viziosa ma produttiva tra questi due poli – il trascendentale e l’empirico – che qualsiasi soggetto, impegnato continuamente in pratiche e atti di fondazione del proprio sapere, abita. L’intento è duplice e consiste nel mostrare, da un lato, come ogni soggetto alle prese con la costituzione di un sapere su se stesso (così si potrebbe peraltro intendere un’analisi), o sul mondo, sia un soggetto in carne ed ossa, un soggetto empirico, e, dall’altro, come questo stesso soggetto non renda mai conto solo di sé ma di una serie di costanze e ripetizioni filogenetiche che, attraverso i suoi atti, rendono valido il sapere per chiunque (jedermann) e possono essere compiute da chiunque. È qualcosa di così diverso da un’analisi? Dal metodo, dalla pratica e dalla “scienza” psicoanalitica? Affatto. L’analizzante[2] è propriamente “un chiunque” impegnato in una costituzione di sapere su di sé e sul mondo, e al tempo stesso è un soggetto empirico e assolutamente singolare: nell’empiria dei suoi processi di costituzione e comprensione del mondo sta ripetendo le condizioni della conoscenza in generale, le sta incarnando e le sta mimando; è questo il motivo per cui, in maniera tutt’altro che tranchante, tanto in fenomenologia quanto in psicoanalisi, possiamo asserire con Leghissa che “il soggetto trascendentale e il soggetto empirico sono lo stesso” (p. 6). La psicoanalisi, come la fenomenologia, è una disciplina particolarmente sensibile all’intreccio tra il soggetto trascendentale e il soggetto empirico, che ha il carattere di un paradosso necessario. Perché questa questione controversa riguarderebbe la psicoanalisi? Perché uno psicoanalista dovrebbe (poter) leggere Husserl, tra gli altri, e perché un buon fenomenologo dovrebbe leggere, tra gli altri, Freud e Lacan? La psicoanalisi è toccata dalla questione trascendentale, e dall’intreccio tra soggetto trascendentale e soggetto empirico, nella misura in cui tale intreccio può fare chiarezza su un suo mistero fondamentale: com’è possibile che pazienti di tutte le epoche presentino certe strutture comuni e generali su cui la psicoanalisi, forte della propria trasmissione, può intervenire, di paziente in paziente, superando le particolarità di ciascuno eppure tenendone conto? La risposta è proprio: per il carattere trascendentale dell’inconscio. La purezza del sapere psicoanalitico, la validità costante dei suoi strumenti entro il perimetro della propria disciplina, garantisce che la psicoanalisi abbia effetto, ovvero che colga qualcosa di quelle strutture generali e comuni a chiunque, che sono strutture generali della presupposizione, modi operativi di elaborare le esperienze, modalità di pensiero che investono le esperienze di senso. Tali modalità sono particolari a ciascuno – la psicoanalisi lavora col punto di maggiore e irriducibile particolarità di un soggetto (il suo Reale) – e al tempo stesso generali e rinvenibili in chiunque: tale paradosso, che non è altro che la coincidenza tra soggetto trascendentale e soggetto empirico, investe la psicoanalisi, al pari di qualsiasi altra disciplina nell’archivio dei saperi, e permette qualcosa di una sua trasmissibilità, legata appunto al suo carattere anche trascendentale. Da parte del fenomenologo e dello psicoanalista, tener conto di questo carattere significa considerare la corporeità come posta in gioco inclusa in ogni processo (pratico, conoscitivo, terapeutico, et caetera) ma avere l’abilità di sospenderla per poi farla rientrare a un altro livello: si tratta della mossa sistematica della fenomenologia, come anche di una psicoanalisi avvertita sul proprio funzionamento in quanto sapere e in quanto pratica. Il fatto che l’inconscio abbia una natura trascendentale serve alla psicoanalisi e agli psicoanalisti più di quanto, forse, possiamo immaginare: questo semplice termine rinnova l’attualità della psicoanalisi e ne precisa ulteriormente la funzione sia per se stessa sia rispetto agli altri saperi con cui è chiamata a confrontarsi nel complesso dell’enciclopedia, ad esempio le neuroscienze. Leghissa è molto preciso nel ricordare che c’è una materialità irrinunciabile (quella stessa materialità che continuamente esce e rientra in ogni operazione fenomenologica) a costituire il terreno principe della psicoanalisi: l’inconscio. La psicoanalisi vive infatti un’oscillazione che è comune anche alla fenomenologia: quella tra la materialità dei processi cognitivi, sinaptici, libidici e corporei da un lato e l’astrattezza di un metodo che deve poter andar bene per tutti pur implicando un riadattamento per ognuno. Leghissa ritorna in più punti su questa bifidità della psicoanalisi, lasciando intendere che non è auspicabile rinunciarvi: la psicoanalisi, infatti, è sì una “scienza della cultura” (p.70) ma “volutamente non disposta a mettere completamente da parte l’ipotesi che la libido mantenga un qualche legame con il chimismo che governa le reazioni adattative degli organismi” (ibidem). In questa definizione risiedono le due anime della psicoanalisi e della fenomenologia, dell’inconscio e del trascendentale, che emergono dal paradosso che ha attraversato la ricerca sia di Freud che di Husserl: il soggetto che si auto-costituisce negli atti di costituzione del proprio sapere è abitato sia da “affettività e pulsioni” sia da “simboli e codici” (p. 71), laddove queste due coppie si danno come “embricate” (cfr. ibidem) e mai disgiunte. Tale embricazione è sufficiente a dimostrare l’inadeguatezza di una opposizione tra natura e cultura, reale e simbolico, empirico e trascendentale, particolare e universale, sia in fenomenologia che in psicoanalisi, al punto che sarebbe opportuno parlare di soggetto empirico-trascendentale in fenomenologia come di animale parlante (o animale mancante) in psicoanalisi. Leghissa insiste a ragione su queste due anime non distinguibili, che sono le stesse dei fondatori delle due discipline: è vero che in Husserl il ruolo dell’affettività e dei tratti pulsionali implicati necessariamente in ogni pratica e in ogni atto di fondazione non è così visibile, ma bisogna ricordare che è proprio la fenomenologia husserliana ad aver messo a tema questo tipo di corporeità. Ricordando la postura alquanto scettica di Husserl rispetto all’inconscio (ovvero: solo dopo aver saputo tutto della coscienza, il fenomenologo potrà, eventualmente, occuparsi di inconscio, e non è neppure così auspicabile), Leghissa rinviene il limite dell’impresa husserliana, impresa che per essere più avvertita dovrebbe essere completata dalla psicoanalisi. Secondo Leghissa, nonostante la messa a tema della corporeità che essa stessa permette, la fenomenologia “non ha saputo investigare fino in fondo” tale corporeità e questo perché non ha interrogato l’inconscio, inconscio che tuttavia “essa non può non lasciar vedere” (p. 13, corsivo mio). Il limite della fenomenologia sarebbe così completato dalla psicoanalisi, più consapevole delle due anime cui si accennava. Mentre in Husserl la costituzione vivente e pulsionale del sapere non è così evidente – anzi, essa va portata a evidenza proprio con un occhio psicoanaliticamente avvertito, come quello dell’autore – in Freud essa lo è eccome: Leghissa insiste tanto sul Freud che “studiando le gonadi delle anguille” nella Zoologische Station “vede e tocca lo spazio interno del vivente” (p. 67) quanto sul Freud che, dopo tutte le sue ricerche empiriche, sceglie “l’intangibile spazio di una mente che si colloca in un’altra scena […]” (p. 68). L’oscillazione della psicoanalisi, identica a quella della fenomenologia, si gioca quindi tra un’immaterialità e intangibilità assoluta (rispettivamente quella dell’inconscio e del trascendentale) e una concretezza che, paradossalmente, porta gli effetti di tale immaterialità. Il paradosso a cui dobbiamo abituarci, infatti, è che qualcosa di immateriale, di realmente inesistente (l’inconscio, il trascendentale) provochi effetti concreti, comporti strascichi più che tangibili nell’esperienza. Questo la psicoanalisi lo sa bene: tutta la sua pratica, le sue operazioni, il suo fare, fanno con qualcosa che non c’è, che non è ontologicamente individuabile o localizzabile (l’inconscio), eppure è di questo che gli analizzanti patiscono, godono, è in questo nulla che gli analizzanti e gli analisti sperano, è su questo nulla immateriale dotato di effetti materiali che l’analizzante e l’analista possono fare affidamento per il procedere di una cura. Per questo, da una prospettiva trascendentale, non ha molto senso affannarsi a localizzare l’inconscio, missione di certe scienze cognitive: sì, l’inconscio potrebbe collocarsi nelle reti neurali, forse è il luogo più probabile, ma anche nella genitalità, nella pelle,[3] nell’Altro (nell’altro in carne e ossa e nell’Altro del linguaggio), negli oggetti ricoperti di investimento dalla nostra libido. Insomma, anche se “muoversi […] in direzione di una collocazione spaziale dell’inconscio nell’unica sede ontologicamente plausibile per esso, ovvero la rete neurale, non è affatto una perdita di tempo” (p. 68), è importante ricordare, col saggio di Leghissa, che l’inconscio non può ridursi al sostrato neurale perché l’inconscio va cercato in quel sostrato antepredicativo che è lo stesso della fondazione trascendentale della fenomenologia. Il fatto che il luogo della fondazione di un sapere, sia esso la psicoanalisi, la fenomenologia, o un’altra disciplina dell’enciclopedia, non possa rendere conto di se stesso in maniera esaustiva basta di per sé a ricordare l’attualità della premessa fondamentale della psicoanalisi: esiste l’inconscio; o meglio: proprio perché non esiste, l’inconscio produce effetti. Leghissa descrive eccellentemente questo paradosso: “La psicoanalisi […] è stata in grado di produrre effetti sul piano epistemico proprio in quanto sapere che si interroga su ciò che non c’è, ovvero su quell’effetto di realtà, sul piano individuale e collettivo, prodotto dall’inconscio freudiano” (p. 68).

Un nucleo centrale del saggio di Leghissa riguarda inoltre le implicazioni politiche di questa riflessione condotta in sede principalmente teoretica: essere accorti sui meccanismi inconsci della fondazione del sapere può aiutarci a mantenere una distanza critica rispetto agli esiti di quei discorsi che non vedono quanto il nesso tra inconscio e trascendentale sia implicato con il potere e con i suoi luoghi di produzione. Leghissa menziona alcuni di questi luoghi simbolici e delle derive da cui possono essere colti, derive che possiamo definire, prendendo in prestito un termine da Lacan, come “unarie”. I luoghi investiti da derive potenzialmente “unarie” sono, tra gli altri, la teologia, l’insegnamento, e i discorsi filosofici sull’uno. La storia dell’uno è, potremmo dire, vecchia quanto la filosofia stessa: “Non appena si pone che c’è qualcosa, vi è anche l’uno. Irriducibile alla metaforizzazione, […] l’uno si presenta come concetto puro. Tutte le esperienze possibili presuppongono questo beato riposo presso di sé del concetto, questo non voler sapere nulla degli oggetti che ne mimano l’unità e l’unicità non appena sono pensati, cioè non appena sono connotabili come ciò di cui si predica qualcosa” (p. 141). Ricorrendo alla decostruzione derridiana, e in particolare al Derrida de La mitologia bianca, Leghissa mostra come tale uno, concetto puro, idea avulsa dal sensibile, “idea dell’idea”, “divina indifferenza verso il molteplice” (p. 142), altro non sia che un concetto costruito, plasmato, da quella materia mista di trascendentale e empirico da cui l’empirico è stato puntualmente, ancora una volta, espunto. Tale espunzione dell’empirico, ovvero della materialità incarnata caratteristica dei processi di fondazione del sapere, permette di presentare il proprio sapere come puro, non intaccabile, perfettamente valido, identico a nient’altro che a se stesso, in altre parole “uno”. Questa strategia discorsiva è affibbiata da Leghissa a quelle che genialmente definisce le patologie dell’insegnamento, basate sulla trasmissione dell’uno come concetto. Leghissa invita a guardarci dalla fascinazione che i discorsi sull’uno esercitano, in teologia, in filosofia, in politica, e in qualsiasi campo in cui vi siano un maestro e degli allievi, o un leader e dei seguaci. Per resistere a tale fascinazione, di matrice tanto mitica quanto allucinatoria, “dipendente dal carattere anche mitico dell’unità intesa quale unità e unicità dell’origine” (p. 145) bisogna attuare delle strategie che afferiscono al pensiero critico e a un’alleanza possibile tra filosofia e psicoanalisi. In primo luogo, bisogna essere avvertiti sul meccanismo di fondazione del sapere che Leghissa ha descritto in più punti del saggio ricorrendo a strumenti fenomenologici, [4] ovvero quel meccanismo per cui la corporeità del soggetto che fonda il sapere viene sospesa per poi rientrare a un altro livello, al punto che essa non potrà mai essere interamente soppressa, per cui si ritroverà in vari momenti del sistema ed è bene tenerne conto. In secondo luogo, per evitare di indulgere alla fascinazione dell’uno, Leghissa nota come la filosofia non possa contare solo sui propri strumenti ma abbia bisogno di uscire dal proprio perimetro disciplinare, argomentativo, retorico, e teorico per “essere vista da fuori” da un altro sapere che può svelare qualcosa dei suoi presupposti impliciti. Tra i presupposti non questionati prima di iniziare a filosofare troviamo una struttura discorsiva che possiamo definire – nella maniera più ampia possibile – “maschile” e il fatto che questa sia detentrice di una razionalità rispetto non solo al femminile ma a tutte le soggettività rubricate come altre (è la struttura di discorso che Derrida ha giustamente definito fallogocentrica). Tra i presupposti impliciti troviamo, ancora, una certa idea di “famigliare contrapposto allo straniero” (p. 144) e una certa idea di “proprio”, che riguarda non solo il “proprio” ambito disciplinare (cos’è filosofia e cosa non lo è) ma anche l’appropriazione del soggetto pensante su se stesso, ovvero il tentativo – direi disperato – di ridursi a un’identità cosciente che pensa. Di nuovo, a un uno. Leghissa ci mette in guardia da questa modalità del discorso filosofico, ma anche teologico, politico, e in generale di trasmissione del sapere (insegnamento), e ci ricorda che la psicoanalisi può avere una funzione tutt’altro che secondaria nel ridurre i rischi che derivano dall’abbracciare acriticamente queste modalità di pensiero e di discorso: “nel caso sia in questione la necessità di decostruire la potenza fascinatoria dell’uno, proprio la psicoanalisi fornisce strumenti assai efficaci. La psicoanalisi, infatti, è anche una pratica discorsiva atta a mostrare quanto sia problematico assimilare in modo pacifico e pacificante l’uno e il soggetto, quanto sia frutto di un abbaglio rendere il tratto unario ciò senza di cui il soggetto non potrebbe articolarsi. Ma non solo: la psicoanalisi intende mostrare a quali condizioni il tratto unario diviene quell’operatore che fa scattare la fascinazione per l’unità, l’origine pura, insomma per la macchina che produce identificazioni stabili e fisse. In tal senso, è da una possibile alleanza tra filosofia e psicoanalisi che potrà scaturire qualche strategia atta se non a eliminare, per lo meno ad attutire la volontà di ‘fare uno’” (p. 144). Quello che da un’alleanza tra la filosofia e la psicoanalisi potrebbe scaturire è appunto la capacità di criticare la supposta identità che fonda il sapere, o meglio l’identità che è supposta fondare il sapere: il saggio di Leghissa ricorda con forza come la scissione identitaria tra io e inconscio, riconosciuta nel suo corrispettivo filosofico, ossia la scissione-embricazione (quindi il chiasma) tra trascendentale e empirico, sia l’apertura più salutare per il pensiero critico contemporaneo, perché permette ancora oggi di pensare a che condizioni un soggetto può pensare, completando la missione trascendentale husserliana con una integrazione antropologica che può giungere in modo così rigoroso solo e unicamente dalla psicoanalisi.


Note

  1. Esiste, come noto, una clinica di orientamento fenomenologico, nelle sue diverse varianti: psicologia fenomenologica, psichiatria fenomenologica, psichiatria fenomenologico-esistenziale. Il trascendentale è certamente un operatore teoretico presente nei loro sistemi, ma non è uno strumento clinico tout court, e questo per ragioni sia disciplinari sia costitutive della nozione di trascendentale stessa, che si presta solo parzialmente a un’applicazione.  []
  2. Termine introdotto da Lacan, che permette di staccare il soggetto di un’analisi dal luogo della passività (paziente) e della “fruizione” di un percorso terapeutico. L’analizzante è colui che analizza, che è a lavoro sul proprio inconscio, non da solo ma con un analista che traccia, non senza il proprio inconscio, la direzione della cura.  []
  3. Cfr. D. Anzieu, L’Io-pelle, Borla, Roma 1994.  []
  4. Si vedano in particolare: “Lo schematismo e la differenza tra trascendentale ed empirico” (pp. 111-115) e “La differenza tra metafora e concetto come apertura del sistema” (pp. 116-125).  []